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    M@gm@ vol.7 n.1 Gennaio-Aprile 2009

    DIASPORICI METROPOLITANI: NUOVI SCENARI QUOTIDIANI DI LOTTA DI CLASSE




    Sergio Straface

    strasazio@yahoo.it
    Demoetnoantropologo e Tecnico qualificato per la gestione di Musei. Svolge ricerche sul campo (etnografia performativa), con particolare interesse allo studio del folklore nello scenario contemporaneo; I suoi campi di interesse riguardano principalmente le politiche egemoniche e le strumentalizzazioni strategiche della cultura ufficiale nei processi di conservazione, mutamento, ri-produzione e consumo della cultura popolare, nonché degli effetti di tali processi anche in contesti metropolitani. Attualmente è impegnato nella produzione di reportage etnografici e nello studio delle problematiche di esposizione e gestione dei musei DEA. Sua pubblicazione: Cellara. Il culto e la festa di San Sebastiano (Ursini Edizioni, 2006).

    "E’ per l’esattezza colui che chiamiamo sano di mente che si aliena,
    poiché acconsente a vivere in un mondo definibile solamente
    attraverso la relazione dell’io con l’altro."
    Claude Lévi-Strauss

    L’intelligenza come costruzione culturale

    Uno dei concetti su cui mi piace riflettere è quello della velocità. Più precisamente se sia possibile connettere l’intelligenza alla velocità. Oggi è necessario essere veloci e il vivere velocemente ha conquistato la quotidianità confondendosi strategicamente con la nozione di intelligenza. Le coordinate della surmodernità: l’accelerazione della storia, il restringimento dello spazio e l’individualizzazione dei destini (Augé, 1993) pare abbiano imposto la velocità come conditio sine qua non sia improbabile conquistare un dignitoso ruolo sociale. Velocità come chiave di accesso, password obbligatoria, condizione connettiva con cui l’io finalmente accede all’attuale e soprattutto intelligente modo di vivere.

    La mia riflessione si concentrerà sull’esempio di lentezza proposto dai barboni, da ora in poi definiti diasporici metropolitani. Velocità vs lentezza, dunque, per una riflessione sulle contemporanee dinamiche del vivere metropolitano. Mi soffermerò su sensazioni, emozioni, ricordi e principalmente dubbi, per articolare una prima critica dell’equazione normativa “velocità uguale intelligenza” nonché per mostrare un esempio di resistenza, un modello altro in opposizione da quello dominate.

    Possibile che oggi essere veloci equivalga ad essere intelligenti? Si può essere veloci e nel contempo intelligenti? Ma soprattutto, come è possibile essere veloci e intelligenti nella produzione di significati nella contemporaneità percepiti come socialmente, storicamente e retoricamente costruiti? Infine, se la velocità ha una connotazione di tipo locale, si può essere intelligenti allo stesso modo pur vivendo in contesti tempo-culturali differenti, o è necessario sviluppare intelligenze multiple, mutanti, da scorporare strategicamente in specifiche circostanze?

    Se è vero che all’inizio del secolo scorso l’intelligenza veniva percepita come valore naturale unitario distribuito nella popolazione in modo diseguale e che tale concetto sia stato giustamente decostruito grazie agli sviluppi delle neuroscienze e dalle discipline cognitive (Scuderi, 2007) allora è altrettanto vera l’ipotesi che il concetto di intelligenza sia una costruzione culturale e non naturale. L’intelligenza è, dunque culturalmente, storicamente e localmente connotata.

    Secondo l’analisi di Howard Gardner non esiste un’intelligenza unica: al contrario, ognuno di noi è dotato di un infinito numero di intelligenze e tutti possiamo svilupparne di diverse se messi nelle condizioni adatte (Gardner, 2002).

    Si sa, essere etnografi significa stare sempre all’erta. Bisogna essere mossi dalla curiosità intellettuale di decostruire, moltiplicare e mixare i propri punti di vista, nel tentativo di sperimentare e, possibilmente, creare nuove conoscenze. Ogni esperienza etnografica assume così fattezze magiche. Magicamente offre la possibilità di apprendere infinite cose che non servono ad aumentare le certezze, bensì a moltiplicare incertezze da cui si sviluppano nuovi e inediti orizzonti (Augé, 2007). E, misteriosamente, nel disordine empiricamente analizzato, e nella complessità che si dispiega agli occhi di chi curiosamente osserva, il corpo etnografico si sensorializza per farsi ricettore critico, sensore aperto a nuovi saperi.

    La finalità dell’osservazione partecipante e partecipata, quella dell’etnografo e dell’etnografia militante, si presenta come un lavoro su di sé, verso la comprensione del non-io, che può far trasparire qualche cosa sulla complessità dei sistemi presenti (Laplantine, 2004). Corpo etnografico, dunque, come strumento-paradigma performante che sperimenta la dimensione spettacolare della vita quotidiana in una dimensione cognitiva che va al di là di se stessi, connettendosi ad identità plurime, per tramare verso una dimensione necessariamente collettivizzata (Bateson, 1982).

    Velocità, quindi, come “[…] categoria di senso che gli altri usano per vivere la propria realtà” (Apolito). In questo specifico caso, si parla degli altri con la pretesa di non universalizzare tale concetto ma localizzarlo, o meglio delocalizzarlo, unicamente alla sua specifica relazione spazio-temporale, o addirittura multi/spazio-temporale. Di conseguenza, se l’equazione normativa “velocità uguale intelligenza” è una costruzione, e se la velocità è semplicemente uno strumento pervasivo e fisicamente invasivo che riduce la quotidianità ad un ordine politicamente costruito, sarà corretto identificare velocità e intelligenza?

    Diasporici metropolitani e centri abitativi

    Per chi proviene da contesti medio-piccoli, come quello di Catanzaro Lido, vivere nel centro di una metropoli provoca uno choc sensoriale che mostra quanto sia localmente connotata la modalità con cui il tempo esercita la sua funzione normativa sulla vita quotidiana, e quanto sia relativa la percezione del tempo nelle relazioni tra gli esseri umani. Sta, di fatto, all’osservatore cogliere quella rete di legami sociali che dà vita all’idea locale di tempo, tentando di comprendere come varia il senso dell’esperienza della vita quotidiana (Augé, 2006).

    A Roma bisogna essere veloci, e la tensione verso la rapidità ibridizza il profilo soggettivo verso una dimensione collettivizzata che pluralizza l’esperienza quotidiana, dando un ordine apparente al caos percepito nella città. Così, non è sempre facile sfuggire ai vizi della routine. Quella stessa routine che talvolta esercita effetti di seduzione, spesso drammatici, che scopre la complessità di una situazione che rischia di sfuggire di mano.

    A Roma ci sono i diasporici metropolitani. Chi si reca in centro, nei pressi della stazione Termini o Tiburtina ma anche nei vari meandri della città, può comodamente osservare uomini e donne distesi per strada, alcuni avvolti in sacchi a pelo e altri in semplici coperte di lana o plaid.

    Vagando per le strade del centro storico, precisamente in piazza Venezia, mi sono trattenuto ad osservare un gruppo di diasporici metropolitani riparati sotto i porticati di un istituto di credito. Le variopinte scodelle per i cani, qualche busta prudentemente sistemata in carrelli scorrevoli e i piattini per gli spiccioli coloravano un’immagine già di per sé raffinatamente post-moderna. L’apparente indifferenza dei passanti, invece, la drammatizzava. Pleonasmo di un’intelligenza veloce che rischia di lasciarti stordito a divorare con gli occhi una strana possibilità, o a dormire avvolto in un confortevole sacco a pelo con un cane da guardia che non protegge da occhi (in)discreti che invadono dignità, segreti, silenzi. Non ho potuto che riflettere sul senso spesso incorporato, e non rappresentato, celato negli interstizi della paura che regolano i rapporti intersoggettivi tra noi e questi altri (Slavoj Zizek, 2007).

    Anche a Catanzaro Lido, poco più di dieci anni fa, c’era un nomade (non)metropolitano. Si chiamava Michel e veniva dalla Francia, non ricordo precisamente da dove. Michel ora non c’è più, è morto. Lo ha ucciso una broncopolmonite.

    Non conosco le motivazioni che lo avevano portato a Catanzaro Lido. Lui, Michel, raccontava una vicenda drammatica, tragica, che lo aveva orientato nella sua scelta, in tutta libertà, ma non ha mai motivato il perché non avesse preso in considerazione una grande città come luogo della sua diaspora. Molti ritenevano che la sua condizione, quella di diventare un nomade (non)metropolitano, fosse stata una scelta. Certo, abbandonare tutto e vivere in strada è una scelta di vita. Anche coraggiosa, direi. Probabilmente Michel non è stato veloce. O meglio, secondo il paradigma velocità uguale intelligenza, Michel non è stato sufficientemente intelligente. Tuttavia, quel briciolo di senno che lo ha indotto a scegliere Catanzaro Lido per la sua coraggiosa scelta di vita - potrebbe addirittura esserlo - gli ha riservato qualche soddisfazione. Ricordo che si faceva a gara per assicurargli un piatto caldo, una coperta nuova, qualche lira per scambiare chiacchiere e bere una birra assieme al Bar. Si era fatto addirittura una bicicletta e, ovviamente, un cane: Birillo.

    Credo sia rimasto nei ricordi di molti abitanti di Catanzaro Lido quel biondino sdentato che sfrecciava per le strade del centro su una bicicletta gialla e Birillo dietro. Maleodorante e malvestito, che si rasava alla fontana della Chiesa di Casciolino (frazione di Catanzaro Lido). E soprattutto aveva un nome: Michel.

    Michel dormiva in un casolare abbandonato, una vecchia osteria ormai demolita, proprio davanti alla Chiesa e alla sua fontana. È lì che una mattina lo hanno trovato morto. Qualche giorno dopo, durante i funerali, la Chiesa era gremita di gente e i quotidiani locali gli dedicarono addirittura qualche affettuoso articolo. Ora, dicono, ha la fortuna di riposare in un loculo bellissimo, nel cimitero di Catanzaro.

    Al di là dei sentimentalismi e della poesia, quella dello spirito s’intende, mi è capitato di vedere il film Into the Wild (Penn, 2007). Racconta la storia di un giovane, Christopher McCandless (anche lui ha un nome!) che decide di disconnettersi definitivamente dalla vita di tutti i giorni per sperimentare una sua singolare diaspora. C’è tutto: solitudine, solitudine e ancora solitudine. Di tanto in tanto incontra altra gente, anche loro persone sole. Tutto, o quasi, è rappresentato cinematograficamente nella sua singolarità. La mamma. Il papà. La sorella. Un alce. Insetti. Un orso. Una balena. Una ragazzina in preda ai suoi bollori adolescenziali. Due coppie hippie, entrambe sole. Tutto è vissuto nella sua singolarità, eccetto un dettaglio, forse: la felicità è reale solo se viene condivisa.

    È difficile tentare di individuare i meccanismi che agiscono all’interno di una società, ma occorre cercare di capire, e interpretare, come gli uomini diano un senso alla loro specifica esperienza di vita (Geertz, 1988). Nel progetto di conoscenza degli altri, che attraversa quello del sé, è necessario connettere ricordi, eventi, tempi e spazi diversi mediante una trama costante e continua, in una tensione tra particolarismo e universalità, per penetrare nelle identità multiple, diasporiche, capaci di destabilizzare i propri a priori, moltiplicando costantemente le proprie identità attraverso il confronto con gli altri (Canevacci, 2004). L’altro allora si soggettivizza, e l’io si pluralizza, in una relazione sinuosa che cospira verso una porosità sincretica che destabilizza.

    Diasporici metropolitani e ricerca qualitativa

    Secondo alcuni la storica presenza nelle città dei barboni, opss diasporici metropolitani, è sintomo di diversità conflittuale causata dai gestori dell’economia che rafforza e perpetua l’ordine costituito per una ricchezza che non circola. Opulenza che moltiplica le cesure sociali, enfatizza la retorica dell’ostentazione della disuguaglianza e propina preoccupazioni retoricamente costruite.

    L’approccio qualitativo ed etnografico, per uno studio sui e con i diasporici metropolitani, necessita di una metodologia induttiva capace di emanciparsi da ogni a priori, di una fenomenologia del divenire dell’esperienza diasporica metropolitana per restituire dignità multiple e scoprire verità anonime. Bisogna avviare ricerche etnografiche ‘sui’ e ‘con’ i diasporici metropolitani per riconsegnare nomi a specifiche categorie di senso singolarmente sperimentate, verso un’analisi dettagliata della subalternità da marciapiede che sappia (ri)considerare, in nuovi termini, tali contemporanei e alternativi scenari di classe. Diasporici metropolitani come una nuova classe sociale, intelligente, che lentamente avanza per decostruire, dal basso, paradigmi egemonici che tendono ad omologare il tempo e lo spazio in un inedito, ma non meno etnocentrico, fluido omologante.

    Bibliografia

    Augé M. e Colleyn JP., L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano, elèuthera, 2006.
    Augé M. e Aime M., (a cura di), Il mestiere dell’antropologo, Torino, Bollati Boringhieri editore, 2007.
    Augé M., Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993.
    Canevacci M., Sincretismi. Esplorazioni diasporiche sulle ibridazioni culturali, Milano, Costlan Editori S.r.l., 2004.
    Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, Editori Laterza, 2003.
    Clifford J., I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri editore, 1999.
    Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Milano, ed Adelphi, 1982.
    Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità della intelligenza, Milano, Feltrinelli, 2002.
    Geertz C., Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988.
    Laplantine F., Identità e Métissage, Milano, Elèuthera Editrice, 2004.
    Zizek S., La violenza invisibile, Milano, Rizzoli, 2007.

    Webgrafia

    Apolito, P. (Intervista), Il pensiero selvaggio, in ENCICLOPEDIA MULTIMEDIALE delle SCIENZE FILOSOFICHE, 2002.
    Scuderi A., Creatività e approccio narrativo, in M@gm@ Rivista Elettronica di Scienze Umane e Sociali, vol.5 n.2 Aprile/Giugno 2007.

    Filmografia

    Penn, S. Into the wild, USA, BIM distribuzioni, 2007.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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