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    M@gm@ vol.7 n.1 Gennaio-Aprile 2009

    VITALMENTE MORITURI: UNA RIFLESSIONE TRA LA VITA E LA MORTE




    Emilio Gardini

    emiliogardini@libero.it
    Dottorando in “Teoria e ricerca sociale” presso la Sapienza Università di Roma, ha conseguito il Master in “Teoria e analisi qualitativa per la ricerca sociale” (Sapienza) e lavora nel Master “Immigrati e rifugiati. Formazione, comunicazione e integrazione sociale” (Sapienza). Interessi di studio sociologia urbana, sociologia e postmodernismo.

    “Le loro vite hanno forma e dimensione adesso.
    Estha ha la sua e Rahel pure.
    Margini, Bordi, Orli, Confini, Frontiere e Limiti
    sono comparsi ai loro orizzonti separati
    come una banda di folletti maligni.
    Creature piccole dalle lunghe ombre,
    che pattugliano un Limitare Sfocato.
    Sotto i loro occhi sono sorte delicate mezzelune
    e hanno la stessa età di Ammu quando morì.
    Trentuno.
    Non vecchi.
    Non Giovani.
    Ma vitalmente morituri.”

    (Aroundhati Roy, Il dio delle piccole cose)

    Le discipline sociali si occupano dell’uomo in società, dell’individuo in essere, della sua capacità di azione sociale. Tanti sono gli aspetti dell’esistenza umana oggetto di studio della sociologia e tanti sono ancora i nuovi margini d’esperienza che rientrano tra ciò di cui le discipline sociali si occupano e si occuperanno. Tra questi il concetto di azione sociale.

    La nozione di azione, l’agency, implica il fatto che un individuo sia in grado di compiere l’azione che sta svolgendo nelle possibilità ad egli concesse dalle sue capacità. O almeno questo intendiamo in questa sede. La società stessa nel suo complesso è oggetto di analisi perché dinamica e mutante; non basta osservare una volta per tutte i fenomeni, essi non restano sempre tali nel tempo, né sempre ripercorribili né generalizzabili. Ebbene, il mutamento, i processi sociali, l’azione sociale, sono concetti complessi che non sottendono una decodifica univoca. Quale mutamento? Di che tipo? Quale azione? E che cosa è azione?

    Una categoria fondamentale per la sociologia e l’analisi delle relazioni è il concetto di azione che Weber ha elaborato: l'agire sociale razionale, “sensatamente” orientato verso l’altro secondo dei fini (Weber, 1968). L'agire sociale in Max Weber è orientato all'atteggiamento degli altri definendo così le relazioni sociali.

    Mutamento e agire sociale sono solo alcuni dei concetti di uso comune che chi si occupa di discipline sociali non può prescindere dall’utilizzare secondo letture ben precise, secondo una “diagnosi” della categoria nel contesto in cui le si utilizza. Ciò non significa che tutto ciò che non è azione non diventi oggetto delle discipline sociali. E che cosa non è azione? S’incontrano, procedendo in questa direzione, complesse riflessioni che necessitano approfondimenti che non danno adito ad approssimazioni, ma ci limitiamo a dire che guardiamo la realtà sociale - di qualunque aspetto e morfologia la si voglia intendere - cercando di cogliere l’agire, l’essere, il divenire. La nostra volontà di comprensione è essa stessa azione, ciò che osserviamo è azione, tutto implica in un certo qual modo il “movimento”. Le teorie funzionalistiche sembravano sottolinearlo ancora di più; un sistema sociale è tale perché ogni parte di esso “funziona” per mantenerlo, ogni parte del sistema agisce, esercitando delle operazioni, per il funzionamento del sistema intero. Per Herbert Spencer -ai “primordi” della sociologia- il sistema sociale era come un organismo dove le parti che lo compongono, come avviene in un organismo vivente, funzionano per tenerlo in vita. Il «Superorganico» (Spencer, 1967). Queste sono premesse sociologiche dei padri della disciplina che vanno lette in relazione ai tempi in cui sono state formulate, ma esse ci tornano utili ora per “inoltrarci” in questa riflessione.

    Un sistema sociale è vivo. La società è viva. Ogni società è viva, a differenza di quale sia il contesto, il gruppo o l’ambito a cui ci riferiamo. Altrimenti la società non potrebbe “essere”. Le funzioni vitali. Proprio come un organismo umano? Non sono i presupposti di Spencer o le teorie funzionalistiche che terremo in considerazione, non è su questo che si intende discutere, quanto piuttosto sul fatto che ciò che orienta la ragione sociologica è sempre ciò che “è in vita” perché è possibile coglierne la fenomenologia.

    Ebbene, come ci comportiamo di fronte a ciò che non è in vita? Di fronte alla morte per esempio? L’ “essere in morte e non in vita” descrive uno stato di difficile trattazione, mentre l’elaborazione della morte è un processo sociale che in quanto tale si riflette sulla società. A seconda dei casi, dei contesti e dei luoghi, esistono rituali per esorcizzare la morte, per allontanarla, per evitarla e in qualche caso anche per comprenderla. In qualche parte nel mondo ancora la si usa come pena per punire i devianti, un aspetto controverso questo, che rende bene l'idea che il concetto di pena che coincide con la “privazione” della vita (intesa come “privazione della presenza in vita”) rappresenta la rottura volontaria di un ordine naturale che “intacca” l'azione sociale interrompendo il continuum della regolarità dell'esistenza.

    La morte è evidentemente un tabù per la sua inavvertita presenza fra noi, per il suo improvviso manifestarsi e per il suo in-conoscibile prosieguo. Le religioni tutte, o quasi, si interrogano sulla morte o sulla vita “altra” a quella materiale. L’uomo s’interroga sulla morte ma non sempre riesce a spiegarla, ad attribuirle senso.

    E la “morte buona”? Questo è il punto cui si voleva giungere. L’eutanasia. Ancora qualche riflessione però. Le discipline sociali si occupano della morte quindi perché anche ciò che non è azione - così come se ne discuteva poche righe sopra - inevitabilmente si riflette sull’esistenza umana, sulla vita degli individui, sulla società. Anche il culmine della vita, o la malattia che spesso conduce al culmine della vita, è oggetto delle scienze sociali per il fatto stesso che il processo patologico “intralcia” in qualche modo l’azione sociale. Riflettere sulla morte, sull'eutanasia, sulla malattia, significa riflettere su eventi che necessariamente provocano una rottura nell’esistenza umana e implicano discontinuità con l’essere in società. La società esiste perché esiste la vita. Ma esiste anche la morte.

    L'uomo moderno intende la vita come assoluta, essa ha la funzione di controllare anche ciò che non è vita mentre la morte difficilmente ci “appartiene” ed è sempre la morte degli altri quella che vediamo. Siamo sottoposti a continue forme di violenza che passano attraverso i media e l’informazione di massa, quanto succede nel mondo si specchia nei nostri occhi ma si riflette altrove; le guerre, i reati, la devianza criminale sono il pasto quotidiano condito di morte che la cronaca ci serve, ma di cui consumiamo l’apparenza. Controlliamo la morte o, almeno, facciamo in modo da renderla controllabile e che arrivi più tardi che mai. La modernità non è consapevole della fine e l’uomo moderno ripone nelle sue capacità di gestione anche quella di gestire la morte.

    Ma che succede, però, in stato di malattia? È evidente che esso è sintomo di una patologia non solo fisica ma anche sociale. La malattia è una condizione di turbamento dello stato normale dell’individuo che lo impossibilita nell’esercizio di alcune funzioni. Non essere bene nel fisico e non poter sempre espletare le funzioni di vita sociale per l’impossibilità materiale di compierle significa in qualche modo non poter “agire” in società. Lo stato di malattia è una patologia sociale, esenta l’individuo dai ruoli sociali, limita i processi relazionali essenziali nella vita quotidiana. Essere in stato di malattia impossibilitante può significare essere “parte non agente dell'organismo vitale sociale”. La difficoltà di confrontarsi con lo stato malamente “alterato” del proprio fisico influisce sulla percezione del cambiamento e del mutamento del sé fisico. È pertinente, a tal proposito, l'analisi di Vita Fortunati sul pensiero utopico in relazione alla salute, alla malattia e alla vecchiaia: «il pensiero dell'utopista si colloca al di fuori della nozione del divenire storico e della trasformazione, la sua utopia è la terra della perfezione e dell'armonia per eccellenza, dove è necessario trovare l'equilibrio fra le opposizioni dicotomiche fondamentali: vita e morte, natura e cultura, corpo e mente» (Fortunati, 2003, p. 615). Anche nel pensiero utopico, quindi - che spesso associamo all’armonia che cerca l’ordine nel caos e alla razionalità che proietta in vita la perfezione desiderata nella propria esistenza - la ragione e la ricerca di un mondo coerente, schivo della morte e della malattia si scontra con il mutamento inevitabile della vita. La perfezione e l'agio razionale incontrano anch’essi la rottura improvvisa degli eventi imprevedibili. La vecchiaia, per esempio, come stadio ultimo delle fasi vitali dell'individuo, momento del mutamento e fase transitoria, ha una forte ambivalenza dal punto di vista utopico: «da una parte il vecchio è venerato come simbolo della saggezza, della concezione ciclica del tempo, dall'altro egli è una figura inquietante depositario di un corpo che si deteriora, un corpo che non è più veicolo dell' “essere al mondo”, ma ostacolo per la continuazione della vita» (Fortunati, 2003, p. 616).

    La pratica dell’azione

    La società moderna intende la vita come sacra - al di là di qualunque illazione religiosa a cui si possa pensare - e per questo va conservata e addirittura protratta per il più possibile anche quando essa è vita per il solo fatto che il corpo è ancora vivo anche se le sue funzioni vitali sono quasi nulle. È qui il nocciolo della questione. La vita, o meglio la “sacralità” della vita in quanto esistenza contro la morte, è data dal fatto di “essere” e quindi semplicemente di “esserci” pur senza funzioni, o è data dalle sue stesse funzioni vitali che “agiscono” per vivere? È difficile rispondere a questa domanda ma una cosa è certa: essere in vita senza funzioni vitali, in stato di malattia impossibilitante, non permette nessuna se non poche azioni che siano considerabili parte del sistema essere-in-vita.

    In alcuni stati di malattia, quelli per cui la maggior parte delle persone chiede l’eutanasia - e qui veniamo al punto che ci interessa - o sceglie di interrompere il funzionamento del macchinario che le tiene in vita artificialmente (due fatti differenti questi!), la vita non è azione. Su questo intendiamo riflettere, più che sulle diverse posizioni che si possono assumere sul fatto in questione. Si potrebbe obiettare che in questa direzione si considerano le sole funzioni vitali del corpo e si dimentica ciò che non è corpo. Se l’individuo è tale perché non è scindibile, in-dividuo, indivisibile, tuttavia dovremmo considerarlo come un unicum completo nella sua unicità, anche e soprattutto nella sua forma materiale. Non solo, il corpo è l’espressione di ciò che corpo non è e di cui siamo fatti; le nostre movenze, la nostra fisicità, la nostra forma sono la materia che in modo diretto è in contatto con tutto ciò che è all’esterno dell’individuo, è ciò che “tocca” il mondo. Il corpo definisce la relazione con il mondo fisico. Anche il sapere è in-corporato. Il corpo ha un suo linguaggio. Il corpo è espressione fisica fenomenica che si manifesta in materia oltre che in essere meta-fisico. Le pratiche del corpo, i riti del corpo, le forme di alterazione della corporeità, l’estetica vitale, la corpografia intesa come linguaggio e scrittura corporea possono essere considerate pratiche “antropoietiche”, modi di fare umanità -come sostiene Francesco Remotti - secondo livelli diversi di esperienza del proprio corpo (Remotti, 2000).

    La presente considerazione non è orientata alla morale, né quindi al rigido determinismo etico, vuole invece riflettere sulla pratica della pratica che induce alla morte volontaria per sopperire il proprio dolore. La pratica della morte al fine di non essere più “praticati” dalla sofferenza, questo è il presupposto. In questo senso l'eutanasia determina un certo potere sul proprio corpo, autodeterminazione rispetto alla scelta che l’individuo ha di portare a conclusione la propria esistenza.

    La pratica dell’eutanasia avviene con il consenso di chi la desidera e l’affronta - che sceglie in modo consapevole, non influenzabile, ma soprattutto nella piena capacità di poter scegliere - e di chi la pratica, contro i principi di conservazione della sacralità della vita. L’eutanasia, a differenza di altri modi di porre fine alla propria esistenza, viene di solito chiesta - laddove essa è concessa - da persone coscienti non sempre tenute in vita artificialmente.

    Quindi: come pensiamo tale desiderio “di praticare la morte” oggi di fronte alle premesse concettuali sociologiche cui in parte si è fatto riferimento in principio di questo discorso e a fronte di quali categorie affrontiamo il discorso? Il desiderio di fine della vita coincide con la fine della sofferenza e induce a volersi sottoporre alla pratica dell'eutanasia per mettere fine al dolore vitale. Sofferenza vitale e morte salvifica. Una condizione “ossimorica” questa, che riflette il desiderio di metter fine alla sofferenza con la morte, sofferenza procurata dalla vita stessa. Questo presupposto mette in crisi il nostro sistema cognitivo logico-razionale che ragiona in nome della salvazione della vita in tutte le circostanze. Chi desidera l’eutanasia considera la propria vita non degna di essere vissuta perché troppo dolorosa ed è cosciente e consapevole della sua scelta, del suo desiderio, espletando così un senso di autocontrollo sulla propria esistenza tanto forte da poterne decidere la fine. L’autodeterminazione totale nelle proprie scelte. La padronanza completa del proprio corpo.

    È questo un modo abbastanza complesso di “vivere la morte”, di vivere la morte che viene affrontata come un evento che “agisce” nella propria esistenza materiale come il fine da raggiungere necessariamente prima del suo arrivo naturale troppo doloroso per essere atteso. Non si tratta del dolore per una dipartita ma della necessità di un arrivo. La morte diviene così costituente “agente” dell’esistenza umana. Si può “finalmente” agire anche nei confronti di ciò che “azione” non sarà più, forse l’unico e ultimo modo per “essere umani” veramente. La volontà di poter scegliere della propria vita, della propria morte e del proprio corpo è il modo necessario che induce chi si trova nella condizione di parziale, o spesso totale “inagibilità” del sé, a compiere una scelta così controversa. Autodeterminazione e scelta autonoma, nella vita e per la morte, con la consapevolezza di essere vitalmente morituri o forse soltanto vitalmente capaci di poter agire la morte attraverso l'ultima possibilità di scegliere per sé ciò che allevia la sofferenza dell'esserci. È la scelta di non esserci a fronte della “presenza” sofferente. La presenza, appunto, nel senso più “demartiniano” del termine, intesa come presenza nella storia, nella propria storia, partecipazione ad essa, agita e vissuta da primo interprete (De Martino, 2001). La presenza intesa come la volontà di uscire da una condizione impossibilitante per affermare la propria vita e per esistere. Ebbene, essere protagonista della propria storia nelle condizioni di sofferenza che inducono a scegliere la morte volontaria “eutanasiaca” significa, in un certo senso, dar senso alla presenza nella propria storia altrimenti insignificante. Questo non vuole essere un elogio alla vita soltanto quando questa è realmente degna di essere vissuta perché partecipata, attiva e materialmente sentita come tale, viceversa, vuole essere una riflessione sull’affermazione di sé come individuo nelle scelte più umane e più dure che spesso “scavalcano” il sé vitale perché non sufficiente a garantire l’esistenza. Non è facile discernere dalle categorie che - secondo una logica spesso restrittivamente comune ma tradizionalmente fondata - inducono a considerare i fatti alla luce della piena razionalità delle scelte, nel senso più “illuminista” dei fatti; è possibile cogliere nell’individuo, però, l'incertezza nel suo desiderio di esserci quando non tutte le sue funzioni vitali sono tali. La morte volontaria schiva quel “protagonismo di vivere” spesso consono al nostro tempo e al nostro modo di essere umani che sempre e comunque ci affligge nella voglia di esserci, di esserci a tutti i costi.

    Vitalmente morituri

    Ma riusciremo mai a essere vitalmente morituri? Vitalmente pronti alla dipartita? Non è una domanda alla quale si può dare una risposta, forse è una domanda che non cerca una risposta, fatto sta, che in alcune condizioni gli individui cercano strade alternative a quelle che appaiono naturali, strade che non sono sempre la vita perché questa non sempre soddisfa. Non è facile riuscire a capire quali sono le categorie che “scorporano” l’esistenza, quali sono le categorie che spingono all’espulsione più che all’intrusione della vita nella sfera dei desideri, categorie distanti forse dalle logiche più comuni, ma certamente esistenti. La morte è un passaggio che non conosce riti preliminari come avviene per tutti i passaggi della vita, conosce solo riti postumi alla sua venuta. Onoriamo la morte quando essa è già arrivata e ricordiamo il defunto per ciò che è stato in vita. Secondo la lettura degli studi utopici di Marina Sozzi, per esempio, «i riti della morte, i funerali, il lutto socialmente codificato, che si incontrano nelle utopie, sono deponteziati, ridotti di importanza e resi inessenziali se li si confronta con la vita reale» (Sozzi, 2003, p. 632). Ciò che l'autrice sottolinea è il fatto che i riti non hanno funzione di aiutare la comunità ma hanno funzione di onorare i defunti ed elogiarne le virtù, le esequie sono un elemento di coesione sociale più che di elaborazione del lutto (Fortunati, 2004, p. 32). La morte individuale diviene dramma collettivo attraverso la gratificazione pubblica che assume senso nel gesto nella comunità, il rito viene inteso come superamento del dolore. Nella sua opera sull’antropologia dell’immaginario, Gilbert Durand pone attenzione al rito e alla morte attraverso il simbolismo primordiale che nelle diverse società e nelle diverse forme mitico-rituali elabora universi simbolici e culturali. Durand ritrova nel mito il passaggio da uno stadio all’altro, dalla vita alla morte; in molte società, egli sostiene, il regno della morte è assimilato a quello dalla vita, è lo stesso da cui provengono i bambini (Durand, 1972, p. 237).

    L'uomo moderno assimila la morte a tutto ciò che è male in opposizione al bene della vita, spesso associa al male anche chi cerca la fine della vita perché non sopporta più la sofferenza. La morte è un fatto sociale complesso che tocca la nostra vita in modo trasversale così da non farsi percepire come “esistente”, si manifesta come qualcosa che effettivamente non c’è ma che arriva, e che quando arriva è sempre troppo presto. Un’area sospesa tra il dentro e il fuori. Lo stesso pensiero utopico, che nasce dalla fusione e dalla tensione di due modelli estremi, dall'ottimismo e dal fervido attaccarsi alla ragione e alla perfezione, dal distacco e dall'incapacità di interazione con la realtà (Sozzi, 2003, p. 633), trova nell'ambivalenza della morte in quanto evento-tramite-non-transitorio ciò che mina il pensiero razionale di perdita della consapevolezza. In questo senso, sostiene ancora la Fortunati, la morte è l'evento dell'esistenza umana che è caratterizzato da quella familiarità-estraneità che la rende un fenomeno insopportabile, un nodo che non si può sciogliere con la ragione (Fortunati, 2004, p. 36).

    La morte è un fenomeno “regimentato” dall'imprevisto che si scontra con il desiderio razionale del prosieguo; non accetta né governo né cura, e l'uomo vuole neutralizzarne la carica destabilizzante. In molti casi però il confine tra la vita e la morte è veramente sottile, tanto sottile che non è più possibile tenere la morte ai margini della nostra esistenza, essa ne diventa parte. Rientra tra le pratiche quotidiane che è necessario render parte “almeno” delle nostre riflessioni, andando oltre quel confine labile che la separa dalle nostre attività in vita. È in questo modo che qualcuno “agisce” la morte come si fa con la vita, che non significa solo affrontarla, ma riconoscerla come parte esistente della vita stessa, scegliendo di ridurla a fatto “vitale”. Il nostro mondo dipende da come ci rapportiamo ai fatti, e tra questi anche alla morte, il nostro “essere umani” sta in ciò che rientra nel nostro essere in vita e in morte. Vitalmente morituri, quindi, capaci di vivere e morire, di “agire” la vita e anche la morte. Ma in verità si tratta di riflessioni, dei tentativi che mettono insieme astrazione e azione per comprendere alcune scelte e ridurle a categorie conoscibili all’interpretazione sociologica. Tuttavia, direi, che abbiamo ancora molta paura della morte.

    Bibliografia

    De martino Ernesto, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 2001 [1959].
    Durand Gilbert, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari, Dedalo, 1972.
    Fortunati Vita, Salute, malattia, vecchiaia, in Dall'utopia all'utopismo. Percorsi tematici., (a cura di) Vita Fortunati, Raymond Trousson, Adriana Corrado, Napoli, Cuen, 2003.
    Fortunati Vita, Sozzi Marina, Spinozzi Paola, (a cura di) Perfezione e finitudine. La concezione della morte in utopia in età moderna e contemporanea., Torino, Lindau, 2004.
    Remotti Francesco, Prima lezione di antropologia, Bari, Editori Laterza, 2000.
    Roy Arundhati, Il Dio delle piccole cose, (TN), Tea, 2004.
    Sozzi Marina, I riti funebri, in Dall'Utopia all'utopismo. Percorsi tematici., (a cura di) Vita Fortunati, Raymond Trousson, Adriana Corrado, Napoli, Cuen, 2003.
    Spencer Herbert, Principi di sociologia, Vol I, Torino, Utet, 1967.
    Weber Max, Economia e società, Vol I-II, Milano, Edizioni di comunità, 1968.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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