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    M@gm@ vol.7 n.1 Gennaio-Aprile 2009

    PER UNA SPIRITUALITA’ LAICA




    Giusi Lumare

    vice13@libero.it
    Dottoranda in Scienze dell'Educazione all'Università Paris 8; Sta svolgendo una ricerca sull' educazione alla spiritualità laica attraverso l'approccio trasversale in Scienze Umane, sotto la direzione di Renè Barbier; Si occupa di formazione permanente ed educazione degli adulti e coordina gruppi di ricerca-azione con gli insegnanti degli istituti scolastici superiori di Bologna; Ha tradotto dal francese per Armando Editore "La ricerca-azione" di René Barbier ( Roma 2007).

    1 Spiritualità e laicità

    Nell’accezione del pensiero occidentale, tributario della tradizione dialettica aristotelica, la spiritualità designa per opposizione alla materialità (corpo, istinti, carne, ecc.) le attività che sono relative allo spirito e alla sua vita. Essa si riferisce ad un ordine di realtà religiose e mistiche che concernono la capacità dell’essere umano di interrogarsi sulla propria esistenza e sul proprio posto nell’universo. Nell’ottica dualista che separa la materialità dalla spiritualità, la spiritualità è assimilabile alla religione. Ma la sua definizione non ne lascia intendere un aspetto organizzato, per quanto ciò non gli sia impedito. Quest’assenza di organizzazione, dove esiste, si rivela poco propizia alla propagazione di dogmi.

    La chiusura della nostra cultura occidentale nella logica dicotomica della materialità e della religione, produce un approccio interiore o mistico ben differenziato da un approccio intellettuale (ragionato, razionale), morale o psicologico.

    La parola spiritualità indica l’essenza dello spirito. Oggi questo concetto corrisponde sempre più inevitabilmente a:
    a) il riconoscimento del fondamento di ogni realtà nello spirituale, che determina il superamento della visione del reale ridotta alla sola materialità. Un superamento-negazione, che tende a riconciliare il materiale e lo spirituale in un’unità vivente;
    b) la trasformazione concreta dell’esistenza umana in relazione allo spirituale, che invece richiede una pratica ed un’arte di vivere che permetta la manifestazione dello spirituale nel materiale.

    La spiritualità è uno stato dell’essere che non può essere circoscritto, indottrinato e rinchiuso in un tempio o in una chiesa, la verità è inafferrabile per l’ego umano. E’ un cercare da noi stessi, uno sperimentare ogni giorno non adagiandosi mai sulle proprie acquisizioni o su quelle altrui. Spiritualità è interrogarsi sulla propria natura, comprendere i differenti piani d’esistenza e i legami intimi con il cosmo. La spiritualità è questo e nessuna religione, organizzata intorno a un dogma di una gerarchia sacerdotale che deterrebbe un segreto divino, può essere spirituale in questo senso.

    L’aggettivo laico invece significa: in opposizione alla religione, anticonfessionale, “che agisce in assoluta indipendenza rispetto alla chiesa e ad ogni altra confessione religiosa” (Devoto, Oli, 2000-2001). Ciò che è interessante è che questo termine significa anche: “esente da pregiudizi e da legami rispetto a dei problemi o scelte, soprattutto di carattere etico e politico” (Ibidem), esso designa quindi l’indipendenza della coscienza da ogni ideologia. Questa seconda definizione è vicina all’interpretazione di una spiritualità laica intesa come spiritualità anti-ideologica che si fonda sull’indipendenza e la libertà della coscienza. Laico proviene dal latino laicus e in origine dal termine greco laikos: del popolo. La laicità è quindi popolare, così si restituisce a quest’aggettivo la portata dell’accessibilità dell’uomo alla comprensione.

    Sono diversi i tentativi di definire il termine laicità in campo sociologico e filosofico e le difficoltà sono dovute a tre principali ragioni : innanzitutto la laicità non appartiene alla categoria della sostanza, ma a quella della relazione, in secondo luogo essa non stabilisce un legame positivo, ma una separazione e in ultimo non si tratta di una nozione statica, ma dinamica.

    La laicità esprime la distanza tra la spiritualità umana e la credenza religiosa. E’ un concetto, ma è anche una corrente filosofica, quasi un’ideologia. Nella sua accezione sociale rappresenta l’affermazione di un diritto: la legittimità ad essere cittadini non credenti, amministrati da uno Stato indipendente della Chiesa. Si tratta della conquista sociale del diritto di pensare ed agire liberamente: la libertà di coscienza. La laicità è anche e soprattutto istituzionale quando è difesa da correnti di pensiero razionalista che promuovono l’uso della ragione nella convinzione che l’uomo non disponga di mezzi migliori per risolvere i problemi esistenziali che si pongono sempre sia al livello individuale, sia collettivo e sociale.

    Più le crociate religiose avanzano ed i fondamentalismi si propagano in questo inizio di secolo, più si cerca di arginare questa follia dell’irrazionale con la ragione. Ci troviamo, in questo momento in occidente, di fronte ad una dicotomia culturale tra religione come manifestazione dello spirito e laicità come affermazione dell’intelletto.

    Ma prima di essere un diritto ed una questione sociale, la laicità è una questione dello spirito. Essa nasce come idea che afferma le potenzialità dello spirito umano al di là della fede religiosa. L’importanza di questa affermazione è dovuta al superamento della dualità apparentemente inesorabile tra ateismo e credenza religiosa, laicità razionalista e mistica irrazionale e all’affermazione di un’altra possibilità per l’uomo di vivere la propria esistenza in maniera completa. Laicità e spiritualità non sono del tutto contraddittorie.

    2 Il superamento della dualità e la conciliazione degli opposti

    Allo sguardo abituato a leggere l’attitudine dello spirito a manifestarsi attraverso la credenza e la fede, la parola spiritualità non può che esprimersi a fianco alla parola religione, ma se separiamo il concetto di religione da quello di spiritualità ci avviciniamo ad un altro senso della manifestazione dello spirito. Un senso che non ha nulla a che vedere con la credenza come obbedienza a una dottrina, come elaborazione del pensiero, ma un senso d’appartenenza che nasce dall’amore. Attraverso l’amore lo spirito si manifesta indipendentemente dalla fede. Questa spiritualità è laica perché parte dall’uomo e dalla sua interiorità e non dalle sue proiezioni esteriori.

    La spiritualità laica che proviene dall’associazione di due opposti come spiritualità e laicità, è unificante sia ad un livello concettuale, che esistenziale. Credo che l’armonizzazione di questi due termini possa produrre una riconciliazione interiore tra forze sempre in lotta: da un lato la pulsione dello spirito di manifestarsi, dall’altro le gabbie della dottrina religiosa che lo annichilisce. La laicità riscatta la spiritualità dalle costrizioni della fede, la libera dalle imposizioni morali pensate da altri in altri tempi e dall’obbedienza acritica ai rituali, restituendole il diritto di esistere in tutta la sua verità, nel senso di corrispondere solo a se stessa.

    La spiritualità laica è affermazione di un ossimoro derivante dall’integrazione di due concetti apparentemente inconciliabili. Nell’unione di queste sue nozioni la coscienza dell’uomo trova nuovi sbocchi di comprensione. Rifiutare la dialettica produttrice di conflitto tra razionalità e spiritualità, vuol dire rifiutare l’asservimento alla dualità in nome di una pluralità di possibilità, così come di infinite occasioni che si presentano all’uomo che scopre se stesso e il mondo che lo circonda. La dualità si può superare producendo uno stato di unità solo con una piena coscienza totale e non frammentaria.

    E’ a questa totalità che fa riferimento il concetto di spiritualità laica. Questo superamento degli opposti è realizzabile solo in uno stato di totale attenzione e di abbandono alla propria presenza, la globalità di visione che ne deriva arresta il conflitto prodotto dalla frammentazione della coscienza e permette forse di diventare esseri umani. Ma per superare la dualità bisogna smettere di pensare in termini di comparazione, smettere di misurarsi, perché misurandosi l’uomo nega se stesso, crea un’illusione. “Non esiste alcun conflitto, se non esiste alcuna separazione tra me e l’altro” (Krishnamurti, 1973).

    L’ipotesi di una spiritualità laica emerge dalla domanda se può nascere un uomo nuovo, che sia totalmente cosciente della sacralità della vita e che percepisca attraverso tutti i suoi sensi la sua esistenza come connessa al movimento globale della natura che lo circonda. Si tratta dell’intuizione di una dimensione sacra della vita. In quanto intuizione non si tratta di un’operazione intellettuale, tale percezione non passa attraverso il pensiero, se ne astrae. Essa corrisponde ad una coscienza della sacralità ottenuta in uno stato di attenzione costante a ciò che è nell’istante. In questa coscienza del sacro non è implicata alcuna credenza in entità esterne all’uomo, ma piuttosto una profonda conoscenza di sè e del mondo, ottenuta attraverso l’osservazione profonda e diretta, in condizione di totale abbandono di tutti i modelli di ragionamento.

    Dunque spiritualità laica come profonda conoscenza di sé. Credo che sia la questione più appassionante che si possa affrontare, in quanto immerge l’essere umano in se stesso: in un luogo ignoto. E’ un’attenzione permanente ai propri pensieri e alle proprie azioni, è soprattutto la loro comprensione che provoca l’evoluzione verso la saggezza. L’uomo che agisce in uno stato di unità, non vive più alcuna contraddizione tra l’essere ed il fare. La dualità superata ad un livello concettuale comporta anche ad un livello di coscienza, una presenza unitaria effettiva e globale che non guarda più la realtà in termini di paragone.

    3 Jiddu Krishnamurti l’antifilosofo

    La dimensione spirituale dell’uomo è sempre stata affrontata e adattata sistematicamente alle diverse discipline delle scienze umane, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicoanalisi alla psicologia umanista, ma il punto di vista del saggio Jiddu Krishnamurti è il più aderente a questa visione spirituale e laica allo stesso tempo, come strumento di conoscenza. Comprendere, per Krishnamurti, corrisponde a vedere chiaramente che la mente non può conoscere l’ignoto.

    “La mente è il conosciuto, cioè ciò di cui abbiamo fatto l’esperienza, ed è attraverso la misura di ciò che è noto che tentiamo di conoscere l’ignoto. Pertanto è evidente che mai il conosciuto potrà conoscere l’ignoto, esso non può conoscere che ciò che ha vissuto, ciò che gli è stato insegnato, ciò che ha accumulato. Può la nostra mente vedere la verità della sua incapacità di conoscere l’ignoto?” (Krishnamurti, 2002).

    E’ la capitolazione dell’intelletto, egli abbandona ogni tentativo di controllare e sistematizzare la realtà perché una coscienza più comprensiva ne ha rilevato l’inutilità. Quindi il percorso per la conoscenza è per Krishnamurti un’ammissione d’ignoranza e d’inafferrabilità della verità, perché l’ignoranza, come sostiene René Barbier, “è una pietra preziosa scoperta dai minatori di fondo. Ma l’ignoranza è anche la corona del saggio. Dall’ignoranza torrenziale del bambino all’ignoranza oceanica del saggio, si riconosce lo spazio di una vita riconquistata” (Barbier, 2004).

    Krishnamurti ritiene che sia impossibile trovare una via che porti all’ignoto passando attraverso le capacità acquisite con ciò che è noto, ma se la mente si rende conto della sua totale incapacità a comprendere l’ignoto, si accorge che non può fare neanche un passo in quella direzione, a quel punto la mente diventa totalmente silenziosa. La disperazione cessa, perché non si cerca più nulla. “Ogni movimento da parte del conosciuto rimane inscritto nel perimetro del conosciuto… ma in assenza di qualsiasi stimolo, di qualsiasi obiettivo, la mente è silenziosa” (Krishnamurti, 2002).

    I legami tra conoscenza e spiritualità sono forti se si pensa che la percezione di questo silenzio, questa coscienza di un’insondabile grandezza in cui siamo immersi, apre i sensi dell’essere nella sua totalità. Per Krishnamurti questa qualità dello spirito si può chiamare amore. “L’amore non ha passato né futuro, ma nasce in questo straordinario stato di silenzio. Senza questo stato di silenzio, che è totale vacuità, non c’è creazione” (Ibidem). La spiritualità a cui aspira l’uomo dell’intelligenza di Krishnamurti è dunque il frutto di un radicale cambiamento interiore a partire dal quale la realtà è vissuta in maniera diretta e trasparente. La mente, liberata dalle catene degli schemi ai quali aderire, conduce l’uomo verso l’azione giusta.

    Per esaminare la natura umana, Krishnamurti chiede di mettere da parte la mente analitica. Il livello di comprensione non è intellettuale, l’intelletto inaridisce la comprensione impedendole di cogliere il senso e svuotandola del suo contenuto. Egli propone di esaminare la natura umana attraverso gli sguardi: “Sguardi che comprendono, che toccano, ma non lacerano” (Ibidem).

    Ciò che rende illuminante la lettura e la comprensione degli scritti di Krishnamurti è la totale assenza di astrazioni teoriche. La sua visione è lucida e diretta, ogni considerazione è priva di riferimenti culturali e di imposizioni morali. Uno spirito che mira a distaccarsi dalle maglie dei poteri istituiti dalla cultura, trova nelle parole di Krishnamurti l’acqua in cui bagnarsi, una sorta di legittimazione esistenziale per scoprire finalmente ciò che era rimasto nascosto e mai interamente rivelato.

    L’approccio tradizionale alla comprensione consiste nel procedere dall’esterno verso l’interno, dall’acquisizione all’assimilazione di schemi, dalla periferia verso il centro e quando si arriva ci si accorge che non c’è niente, perché con il tempo, la pratica, la rinuncia, ci si è resi amorfi, incapaci e insensibili. Quello che si è capito, non ci corrisponde più. Krishnamurti propone un approccio inverso: è possibile esplodere a partire dal centro?

    Nessuno può rispondere alla domanda se esiste un Dio o una Verità, è solo con la conoscenza di sé che ci si può arrivare, conoscersi è l’inizio della saggezza. Possiamo dire che questo stato dell’essere, d’importanza cruciale per la comprensione profonda dell’uomo, non può essere conosciuto, né afferrato dall’intelletto. Ciò che deriva dalla ricerca sull’ignoto e il sacro, in campo filosofico, come in sociologia e in psicologia, è l’incapacità della logica-dialettica, di cogliere il senso della dimensione spirituale dell’uomo con i mezzi intellettuali della conoscenza.

    L’anti-filosofo, il saggio, non comprende la spiritualità, la vive.

    4 La fenomenologia e la sospensione del giudizio

    La fenomenologia fondata da Husserl ha permesso un rinnovamento nella filosofia occidentale. Ponendo la coscienza al centro del pensiero, comprendendo in che senso il soggetto in stato di veglia si pone in relazione con l’oggetto, ha fatto un considerevole passo in direzione di un’antichissima filosofia, il Vedanta indiano. E’ affascinante scoprire fino a che punto i due percorsi si incontrino nello stesso luogo.

    Un’analogia è sorta dunque naturale tra due approcci alla conoscenza molto lontani tra loro: da un lato il pensiero occidentale alla ricerca di un approccio alternativo al dubbio metodico cartesiano e che se ne distingue attraverso l’epoché (atto di ritiro e messa in sospensione del giudizio che permette un’osservazione disinteressata del mondo) e dall’altra il saggio anglo-indiano e la sua percezione totale, l’osservazione penetrante del reale.

    Quello che Husserl aveva teorizzato ne L’idea della fenomenologia non è altro che la dimostrazione di come la conoscenza sia possibile, di come le cose così come sono in se stesse possano essere raggiunte dalla conoscenza e di conseguenza dalla comprensione del senso delle cose. Volere l’assenza di presupposizioni, vuol dire volere la completa evidenza, non nel senso di ciò che si comprende nell’immediato senza bisogno di interrogarsi sull’argomento, ma nel senso di “completamente giustificato, interamente fondato” (Husserl, 1981).

    L’epoché costituisce il primo stadio della riflessione fenomenologica, come seguito logico dell’esigenza di non presupposizione. Essa è sospensione dei giudizi su ciò che concepiamo come esterno alla nostra coscienza, per poterci così interrogare sui nostri stessi giudizi. Da questo tipo di esame può nascere una reale conoscenza, ma per questo è necessario mettere il mondo tra parentesi.

    Attraverso un percorso differente, che non proviene da un movimento dell’intelletto, ma dall’implicazione della coscienza come insieme, Krishnamurti propone la stessa postura esistenziale e affronta la questione della conoscenza attraverso la percezione totale, senza la quale alcuna conoscenza è possibile. Per vedere cos’è la paura, o la violenza, o la collera, secondo Krishnamurti non bisogna giudicarle, poiché nel momento in cui si pensa al loro opposto, le si condanna e questo impedisce di vederle.

    Per essere comprese, la violenza o la paura, non devono nè essere respinte, nè negate, piuttosto bisogna guardarle, studiarle, entrare nella loro intimità, senza condannarle, nè giustificarle. Krishnamurti chiede di sospendere, per il momento, il giudizio nei loro confronti. Husserl, da parte sua, si è ispirato largamento al dubbio metodico cartesiano, ma ne ha tuttavia cambiato il senso. Egli si pone al contrario del dubbio cartesiano, che è solo provvisorio e quindi strumentale, in quanto è lì per scoprire questa indubitabile certezza che è l’ “ego cogito” e che si ferma innanzi a questa scoperta. Al posto di una negazione temporanea del mondo, nell’epoché, io sospendo semplicemente il giudizio nei suoi confronti, smetto di dargli un valore: quest’attitudine è necessaria perchè ad una credenza nel mondo fondata su dei pregiudizi, possa succedere un sapere.

    L’epoché implica l’io stesso come istanza che opera la sospensione, invece il cogito non può che escludersi dal dubbio in quanto è all’origine della ricostruzione. Esso è la certezza assoluta e indubitabile.

    Inoltre il dubbio è motivato da ragioni esterne: risponde a costrizioni esterne (constatazione dell’errore, dell’illusione, dell’incertezza). Al contrario, nulla mi spinge ad operare l’epoché: è un atto di pura libertà perchè non risponde a nessun’altra esigenza se non quella che io rivolgo a me stesso.

    Se la spiritualità laica è dunque quella qualità umana che corrisponde all’attitudine a connettersi col mondo, allora essa rappresenta un’apertura dei canali sensibili e spesso atrofizzati della coscienza ed appartiene a tutti. La scoperta dello stato di coscienza lucido e penetrante, generato da un’osservazione attenta di ciò che è, di cui parla Krishnamurti, permette finalmente allo spirito di esprimersi al di fuori di ogni autorità.

    Può succedere una vera rivoluzione a chi non conosce più separazione tra interno ed esterno, tra individuale e collettivo, tra cosciente ed incosciente, a chi agisce attraverso il superamento della dualità e la scoperta della totalità alla quale appartiene.

    Ma il discorso sulla spiritualità laica non si esaurisce nella definizione del concetto e delle sue argomentazioni, esso piuttosto apre numerose possibilità d’applicazione nella realtà delle scienze dell’educazione. Il pensiero occidentale opera abitualmente attraverso categorie ben definite, per crearle gli è necessario dividere e separare le forme di vita e di pensiero. Ma come impedire che esse si alimentino di illusioni conservatrici, ecumeniche, spesso integraliste e reazionarie nei luoghi della formazione?

    Se pensiamo a come i partigiani del multiculturalismo si oppongono a quelli della separazione culturale, è evidente la logica separatrice che inevitabilmente prevale. Sia che vengano citate per opporle gerarchicamente, sia che ci si sforzi di valorizzarne le differenze in vista di una migliore coabitazione, le categorie etniche utilizzate, così come le diverse forme di religione riconosciute, sono ancora frutto di un’azione che mira a circoscrivere e isolare. In quest’ottica, la logica del meticciato ci riporta di sicuro sul sistema fondato sulla divisione, che a sua volta genera delle categorie politiche chiamate identità. La transdisciplinarietà, invece, prende le distanze tanto dalla logica relativista, quanto dalla violenza unilaterale della mondializzazione. Essa non si insegna, ma sorge al cuore delle intuizioni più vive, aiuta alla comprensione del sacro, della sacralità laica, permettendo di cogliere il senso ultimo della realtà con la lucidità di un’intelligenza non intellettuale. Rifiuta gli assolutismi disciplinari e si apre, invece, al transculturale e al transnazionale, si situa al di là delle discipline, ed ha bisogno di un linguaggio multireferenziale dove anche l’arte e la poesia sono utili alla percezione dell’ Altrove in quanto vuoto creatore.

    Bibliografia

    René Barbier, Flash existentiel et reliance, Journal des Chercheurs, martedi 9 marzo 2004.
    Giacomo Devoto, Gian Carlo Oli, Il dizionario della lingua italiana, ed. 2000-2001.
    E. Husserl, L’idea della fenomenologia, Il Saggiatore, Milano 1981.
    J. Krishnamurti, Libertà dal conosciuto, Ubaldini Editore, Roma, 1973.
    J. Krishnamurti, Su Dio, Astrolabio Ubaldini, Roma, 2002.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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