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    M@gm@ vol.7 n.1 Gennaio-Aprile 2009

    PROFESSIONI SOCIALI ED ORIZZONTE DI SENSO: SPUNTI PER UNA DISCUSSIONE



    Giacomo Innocenti

    innocenti_giacomo@yahoo.it
    Scrittore appassionato di questo articolo e della vita, è stato, e continua ad essere nella memoria di chi lo ha conosciuto, un uomo ricco di intelligenza, curiosità creativa e capacità di ascolto attento dell'altro. Queste dimensioni che hanno caratterizzato il suo personale modo di attraversare l'esistenza hanno anche nutrito la sua pratica professionale di sociologo, offrendo a chi con lui ha lavorato la possibilità di godere di un interlocutore arguto e prezioso. In qualità di responsabile del Settore Programmazione e Comunicazione del Municipio V del Comune di Roma, si è occupato specificamente della comunicazione pubblica e dell'utilizzo delle Nuove tecnologie per favorire i processi di apprendimento e partecipazione anche delle fasce più deboli. Particolare entusiasmo ha inoltre dedicato all'attività formativa guardando, con cura e responsabilità, ai temi della progettazione sociale, del bilancio partecipato e più in generale dell'educazione degli adulti.

    Lo sviluppo impetuoso delle professioni sociali nell’ultimo ventennio correlato al processo di costruzione dello stato sociale in Italia è empiricamente del tutto evidente.

    Del resto risultano chiare alcune componenti macrostrutturali di tale fenomeno:
    - la scolarizzazione di massa realizzata negli anni sessanta ha prodotto l’aumento di offerta di lavoro intellettuale.
    - Le misure di riforma della P.A. hanno determinato una richiesta di nuove professionalità sociali centrata essenzialmente sugli enti locali e modificato la struttura occupazionale del settore scolastico ed ospedaliero (i terminali tradizionali a prevalenza femminile, maestre ed infermiere, del vecchio stato assistenziale).
    - L’introduzione dei cosiddetti criteri privatistici nel settore dei servizi ha determinato o comunque rafforzato la crescita del terzo settore che si è anche qualificato in funzione alle scelte di esternalizzazione fatte dagli enti come soggetto di programmazione (vd. in particolare la legge 328).

    Tali elementi “macro”, quasi delle pre-condizioni, sono le evidenti spie di quel processo articolato e complesso definibile all’interno della “modernizzazione del paese” come costruzione dello stato sociale.

    Potremmo porre il punto di avvio del fenomeno nel fatidico ’68 e immaginare la sua precaria conclusione sulle soglie di fine secolo, dentro le contraddizioni della post modernità, in quanto la crisi dello stato sociale ci pare un aspetto di questo più generale fenomeno e della sua particolare variabile italiana segnata fortemente dalla capacità di cambiare conservando.

    L’analisi del processo di modernizzazione del paese e della sua contemporanea crisi è dunque la cornice dove, scontando il cosiddetto ritardo storico dell’Italia, si consuma la parabola del nostro welfare state.

    Fra le variabili analizzabili ci interessa in questa sede evidenziare la questione del senso delle professioni sociali, intendendo con esse la articolata gamma di figure professionali (diplomati o laureati) impegnate direttamente nella gestione dei servizi di aiuto o nell’ambito educativo e culturale interni allo stato sociale, che negli ultimi anni sono diventate la vera e propria cerniera umana dell’erogazione dei servizi alla persona (servizi sappiamo non più prevalentemente monetari ma relazionali).

    Del resto il costo diretto o indiretto del personale impegnato nel settore dei servizi sociali assomma a più di due terzi dell’effettiva spesa del settore. Siamo quindi di fronte ad un esercito di operatori ai quali è richiesta una professionalità essenzialmente di tipo intellettuale e comunicativa che provengono da percorsi formativi diversificati i quali si sono aggiunti alle figure tradizionali (insegnanti, assistenti sociali, medici) determinando, a mio parere, una modifica strutturale e profonda della concezione stessa di lavoro sociale.

    Del resto, prima degli anni settanta e durante il processo di crescita del sistema dei servizi, erano rintracciabili essenzialmente due prevalenti dimensioni motivazionali a queste professioni, quella cattolica e quella marxista, contrapposte sul piano pratico ma convergenti sul piano del senso. Infatti, entrambe ponevano l’accento sulla dimensione salvifica ed extra-soggettiva del lavoro sociale; la prima in direzione della salvezza dell’anima e di un’etica extramondana; la seconda in funzione della presa di coscienza di classe e di un’etica politica (non è qui il caso di affrontare le variabili specifiche-riforma o rivoluzione-che l’hanno drammaticamente attraversata). La professione finiva dunque per apparire un prolungamento della fede, una manifestazione di militanza.

    Il senso del lavoro sociale non era quindi né interno all’operatore né interno al soggetto assistito, ma apparteneva ad una dimensione altra, non individuale e neppure totalmente collettiva, veniva cioè posto oltre in un tempo ed uno spazio non del presente, ma di un futuro più o meno vicino e la dinamica della relazione operatore/utente sembrava appartenere più all’etica dell’intenzione, certificata dalla classe o dalla chiesa, che a quella della responsabilità.

    Il moderno rende improvvisamente residuale tale dimensione di senso in quanto, nel bene o nel male, esso assume come parametro di fondo l’individuo in quanto tale, nella sua traiettoria identitaria esso stesso concepito drammaticamente come problema.

    Siamo dentro, omettendo giudizi di valore, ad un altro orizzonte di senso: quello della autorealizzazione del sé come progetto nell’immanenza del qui ed ora, che riordina e riconnette anche il concetto stesso di lavoro. E’ possibile allora individuare un’aura comune, una serie di denominatori condivisi che costituiscono insieme il retroterra e l’orizzonte delle professioni sociali all’interno di questa diversa realtà, di questo ulteriore spostamento copernicano del punto di vista? In senso più generale si può rintracciare nella crescita dell’individualismo, inteso abbiamo detto come centralità dell’autorealizzazione immanente, il primo retroterra comune forse estensibile a tutte le dimensioni lavorative; in particolare, il lavoro è vissuto sempre più come mezzo e sempre meno come fine.

    Tuttavia il lavoro intellettuale massificato, non fondandosi più sull’idea di missione in linea di principio (anche per evidenti motivi di peso salariale) ed essendo scarsamente remunerativo sul piano immediatamente strumentale, tende a scoprire come propria una dimensione interna legata alla creatività (che del resto è sempre stata il parametro di misura del lavoro intellettuale elitario) come fonte di gratificazione e realizzazione del sé.

    Si apre quindi il primo livello di contraddizione: la dimensione creativa propria di ristrette elites ad alto livello di selezione diventa istanza fondante di gruppi consistenti di lavoratori a relativamente bassa selettività; l’operatore sociale tende cioè a valorizzare l’aspetto progettuale dell’intervento in opposizione a quello immediatamente operativo (nella pratica sociale è il rimando continuo del caso nella sua concretezza a qualcun altro).

    In questa logica la dimensione professionale tende sempre più a collidere o configgere con il livello politico che del resto ha sulle spalle una genesi analoga: non sono i decisori politici a loro volta lavoratori intellettuali (in un certo senso la professione politica sembra diventare di massa, vedi prolificazione degli organi elettivi quasi una sostituzione della vecchia militanza) di tipo sociale?

    Il secondo livello di contraddizione implica invece la modificazione del ruolo dell’etica nel lavoro sociale: la vecchia etica dell’intenzione nelle sue forme di impegno a garanzia collettiva non transita nell’etica della responsabilità, ma tende a trasformarsi in estetica dell’impegno lavorativo. Il lavoro ottimale è bello, gratificante, produce soluzioni originali ed è auto-deciso: è cioè paradossalmente un’opera d’arte.

    Fuori dal paradosso provocatorio, il lavoro sociale è percepito più come artigianato che non come industria. Gli operatori sociali si sentono come artigiani della relazione recuperando in questo quadro l’unicità, ma anche la pesantezza e la temporalità lunga del rapporto significativo fra persone.

    Questa descrizione fenomenologica di quello che abbiamo definito come orizzonte di senso delle professioni sociali lascia aperti almeno due interrogativi:
    - il primo attiene il rapporto fra creatività e responsabilità, quella sfera definita da altri come l’eticizzazione dell’estetica (ancora un interrogativo post moderno) che investe direttamente il rapporto fra professioni sociali, politica e burocrazia.
    - L’ancoraggio ad un valore sociale (extraindividuale) della responsabilità si esprime infatti in logiche organizzative e gerarchiche che dovrebbero comunque veicolare certezza del diritto degli utenti. Diritto a sua volta divenuto essenzialmente individuale e primario in quanto precedente a quello collettivo.
    - Il secondo attiene la riflessione sui percorsi formativi degli operatori sociali e la loro parcellizzazione specialistica. Tale dimensione è poco attenta, nella sua logica industriale, al terreno comune di formazione ed alla valorizzazione della responsabilità creativa (non opposta, ma fondante la capacità e la diversificazione tecnica dell’intervento). E inoltre si mostra scarsamente consapevole della centralità di quella faticosa dimensione artigianale del lavoro che restituisce nelle mani dell’operatore e dell’utente la costruzione primaria del rapporto di servizio.

    E’ in fondo questa, quella pericolosa e feconda direzione ad essere chiamata nell’esperienza concreta di chi agisce nel sociale navigazione a vista bordeggiando presso coste sfumate e con equipaggi eterogenei e ambivalenti.


    Collana Quaderni M@GM@


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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