 
 
      Scritture relazionali autopoietiche
       Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.4 Ottobre-Dicembre 2007
LA POESIA E L’ARTE 
      DELLA MIMESIS
      
      
      
      Ferdinando Testa
testaferdinando@libero.it
        Psicoterapeuta, psicoanalista 
                    junghiano (Centro Italiano di Psicologia Analitica, Catania); 
                    è impegnato da anni nel lavoro clinico-riabilitativo con i 
                    pazienti psicotici, in strutture socio-sanitarie per la cura 
                    e l’inserimento lavorativo; studioso dell’immagine e delle 
                    sue implicazioni nel mondo dell’arte e della terapia, è autore 
                    di numerosi articoli e relazioni in ambito scientifico; ha 
                    curato per Moretti&Vitali i volumi L’Immagine nell’Arte, nella 
                    Tradizione, nella Psicologia Archetipica (1997), I Territori 
                    del’Alchimia, Jung e oltre (1999), La Psiche e gli archetipi 
                    dello Spirito (2003), e per Vivarium ha curato Psicosi e Creatività 
                    (2003); è presidente dell’Associazione Culturale “Amici della 
                    Collina” che si occupa del pensiero immaginale e archetipico; 
                    è stato docente a contratto di Psicologia dinamica presso 
      l’università di Enna; vive e lavora a Catania.
“Si 
                    ama quello che colpisce, e si è colpiti da ciò che non è ordinario.”
                    Aristotele
                    
                    Vorrei iniziare questo scritto con un passo di Jung che ha 
                    accompagnato le mie riflessioni, durante la ricerca dello 
                    scrivere, e che si pone come una delle possibili chiavi che 
                    il pensiero della psicologia del profondo ha a disposizione 
                    per comprendere e parlare della creatività poetica. A tal 
                    proposito così si esprimeva Jung:
                    
                    “Mentre annotavo le mie fantasie una volta mi chiesi: ‘che 
                    cosa sto facendo realmente? Certamente non è nulla che a che 
                    fare con la scienza, ma allora che cosa è?’ Al che una voce 
                    in me disse: ‘E’ arte’. Fui sorpreso, non mi era mai passato 
                    per la testa che le mie fantasie potessero avere a che fare 
                    con l’arte. Allora pensai: ‘Forse il mio inconscio ha dato 
                    forma ad una personalità che non sono io e che potrebbe esprimersi 
                    con le sue proprie vedute’.
                    
                    Con molta enfasi, e decisamente restio, dissi a questa voce 
                    che le mie fantasie non avevano nulla a che fare con l’arte. 
                    Allora la voce tacque, e io continuai a scrivere. Poi ci fu 
                    un altro assalto, e si ripeté la stessa asserzione: - questa 
                    è arte. E nuovamente protestai: Non è arte!. Al contrario 
                    è natura.
                    
                    Mi disponevo ad un ripetuto e contrastante assalto, ma poiché 
                    non accadeva nulla, riflettei che la donna in me non possedeva 
                    un centro della parola, e così le proposi di servirsi della 
                    mia lingua. Accettò la mia proposta e subito espose il suo 
                    punto di vista con un lungo discorso.
                    
                    Mi interessava straordinariamente il fatto che una donna, 
                    dal mio interno dovesse interferire con i miei pensieri. Probabilmente 
                    pensavo doveva essere l’anima; è lei che comunica le immagini 
                    dell’inconscio alla coscienza e in ciò sta il suo pregio. 
                    Per decenni mi sono sempre rivolto all’anima quando ho sentito 
                    che il mio comportamento emotivo era turbato o mi sentivo 
                    inquieto. Allora voleva dire che c’era qualcosa nell’inconscio 
                    e quindi chiedevo all’anima”.
                    
                    Il pensiero di Jung rispetto al tema dell’arte (abbastanza 
                    contraddittorio e poco attento al clima letterario del suo 
                    periodo storico), scaturiva soprattutto da un’esperienza di 
                    discesa nel regno di Ade, alla ricerca della comprensione 
                    del significato delle sue immagini e degli stati d’animo che 
                    rischiavano di travolgerlo dopo la rottura con Freud, alla 
                    ricerca della propria individuazione. La possibilità, nonché 
                    la capacità di potere trasformare le emozioni in immagini, 
                    a mio avviso può esserci d’aiuto nella conoscenza della metafora 
                    poetica e del rapporto con Mimesis, che come vedremo oltre 
                    è contemporaneamente emozioni ed immagini.
                    
                    Mentre il poeta sembra quindi essere inconsciamente in sintonia 
                    a stare con la complessità e i paradossi di tali dimensioni 
                    (emozioni ed immagini), l’uomo non creativo corre il pericolo 
                    di essere inflazionato dalla dimensione archetipica quando 
                    vive delle esperienze come quella vissuta da Jung:
                    
                    “Dovevo accettare la sorte, e dovevo tuttavia osare, impadronirmi 
                    di quelle immagini, poiché altrimenti correvo il rischio che 
                    fossero esse a impadronirsi di me: un motivo importante per 
                    fare questo tentativo era il convincimento che non avrei potuto 
                    attendermi dai miei pazienti una cosa che non avessi osato 
                    fare io stesso.”
                    
                    E ancora, più oltre, il rapporto tra emozioni ed immaginazione 
                    acquista una valenza prospettica e indice di un confronto 
                    costante e dialettico che si pone come una delle metafore 
                    di base della dimensione poetica:
                    
                    “Finchè riuscivo a tradurre le emozioni in immagini, e cioè 
                    a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo 
                    interiormente calmo e rassicurato. Se mi fossi fermato alle 
                    emozioni, allora sarei stato distrutto dai contenuti dell’inconscio. 
                    Forse avrei anche potuto scrollarmele di dosso, ma in tal 
                    caso sarei caduto inesorabilmente in una nevrosi, e alla fine 
                    i contenuti mi avrebbero distrutto ugualmente. Il mio esperimento 
                    mi insegnò quanto possa essere d’aiuto - da un punto di vista 
                    terapeutico - scoprire le particolari immagini che si nascondono 
                    dietro le emozioni.”
                    
                    Mi sono soffermato a lungo su questo scritto perché come psicologo 
                    del profondo ritengo che esse rappresentano una possibile 
                    trama per comprendere il rapporto tra poesia, anima e mimesis, 
                    e di come il costante confronto con le immagini dell’inconscio 
                    possa essere causa di ricchezza interiore, accrescimento e 
                    ampliamento della coscienza umana, ma possiede anche il pericolo 
                    dell’inganno, dell’illusione e di smarrirsi nei meandri della 
                    psiche a volte in un viaggio senza ritorno perdendosi nel 
                    vuoto della follia. In questo senso, come studioso della psiche 
                    umana, ho molto da imparare dai poeti e dalla poesia in quanto, 
                    la poesia come il sogno è un antico processo che in maniera 
                    immediata ci pone in contatto con la forza della vita e con 
                    gli scenari della parola che non è più parola quotidiana, 
                    ma metafora che non spiega, ma accenna, non consiglia ma suggerisce, 
                    non imita ma somiglia.
                    
                    Come un filo di Arianna, l’esperienza di Jung può condurci 
                    nel labirinto di Cnosso dove occorre mettersi nella posizione 
                    di osservare, guardare, comprendere, non l’imitazione della 
                    vita ma la vita stessa nel suo fluire dinamico, nell’alternanza 
                    tra essere e divenire. In tale visione Mimesis non è la pura 
                    arte dell’imitazione, azione passiva di ‘copia’ di un modello, 
                    di un evento o di un sentimento esistente, ma è la forza creativa, 
                    archetipico dell’atto generativo, metafora della vita stessa 
                    e chiave analogica da cui si diramano le frecce di Eros per 
                    riempire il vuoto quando l’umano ha smarrito il contatto col 
                    divino o come, junghianamente parlando, l’uomo ha perduto 
                    il rapporto con l’Anima.
                    
                    Allora, è in questa condizione di depersonalizzazione che 
                    l’uomo appare confuso, disorientato, privo di amore per la 
                    vita e per se stessi, costellando il tema della giovane Psiche 
                    che nella favola di Apuleio si abbandona alle intemperie della 
                    vita, quando il giovane daimon eros ha preso il volo. L’Anima, 
                    archetipo della vita, non è più fattore teleologico, ma realtà 
                    concreta e non psichica; la sofferenza diventa mutatica, priva 
                    di parola, avvolta in se stessa, non trasformativa, ma pura 
                    e semplice imitazione dell’accadere senza imprimere agli eventi 
                    lo sguardo immaginale che aiuta a creare sopportando con meno 
                    fatica l’ombra della distruzione.
                    
                    Il tema della creatività e la capacità del poeta di attingere 
                    al mondo della natura e alla dimensione del corpo per fare 
                    risuonare le corde dell’anima, permette di concepire Mimesis 
                    in stretta relazione e connessione con Eros, dando consistenza 
                    e spessore immaginale alla sua vera funzione che è quello 
                    di generare nel bello, così come ben avevano compreso i Greci:
                    
                    «All’origine di Mimesis c’è, per i Greci, il ricreare versi 
                    di animali, rombi di tuoni, suoni e gesti umani, con voce, 
                    danza, espressione e dramma teatrali, tradurre esperienze 
                    sinestetiche, trasportarle e trasformarle con linguaggi mimetici 
                    per riunirli: il poeta trova melodia e parola da canti di 
                    pernici, Atena scopre il nomos policefalo dal pianto di Euriale, 
                    il cantare delle Deliadi è mimema di voci umane intellegibili».
                    
                    La parola poetica affonda le sue radici nella Mimesis, si 
                    nutre del già conosciuto e della dimensione personale ma si 
                    pone come ricerca dell’archetipo della vita: il suono; vibrazione 
                    sonora che squarcia il velo della natura e permette alla nascita/morte 
                    di fare il suo ingresso sulla scena dell’esistenza umana. 
                    È in questo mitema che il poeta fa la sua comparsa e si serve 
                    della metafora come utensile per scavare e penetrare nel sottosuolo 
                    dell’anima e guardare (regarder, sporgersi davanti, come quando 
                    ci si affaccia dal davanzale di una finestra), sporgersi avanti 
                    e permettere la visione dell’invisibile che ha bisogno di 
                    uno sguardo particolare per essere visto.
                    
                    E’ la metafora che permette dal punto di vista linguistico 
                    di recuperare il senso della tradizione e di immettersi in 
                    una visione dove il cosmo è pervaso da una Anima mundi basata 
                    sulla legge delle analogie e della similitudine, creando quella 
                    condizione di ‘partecipation mistiquè’ indispensabile per 
                    penetrare i misteri egli enigmi della poesia. Come occorre 
                    sottolineare che è la metafora l’elemento comune al pensiero 
                    della follia, vera trappola dove in tale condizione la parola 
                    è delirio e prigioniera dell’intuizione ermetica inflazionata 
                    dall’idea dell’essere separato dal divenire.
                    
                    Aristotele, nella Poetica, a proposito della metafora, così 
                    si esprime: «La cosa più importante di tutte è essere capace 
                    di metafore: questa è l’unica cosa che non si può prendere 
                    da altri ed è segno di talento, fare bene metafore è vedere 
                    il simile». E più oltre ancora: «Il poietis deve comporre 
                    le trame e dare loro forma con la parola mettendosi il più 
                    vicino davanti agli occhi: così, vedendo nel modo più vivido 
                    come trovandosi nel nesso dei fatti, può trovare ciò che conviene».
                    
                    Il tema del vedere rappresenta un fondamento nell’arte poetica; 
                    qui non si tratta di letteralizzare gli eventi che accadono 
                    ma vedere con gli occhi di Mimesis significa guardare ciò 
                    che accade e quello che ci circonda intendendolo nella prospettiva 
                    dell’Anima, ovvero dare corpo e sostanza all’immaginazione, 
                    pensando quest’ultima come attività creatrice dello spirito 
                    e processo dinamico che spinge a cogliere la verticalità della 
                    narrazione come possibilità che l’uomo ha a disposizione per 
                    ricomporre, non in una fantasia nostalgica, l’unità perduta, 
                    accettando le contraddizioni dell’esistenza, fatta di vita/morte 
                    per tentare di avvicinarsi e cogliere le somiglianze con l’atto 
                    creativo. Intesa in tale senso il rapporto tra poesia e Mimesis 
                    è simile a quello esistente tra sogno e realtà dove il sogno 
                    non è riproduzione o fotocopia di quello che accade, quanto 
                    piuttosto è artifex di un atto autentico che crea ed anticipa 
                    quello che non esiste ancora, il non progettato, lo sconosciuto 
                    , quello che deve avvenire; ed in questo senso possiamo concordare 
                    con il poeta russo Maikoschi che “il poeta anticipa il futuro”.
                    
                    In tale contesto esiste un rapporto stretto, fatto di analogie, 
                    similitudini e metafore, tra mimes e immaginazione, dal momento 
                    l’immaginazione risulta un processo che ha nella dinamicità 
                    una delle sue caratteristiche principali, trasformando e metabolizzando 
                    gli eventi che accadono con modalità e stili di approccio 
                    che sfuggono alla dimensione razionale ma che si avvicinano 
                    a quelle aree del sapere basata sulla amplificazione analogica, 
                    i miti , le fiabe, la visione, il sogno, ovvero al magma fluido 
                    dell’inconscio collettivo dove attingono i poeti: «radice 
                    di mimesis e imitazione è la stessa di immagine e immaginazione, 
                    mei, riferita a ‘tutto ciò che di mutevole e intermittente 
                    seduce l’attenzione’: al cangiante, vibrante, ipnotizzante, 
                    magico, astuto, ingannevole, alludono il sanscrito mâyâ, l’antico 
                    alto tedesco mein, con richiamo al brillio della luce (latino, 
                    micare), al pulsare del suono».
                    
                    L’attività immaginativa, come ben testimoniano le parole e 
                    l’esperienza di Jung, si interseca con la disponibilità a 
                    farsi trasportare nella riverie di Bachelard, dove il silenzio 
                    diventa una pausa nella narrazione verticale; l’immaginazione 
                    preferisce solcare i sentieri e le orme della ‘valle del fare 
                    Anima’ (Keats), dove l’errare e il vedere conducono il poeta 
                    ad esprimere le emozioni archetipiche in immagini che hanno 
                    somiglianze con l’antico suono e la bellezza sulfurea di Afrodite: 
                    è un vedere che immagina il sapore del gusto, il profumo dell’olfatto, 
                    il tocco della pelle, l’armonia dell’udito, arrivando ad una 
                    visione dell’estetica nella sua etimologia di aistesis, come 
                    percezione attraverso i sensi, dove il corpo non viene relegato 
                    nei meandri del basso, dell’inferiore, ma partecipa al coinvolgimento 
                    emotivo che eccita le fantasie e le immagini dell’Anima.
                    
                    In questo senso mimes è legata all’ ‘immaginato’ e non all’ 
                    ‘imitatio’, poiché è azione sospensiva e riflessiva; è creazione 
                    del daimon, ovvero di uno spazio riflessivo dove Eros può 
                    trovare dimora prima di passare all’azione, per congiungere 
                    ciò che l’irrazionale si accinge a prospettare. Il silenzio 
                    che fluisce da Mimesis partecipa al ritmo della psiche lasciando 
                    spazio al suono che precede la presenza dell’estraneo, dello 
                    straniero; accoglie nel proprio spazio le pause della vita 
                    e permette di respirare con la totalità dei sensi. La parola 
                    nella poesia di Lucio Piccolo è suono, ricerca raffinata delle 
                    vibrazione che accompagnano i versi all’incontro con aistesis 
                    per cogliere la totalità dell’essenza umana.
                    
                    In questo senso Mimesis è ricreazione, processo complesso 
                    e completo per riunire e rinvenire ciò che è stato spezzato, 
                    dando entusiasmo e tristezza all’agire umano che cerca costantemente 
                    di cogliere la scintilla del divino che si esprime nell’incanto 
                    della natura e nella gioia del piacere estetico.
                    
                    Se con H. Corbin le immagini allargano il cuore e con Hillman 
                    è il cuore la sede dell’immaginazione, il poeta vede in modo 
                    diverso dal momento che moltissimi sono i modi del vedere 
                    e la mutevolezza di questo atto dipende esattamente dall’infinità 
                    degli occhi che vedono, dai momenti a cui partecipa la visione 
                    delle relazioni e dagli stili in cui vedono: il poeta pertanto 
                    permette di far vedere con l’udito ed immaginare con il cuore 
                    agli altri ciò che lui ha potuto vedere.
                    
                    La sua funzione opera, inoltre, nel regno apparentemente anonimo, 
                    elidendo la sua unicità e individualità poiché in quel momento 
                    è strumento di espressione del transpersonale, del non umano: 
                    «l’artista da un lato è un essere umano, personale, dall’altro 
                    un processo umano, ma impersonale… In quanto artista, egli 
                    non è né autoerotico, né eteroerotico, né genericamente erotico, 
                    ma eminentemente impersonale, addirittura inumano, sovrumano, 
                    poiché come artista egli è la sua opera, e non un uomo» (Jung).
                    
                    La metafora sonora
                    
                    “Si ama quello che colpisce, e si è colpiti da ciò che non 
                    è ordinario” (Aristotele). Questa espressione messa come citazione 
                    di tale scritto, ci conduce nel cuore di Mimesis e nell’arte 
                    poetica in quanto quest’ultima risveglia le emozioni addormentate 
                    dentro di noi e nell’Anima Mundi e il poeta fa ciò in una 
                    maniera del tutto particolare, a mio avviso unica nella fenomenologia 
                    dell’arte: collegando, con la parola metafora, la voce con 
                    l’immagine, attraverso un processo non logico che riprende 
                    le tinture del colore, inteso quest’ultimo come espressione 
                    delle diverse tonalità di cui è dipinta l’Anima umana.
                    
                    Di fronte ad una poesia, la parola è metafora sonora che crea 
                    sinapsi, con l’immagine eccitata da suoni piuttosto che da 
                    scene visive guardate e presenti agli occhi, da personaggi, 
                    racconti allegorici, nature morte o abbracci di klimtiana 
                    memoria. Niente di tutto questo! L’ascoltatore, lasciato da 
                    solo di fronte ad un testo dove poche parole hanno macchiato 
                    col nero la purezza e la verginità del bianco, deve immaginare 
                    e lasciarsi penetrare dalle metafore che autonomamente (quasi 
                    come un complesso autonomo) si incuneano negli spazi grammaticali 
                    o in una punteggiatura simbolica.
                    
                    Il foglio scritto non è solo più foglio; la parola lasciata 
                    come una foglia d’autunno si allontana dalla sua materia ed 
                    è simbolo di altro che ha bisogno dell’immaginazione per dare 
                    forma ed espressione a ciò che l’anima umana partorisce nell’incontro; 
                    perchè la poesia è incontro tra l’impersonale e il personale 
                    e l’immaginazione nutre tutto ciò col fuoco della passione 
                    e dell’amore per il non progettato, il non ancora creato, 
                    per tutto ciò che deve avvenire e si deve individuare. Qui 
                    di fronte al foglio o al suono di una poesia, l’udito, antico 
                    organo filogenetico, viene risvegliato dal ricordo della memoria 
                    e l’invisibile, sorretto dal rumore dell’impalpabile, trova 
                    una propria forma e concretezza nell’immagine che scaturisce 
                    dall’emozione, che trasferisce, passa, trasgredisce e crea: 
                    «Fare mimesis è piacere di alterare (ex-allatein), traslare 
                    (methaferein), de-lirare, de-generare, per amore, e poi riannodare 
                    con nodo stretto, con l’enigma della metafora, che è di bellezza 
                    sinestetica, fa che le orecchie vedano cose, e le immagini 
                    mandino profumo, cioè essenza».
                    
                    In questa trama, ben si intuisce come il poeta lambisce più 
                    di ogni altro artista i confini permeabili della razionalità, 
                    dell’essere umano della certezza, per sfiorare, perforare, 
                    oltrepassare la parola condivisa per entrare nella parola 
                    folle, quest’ultima intesa in una accezione psicologica e 
                    non psicopatologica, assaporandone il fascino, il brivido 
                    della paura, l’inganno delle illusioni e delle verità apparenti 
                    e nascoste. Il poeta che vive nella creazione dell’atto poetico 
                    nell’humus simile a quello della follia rientra nel suono 
                    condiviso, piuttosto che smarrirsi nell’universo simbolico 
                    in cui la parola diventa unicamente metafora, atrofizzando 
                    in maniera delirante il gioco simbolico dell’entrare e dell’uscire, 
                    come invece accade purtroppo in ambito psicotico. In questa 
                    condizione di metafore sonore, il poeta viandante ama avventurarsi 
                    nella foresta delle emozioni e dei simboli, per farsi spazio 
                    nel mondo e fare spazio alle immagini che scaturiscono dalle 
                    parole, messe con amore e sofferenza, le une accanto alle 
                    altre. Ma il poeta non ama solo la libertà.
                    
                    Mimes, ci ricorda che il poeta ama anche la trasformazione 
                    dei luoghi di cui la psiche umana è prigioniera del proprio 
                    destino e a volte impossibilita a scegliere, spinta dalle 
                    forze archetipiche dei demoni che sono diventati malattie. 
                    Allora il destino del poeta, penetrando nella foresta, è quello 
                    di farsi amico dell’inquietante, dell’estraneo e del perturbante, 
                    a tutto ciò che non appartiene al familiare, pur smarrendosi 
                    nell’incertezza può trovare con la creazione poetica il filo 
                    di Arianna per ri-venire, ritornare nel mondo di qua piuttosto 
                    che rimanere catturato negli specchi illusori delle proprie 
                    immagini e quelle archetipiche, come invece accade nella storia 
                    dello psicotico.
                    
                    Nell’aforisma di Simonide la «pittura è poesia muta e poesia 
                    è pittura sonora» (Plutarco), l’occhio si posa sul suono e 
                    non sul racconto e l’emozione acquista una pregnanza ancora 
                    più antica, permeata dalla capacità di creare immagini nella 
                    propria mente non filtrate e aiutate da uno stimolo visivo 
                    esterno; qui l’orecchio si collega direttamente al cuore e 
                    spinge l’ascoltatore a creare, fabbricare, generare (piuttosto 
                    che imitare ciò che esiste) altro, diverso da ciò che è visibile, 
                    e che non appare ancora sullo scenario dell’incontro con la 
                    poesia.
                    
                    Mimesis è l’altro sguardo di poiesis, epistrofè che tenta 
                    di ritornare con l’Anima al divino, alla bellezza di Eros, 
                    daimon di pieno/vuoto, costantemente alla ricerca per scagliare 
                    le proprie frecce e ingannare con le astuzie i cuori, le passioni 
                    degli uomini, infiammare le relazioni e le trame degli eventi, 
                    erotizzare la sofferenza e patologizzare l’amore poiché con 
                    Rilke “la bellezza non è niente altro che l’inizio del terrore”. 
                    Mimes come Eros parla all’anima irrazionale, illogica, ama 
                    gli inganni, spalanca le porte all’emozione e si nutre dei 
                    brividi della paura, è contraddittoria, mutevole, fa ridere 
                    ed espone la coscienza alla sua sfrontata falsità; è ritratto 
                    della vita, così come Eros nacque da un inganno di Penia verso 
                    Paros; uno sguardo verso i paradossi, le ombre e le luci che 
                    si stagliano come in un dipinto del Caravaggio.
                    
                    Apollo, Ermes, la poesia
                    
                    Si racconta che i due fratelli, Apollo ed Hermes, rappresentavano 
                    nella loro vita l’emblema degli opposti, l’unione e la compresenza 
                    di distanze contrarie, di immagini ambivalenti, dissimili, 
                    eppure unite forse solo dalla poesia. Ancora una volta ricorrere 
                    al mito, alle origini è il richiamo di Mimesis, non come semplice 
                    ritorno al passato, all’infanzia di sapore freudiano ma riscoprire 
                    l’infanzia mitica dei due fratelli, della loro nascita, dei 
                    doni, e dei giochi costruiti come la cetra con le sue corde 
                    melodiose da cui scaturiva la gioia e l’incanto. Forse questo 
                    può essere una tela dove si può collocare la poesia, su uno 
                    sfondo mitologico.
                    
                    Apollo
                    Nacque in maniera solare, all’aperto e con un balzo luminoso, 
                    accompagnato dalla sua cetra, suonava armonie melodiose che 
                    sconfiggevano i mostri sotterranei e le ombre terrificanti 
                    che fecondavano la notte dei Greci. La luce di Apollo è una 
                    strana luce: eccessiva, ridondante, quasi accecante, che portava 
                    ovunque solarità, chiarezza e verità e come una freccia partita 
                    da un arco teso fendeva e perforava le immagini oscure della 
                    Psiche dei Greci lasciando dietro di sé la presenza della 
                    morte, quasi che la troppa luce assomigli in fondo al suo 
                    opposto, il buio della notte:
                    
                    «Apollo era il grande dio, la figura nobile e tragica; col 
                    suo arco cetra stava lontano dagli uomini; sopra una montagna 
                    o nella distanza invalicabile della mente profetica. Sapeva 
                    che gli uomini erano piccoli, simili a foglie; appena il sogno 
                    di un’ombra (Pindaro) e per questo imponeva loro dei limiti 
                    e castigava la loro hybris. Quando scendeva tra gli uomini 
                    suscitava sgomento e stupore, spavento e venerazione; chiaro, 
                    puro, semplice: come sembra la luce; era veritiero, ignorava 
                    la menzogna; tutto ciò che nella mente è formato ed armonico 
                    apparteneva al suo regno».
                    
                    Ermes
                    Il fratello aveva a che fare invece con sotterranei della 
                    terra, luoghi chiusi, caverne solitarie, ombrose e nascoste.
                    
                    Amante e signore della notte, quando camminava per le strade, 
                    il silenzio calava e le ombre dell’umanità prendevano possesso 
                    degli spazi geografici sempre più deserti e nascosti, mentre 
                    gli uomini erano catturati dal sonno profondo. Ermes era invisibilmente 
                    presente ed uno dei suoi compiti era quello di andare oltre, 
                    attraversare, trasferire, condurre le anime dei morti. Ma 
                    anche lui era portatore di luce, nonostante ciò non era chiaro 
                    dell’inizio:
                    
                    «La vera luce di Ermes era quella degli occhi: la fiamma dei 
                    suoi sguardi era così mobile e vivace e il lampo delle pupille 
                    così simile allo scintillio luminoso, che doveva abbassare 
                    gli occhi per non rivelare i propri pensieri. La sua era la 
                    luce brillante e insidiosa, astuta e ombrosa, complicata, 
                    sfuggente ed ironica che si nasconde nel cuore delle miti 
                    notti ermetiche, e che non ha nulla in comune con quella violenta 
                    ed accecante di Apollo. Aveva una passione insostenibile per 
                    tutto ciò che era losco, osceno, scurrile, ambiguo: e ci insegnò 
                    che il più infimo gesto della vita può avere la stessa grazia 
                    insinuante del gesto superiore».
                    
                    Quanta distanza, in queste due figure mitiche; contraddizioni, 
                    ambivalenze, oscurità e luce, notte e giorno, chiuso e aperto. 
                    Eppure Apollo ed Ermes avevano spinto le immagini dei greci 
                    a trovare nell’arte della poesia il simbolo della loro unione, 
                    ponendosi questa come una sorta di vaso alchemico che raccoglie 
                    ciò che apparentemente è così dissimile e distante; ma la 
                    psicologia del profondo ci ha fatto comprendere che il bianco 
                    e il nero, la superficie e la profondità appartengono alla 
                    stessa matrice comune, quella simbolica dove c’è l’una, la 
                    luce, è presente anche l’altra, l’ombra, e viceversa.
                    
                    Il poeta allora immaginando Apollo, diventa un arciere e le 
                    sue parole frecce che partono da lontano e non sbagliano mai 
                    la meta: colpire con precisione, esattezza ed armonia la meta 
                    quasi che un ordine lineare ed una architettura priva di trasgressione 
                    fosse alla base del messaggio da portare. E il messaggio che 
                    Apollo porta è la gioia, simile al piacere dell’incontro, 
                    del cibo, dell’amore che coinvolge il corpo ed il cuore, quasi 
                    che la gioia come una danza riempisse l’Anima umano e per 
                    un attimo le permettesse di cogliere la bellezza e l’eternità 
                    della vita. Ma la gioia della freccia ha sempre come compagna 
                    l’ombra del dolore, della sofferenza, della morte, così come 
                    traspare in ogni verso di Omero, di Pindaro ed Eschilo. Ancora 
                    una volta ritornare alla solarità della poesia apollinea, 
                    ci conduce aduna delle molteplici funzioni ed immagini di 
                    Mimes, centro motore dell’archetipo dell’esistenza: vita e 
                    morte.
                    
                    Se con Apollo il dardo colpisce e lascia spazio alla tragedia 
                    della fine, in Ermes quello che colpisce e conduce alla profondità 
                    è l’incanto, una suggestione senza fine avvolta nel manto 
                    delle ombre melodiose costellate dall’inganno, la seduzione, 
                    la quiete, la magia, il sonno, la possessione, l’oblio, la 
                    morte. Tanto è vero che i Greci avevano personificato tutta 
                    questa trama ermetica nella figura delle sirene, capaci di 
                    sedurre, incantare ed ammaliare fino a portare ad una perdita 
                    di se stessi, uno smarrimento e un vagare nell’universo della 
                    notte e delle ombre di Ade, dove la parola del racconto e 
                    dell’ascolto conduceva ad una morte accompagnata dall’angoscia 
                    di perdersi in un nulla melodioso e affascinante.
                    
                    Alla poesia ermetica aveva resistito Ulisse, imponendo ai 
                    suoi compagni di farsi legare al palo (la solidità della Terra) 
                    ma conservando la funzione dello sguardo e dell’udito, metafore 
                    basilari della poesia, invitando a rifletterci che di fronte 
                    alla magia dell’Eros dobbiamo essere ben legati, ovvero aveva 
                    un intenso legame con noi stessi per sopportare i misteri 
                    della poesia (ma qui direi della vita) per non essere catturati 
                    dalla follia, perché in fondo la follia è una morte che non 
                    finisce mai.
                    
                    Solo in questo modo Ulisse una volta fattosi legare e avendo 
                    visto e udito ha potuto, seguendo le trame degli dei, ritornare 
                    a casa, ad Itaca, e dare spazio reale e sostanzioso al nostos, 
                    al desiderio di ritorno nel luogo delle sue radici, origini, 
                    per assaporare la gioia della poesia apollinea caratterizzato 
                    dal racconto, dalla memoria, agli altri della dimensione ermetica 
                    ed esoterica che aveva vissuto e fatto esperienza durante 
                    i suoi viaggi, che aveva potuto recitare a Penelope proprio 
                    perchè sorretto dal legame con Ananke, la necessità di avere 
                    l’umano un rapporto con la dimensione archetipica.
                    
                    “Ecco il poeta caro ad Apollo, nutrito di luce assoluta e 
                    di tenebra assoluta, di gioia e di morte: ama la tragedia, 
                    la forma pura, la nobiltà dello stile, la distanza della mente, 
                    la verità nuda o velata, e l’armonia. Ed ecco il poeta di 
                    Ermes: questo piccolo demone notturno, dalla mente molteplice, 
                    colorata e scintillante, che predilige la commedia, le menzogne, 
                    i sogni, il caso, Eros, la tenerezza e la leggerezza e può 
                    soccombere o farci soccombere ad un incanto melodico più terribile 
                    di ogni morte. La letteratura è fatta quasi soltanto di questo. 
                    Non c’è che Apollo ed Ermes: Ermes ed Apollo, la loro tensione, 
                    il loro colloquio e qualche volta il loro profondissimo incontro”.
 
 
      
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