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  • Il counseling e le culture: le culture del counseling
    Massimo Giuliani (a cura di)

    M@gm@ vol.5 n.2 Aprile-Giugno 2007

    BIAS, EQUIVOCI INTERCULTURALI E PREGIUDIZI: UNA PROPOSTA DI GESTIONE COORDINATA DEI SIGNIFICATI (CMM) NELL’INTERAZIONE FRA DIVERSE BIOGRAFIE E DIVERSE CULTURE

    Guido Veronese

    guido.veronese@tiscali.it
    Si è laureato a Padova in Psicologia ad indirizzo clinico e di comunità; È psicoterapeuta della famiglia, della coppia e dell'individuo e mediatore famigliare di orientamento sistemico; Dottore di ricerca (Phd) in Psicologia Clinica, collabora come ricercatore assegnista con la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Milano Bicocca; Svolge attività clinica privatamente e come consulente presso il consultorio accreditato della clinica Mangiagalli di Milano; si occupa di psicologia dell'emergenza in collaborazione con l'Institue for Family Therapy and research "Al Madina" di Nazareth.

    Introduzione

    Pensare la parola “evoluzione” come un’equivalente del termine “storia” consente di operare un utile e importante parallelismo tra evoluzione culturale ed evoluzione biologica e di ridimensionare l’ipotesi che vede nelle differenze genetiche la madre di tutte le differenze culturali (Cavalli Sforza, 2004). Passato, presente e futuro sono ricorsivamente connessi e trovano la loro sintesi nella dimensione storica che informa eventi come il frazionamento delle culture, concetti quali quello di evoluzione culturale, genetica e infine il razzismo. La capacità comunicativa e lo sviluppo del linguaggio hanno fatto dell’uomo, negli ultimi centomila anni, l’essere sociale di oggi, la cui cultura appare a tutti i livelli altamente frazionata. Gregory Bateson (1972) ridimensiona la critica a cui si espongono le epistemologie che tendono a enfatizzare quelle “regolarità” e “uniformità” all’interno di un ristretto gruppo sociale sintetizzabili con il termine di “carattere nazionale”. Tale critica è centrata sull’idea che tutte le culture appaiono dall’ interno fortemente eterogenee e che le eccezioni alle norme costituiscono la regola. I cambiamenti interni si rivelano il più delle volte repentini e disomogenei e gli stessi confini nazionali perlopiù risultano arbitrari e fittizi. Bateson (1972) ipotizza, piuttosto, che comportamenti e risposte uniformi siano elicitati con maggior virulenza quando le strutture contestuali rinforzino queste risposte e comportamenti. Il sistema morale occidentale e americano, ad esempio, è strutturato in maniera tale da reagire simmetricamente ad un nemico vissuto come polarmente opposto, “altro” e omogeneamente ostile “...le distinzioni e le gradazioni che gli intellettuali potrebbero preferire sarebbero probabilmente di intralcio” (Bateson, 1972, p. 141). La trasmissione culturale costituisce, perciò, il processo che determina attività culturali molto radicate e lentamente modificabili quando fortemente incarnate nella struttura contestuale di cui sono parte interagente o rapidamente rimpiazzabili qualora le parti subiscano in grado minore le pressioni contestuali. Il perdurare di effetti culturali non deve essere confuso con l’eredità genetica. Una tale confusione potrebbe avere come conseguenza una deriva razzista, intendendo con razzismo il principio per cui le differenze osservate fra diverse popolazioni vengano ridotte a fattori genetici immutabili (Lévi-Strauss, 1952).

    Il passaggio logico da una idiocultura puntiforme che costituisce la biografia personale a microculture locali, situazionali e circoscritte fino ad aspetti macroculturali trasversalmente condivisi da un vasto numero di gruppi sociali, consente una prima essenziale rappresentazione dei molteplici livelli di significato implicati nell’interazione sociale in tutte le sue dimensioni, dal micro al macro. Attualmente stiamo assistendo ad una sorte di ecumenizzazione dei servizi, delle tecnologie e dei prodotti che rischia di appiattire le differenze in nome di un mercato globale irrispettoso della diversità, delle idio e delle microculture e che rischia di favorire un’omogeneizzazione la cui deriva patologica potrebbe avere come esito l’ etnocidio delle culture (Hannerz, 1996).

    Nel corso dell’articolo analizzeremo le ragioni che fanno delle diversità culturali una manifestazione della mente umana come mente contestuale e multiculturale, capace di far convergere e coordinare diversi sistemi di significato a partire da pregiudizi idiosicratici attraverso atti creativi e di irriverenza (Cecchin et al., 1992). Le culture, da questa prospettiva, possono essere paragonate ad habitat di significati le cui matrici di significato appaiono molteplici e disomogenee, voci dialoganti in un canto armonico e polifonico. Esse costituiscono le identità di individui, famiglie, gruppi e società i cui modelli e principi guida appaiono peculiari, a volte antitetici ma permeabili e adattabili a contesti culturali multipli e pluriversi (Anolli, 2004).

    Cercheremo, infine, di proporre un modello di comunicazione cosmopolita in contesti multiculturali e di verificarne la praticabilità alla luce delle proposte teoriche socio-costruzioniste e in particolare della CMM (Coordinated Management of Meaning) [1] (Pearce, Cronen, 1980).

    Un aiuto dalle neuroscienze, dalla neurofenomenologia e dalle teorie evoluzioniste della complessità

    Gli scambi culturali avvengono per trasmissione e apprendimento attraverso processi e sforzi che mantengono, plasmano e modificano le culture. Tali processi possono essere riassunti sotto la sigla di “trasmissione e evoluzione culturale” (Cavalli Sforza, 2004). La somma dei cambiamenti, delle innovazioni e della loro accettazione statistica costituisce il processo di evoluzione culturale. Appare intuitivo che il cambiamento come qui inteso proceda solo ed esclusivamente attraverso l’interazione fra individui (Gallese, 2006). La neurofisiologia ci indica come il cervello umano sia programmato per rileggere da un punto di vista personale ed idiosincratico l’intersoggettività. Esso è dotato di un particolare tipo di neuroni allocati nella corteccia parietale posteriore e premotoria (i neuroni specchio) in grado di attivarsi nel momento in cui un individuo si trova ad agire oppure ad osservare l’azione di un secondo individuo. Ne risulta che la percezione delle azioni altrui e del loro significato equivale ad una simulazione interna al singolo soggetto di carattere prelingustico e motorio. L’individuo, l’osservatore, sembra perciò muovere da sé per comprendere l’altro come in una sorta di rappresentazione interna della relazione tra sé e l’oggetto in azione (Von Foerster, 1987).

    Husserl (1989) è dell’idea che il Leib, ovvero il corpo vissuto come proprio e in azione, sia alla base di ogni percezione compresa quella sociale. Il soggetto, attraverso un meccanismo di simulazione incarnata (Gallese, 2006), cerca di controllare l’interazione con l’altro da sé costruendo nel tempo forme sempre più articolate di intersoggettività. Il cervello umano è programmato all’incontro con l’altro ed è in grado di costruire un’identità del tipo sé-altro da sé. Gallese (2003, 2006) propone di chiamare questo tipo di identità trasversale a tutte le forme di relazione interpersonale con il termine di «sistema della molteplicità condivisa». Quando interagiamo con una persona essa diventa una persona come noi attraverso un processo di consonanza intenzionale, cioè qualcosa di più di una semplice percezione delle nostre rappresentazioni sociali, ovvero un processo che consente la mutua intelligibilità tra esseri umani. Detto altrimenti, fenomeni di consonanza intenzionale fanno dell’uomo un essere empatico. L’altro viene percepito attraverso una relazione di somiglianza e l’interazione con l’altro contribuisce a costruire l’identità personale (Mead, 1934).

    Da un punto di vista evolutivo, pensare a diverse culture come ad una sorta di “isole genetiche” che nel tempo hanno consentito a gruppi umani, in perenne lotta contro le trappole della selezione naturale, di adattarsi al proprio ambiente può apparire riduttivo (Badcock, 2000, Anolli, 2004). Una visione adattativa della cultura avvalla ipotesi etnocentriche che considerano il modello culturale di appartenenza come il migliore dei mondi possibili (ad es. la migliore democrazia, la migliore famiglia, il miglior sistema di cura ec.) perché corroborato dalle spinte selettive e dal banco di prova del migliore adattamento all’ambiente. Invece, un modello evoluzionistico che guardi ai cambiamenti culturali in termini exattativi [2] si approssima maggiormente ad un’idea di evoluzione culturale come regno del possibile, in quanto se si dovesse ripetere due volte uno stesso processo evolutivo in presenza delle stesse identiche condizioni, otterremmo risultati del tutto diversi e solo parzialmente regolati dalle leggi della selezione culturale. I sistemi viventi, oltre che autopoietici, eteropoietici (evoluzione per selezione e per co-cambiamento con il contesto), sono sistemi riorganizzantisi a seguito di cambiamenti exattativi non solo nel patrimonio genetico ma anche e principalmente nelle funzioni culturali (Maturana e Varala, 1992; Pievani, 2004). Un esempio di funzione culturale exattativa è costituito dal comportamento omosessuale maschile nei villaggi dell’India (Ross, Wels, 2003). I comportamenti sessuali sia di carattere omo che di carattere eterosessuale sono i prerequisiti fondamentali per mostrare abilità che consentano di accedere al matrimonio in una società in cui le nozze sono strettamente correlate all’organizzazione familiare e sociale tanto quanto la sessualità. Il comportamento omosessuale ha la funzione di dimostrare la potenza sessuale maschile sia con uomini che con donne. L’omosessualità ha, inoltre, l’importante funzione di promuovere accordi omosociali in una società a dominio maschile e di ridurre comportamenti competitivi e di rivalità nella conquista delle donne. Comportamenti omosessuali consentono nella società rurale indiana scariche della pulsione sessuale in età precoci quando le spinte alla sessualità prematrimoniale sono molto potenti. Il comportamento omosessuale appare in tal senso un fenomeno exattativo del comportamento omosociale [3]. In tal senso l’omosessualità costruisce il proprio razionale in un arco temporale di alcuni millenni e perciò non può che scardinare le puntiformi critiche moderniste di devianza, in quanto esse sono limitate esclusivamente all’analisi di epoche evolutive dell’umanità recenti.

    La costruzione sociale delle emozioni, dei sistemi valoriali e della moralità

    Da un punto di vista semiotico la cultura risulta incarnata nella comunicazione come sistema di segni, verbali e non verbali, con significato. Geertz (1987 p.41) descrive l’uomo come “un animale sospeso nella ragnatela dei significati che egli stesso ha tessuto”, la cui cultura è declinabile in una continua attività di significazione e di (ri)produzione di senso. I significati si trasmettono e si riproducono attraverso narrazioni con caratteristiche peculiari che vanno dall’intenzionalità all’estetica fino all’appartenenza ad un vero e proprio genere narrativo [4].
    Nelle culture linguaggio e comunicazione non verbale sono mezzi espressivi di emozioni e di sistemi di valore. Essi covariano secondo un principio di efficacia, pragmatica e semantica, nella costruzione di relazioni e di intersoggettività.

    Di particolare interesse appaiono i processi comunicativi che riguardano la sfera non linguistica, la cui disomogeneità e variabilità fa del non verbale e del paraverbale il simbolo della babele umana in tutte le sue caleidoscopiche sfaccettature.
    - Lo sguardo, oltre che di fondamentale importanza per definire le relazioni sociali, è un regolatore delle relazioni di potere. Nelle culture nordiche e in quella giapponese non fissare gli altri, ed in particolare gli estranei, è segno di rispetto e buona educazione, a differenza della cultura araba e sudamericana che al contatto oculare prolungato attribuisce significati di considerazione, rispetto, sincerità ed interesse.
    - La gestualità, ad esempio i gesti simbolici, presenta un’amplissima variabilità culturale. Se nelle regioni nord europee scuotere verticalmente il capo significa annuire ed orizzontalmente è un segno di diniego, in Bulgaria avviene il contrario ed in Sicilia per dire no si da un colpo all’indietro con la testa (accompagnato dal verso paralinguistico “tc”). Il gesto della mano a borsa in Italia meridionale indica perplessità, lentamente in Tunisia, buono in Grecia, molto bello in alcuni paesi arabi, paura in Francia, in Inghilterra non ha alcun senso. Le dita a V rivolte verso il parlante in Inghilterra valgono il corrispettivo di un insulto (il continentale dito medio alzato), in altri paesi il gesto equivale al segno di vittoria sia che il palmo sia rivolto all’interlocutore sia che esso sia rivolto verso il parlante. Il gesto dell’OK indica qualcosa di buono per l’anglosassone, una cosa di valore 0 per il francese.
    - Il sorriso varia dallo smile code della cultura nordamericana (gioia, benessere, contentezza personali anche artefatti in situazioni social), alla funzione di mettere a proprio agio l’interlocutore nella cultura giapponese.
    - Prossemica: ad una cultura della distanza (angolazione laterale) delle popolazioni nord europee si contrappone una cultura della vicinanza dei popoli latini e arabi (angolazione frontale).
    - Contatto fisico (aptica): arabi e latini cercano il contatto a differenza delle culture nordiche che privilegiano il distanziamento.
    - Silenzio come regolatore sociale: nella cultura occidentale il silenzio dell’interlocutore comunica deferenza nei confronti del parlante. Maggiore sarà la differenza di status, maggiore sarà l’asimmetria nei silenzi tra le parti interagenti. Tra i wolof del Senegal tacere durante il saluto è segno di superiorità, saluterà per primo chi appartiene ad una classe inferiore. Tra i maori neozelandesi in assemblea ha diritto di parola esclusivamente l’anziano, i giovani tacciono. A culture loquaci (latine, africane, indiane) corrispondono culture silenziose (giapponese, nativi del Nord America, lapponi svedesi) (Anolli, 2004).

    Un apologo in voga tra gli studenti indiani di fine Ottocento che frequentavano le università inglesi di Oxford e Cambridge rende conto di quanto incomprensibili potessero sembrare alcuni segni di riservatezza e di aplombe anglosassone ad uno studente indiano migrante. Alcune persone soccorrono in mare un bagnante che rischia di annegare, solo un inglese resta fermo impassibile sulla spiaggia. Alla richiesta di spiegazioni sul motivo che lo abbia spinto a non intervenire l’inglese risponde placidamente - “perché ci conosciamo? -.

    La prospettiva costruttivista fa delle emozioni una sorta di etichetta culturale la cui variabilità costituisce la grammatica emotiva delle popolazioni, ovvero quell’insieme di espressioni linguistiche , paralinguistiche e non verbali che connotano gli stati emotivi individuali e collettivi. La stessa espressione delle emozioni è incentivata o disincentivata a seconda dell’appartenenza culturale e a seconda delle differenze di status socio-economico all’interno della medesima cultura. L’interpretazione delle espressioni facciali è solo parzialmente riducibile a degli universali omogenei ed indifferenziati, piuttosto il contesto entro cui viene letta un’espressione emotiva può essere utile ad un’interpretazione trasversale alle culture e limitare la possibilità di equivoci (Fernandez-Dols, 1999).

    La costellazione di valori che esprimono all’interno di una cultura un certo grado di desiderabilità sociale, contribuiscono al mantenimento dell’ equilibrio e dello status quo, preservando l’individuo e la comunità da fenomeni di disagio, devianza e dissoluzione. I valori sono costrutti condivisi socialmente che polarizzano semantiche del tipo giusto/sbagliato, desiderabile/esecrabile, bene/male ec. Essi determinano e accentuano le differenze e spesso definiscono un tipo di costrutto dicotomico etnocentrico che separa il noi dal voi, lo stato canaglia dal regno del bene, reificando metafore locali di matrice politica (La Democrazia), sociale (L’Uguaglianza) e religiosa (Il Dio Unico) e facendone, dunque, la soluzione universalistica ai dolori, alle ingiustizie e alla crudeltà del genere umano.

    Il corpus di valori che statisticamente appaiono condivisi e salienti all’interno di una popolazione delimita il sistema morale della popolazione stessa. Il sistema valoriale di un gruppo umano presenta regolarità spazio-temporali tali da marcare le differenze tra diversi gruppi sociali e tali da delimitare quello che Bateson (1972) definisce “carattere nazionale”. Morali a confronto si strutturano in una gerarchia di potere in cui, in nome della “sovranità” e della “democrazia”, la ragione del più forte appare “mondializzare” il proprio sistema valoriale al di fuori dello spazio e del tempo, “..collocazione insostituibile di un deserto nel deserto’” (Derrida, pg.15).

    I pregiudizi come orientatori di scopi e credenze


    La connotazione negativa che il senso comune tributa al concetto di pregiudizio non rende conto dell’importanza del valore orientativo che un tale procedimento cognitivo ed emotivo ha nel raggiungimento di obiettivi e nel costituirsi di credenze idiosincratiche che consentano all’uomo di costruire la propria esperienza anticipando gli eventi e di costruire la propria realtà individuale, micro e macro sociale (Kelly, 1955).

    Una visione «scopistica» dell’uso del pregiudizio corrobora l’ipotesi del relativismo culturale che considera gli elementi caratterizzanti le singole culture come intercambiabili e passibili di revisione nel momento stesso in cui la persona, scienziato ingenuo e sperimentatore “esperto” della quotidianità, valuta le proprie credenze come inadeguate al raggiungimento di specifici obiettivi (Bannister, Fransella, 1971). Detto ciò anche le credenze culturali più radicate possono lasciare spazio a nuove pratiche sociali più funzionali al soddisfacimento di costrutti pregiudiziali sovraordinati. Un esempio eclatante è costituito dalla recente inconciliabilità tra la profondamente radicata istituzione cristiano-cattolica di famiglia tradizionale mononucleare ed il pregiudizio che orienta l’uomo vieppiù verso un soddisfacimento terreno del bisogno di libertà e verso la realizzazione della propria felicità. Ne risulta che, nonostante l’ortodossia culturale richiami centinaia di migliaia di persone in piazza per difendere l’unicità e l’inviolabilità dell’istituto familiare cristiano identificato nel matrimonio eterosessuale e generativo, le famiglie minoritarie, plurinucleari, conviventi, senza figli ec. non costituiscono più un’eccezione, appaiono, anzi, destinate nei prossimi decenni a soppiantare e sostituire le sempre più obsolete forme di famiglia tipica (Fruggeri, 2005; Volpi, 2007). Difficilmente oggi l’istituzione famiglia resisterebbe a pregiudizi quali quello di felicità, libertà e autorealizzazione. Il corpus di stereotipi, di credenze e di conoscenze che dirigono l’azione è connotato da una gerarchia di pregiudizi culturali che divengono a nostro avviso disfunzionali e pericolosi solo nel momento in cui lo stereotipo viene reificato ed entra in un circuito vizioso con le profezie che si autoalimentano e si autodeterminano. Il valore orientativo e speculativo del pregiudizio viene così rimpiazzato dall’autoaffermazione totalitaria del proprio sistema identitario. D’altro canto lo sviluppo di un retropensiero autoriflessivo, che tenga conto di presentimenti, fantasie, ipotesi, teorie implicite ec., consentirebbe alla persona di giocare creativamente con i propri pregiudizi, di sviluppare nuove idee e di discostarsi dall’ortodossia in difesa dello status quo (Cecchin et al., 1997). Il pregiudizio in tal senso costituisce quel “lessico finale” (Rorty, 1989) inscritto nel contesto di apprendimento di individui e società, che determina l’interazione con lessici differenti in una catena infinita di significati e comportamenti evocati dall’incontro.

    Irriverenza, creatività e umorismo come metaregole per “giocare” con i pregiudizi: verso una gestione coordinata dei significati nel contatto fra culture

    Gregory Bateson (1958, 1949) teorizzò a partire da osservazioni sul campo come, nel contatto tra diverse culture, interazioni cumulative determinassero il differenziarsi dei comportamenti di individui e di gruppi sociali. Bateson (1972) isolò due particolari tipologie di interazione, simmetrica e complementare, a cui ne aggiungeva una terza, peculiare della cultura balinese, in cui i primi due tipi si alternavano bilanciandosi e dando vita ad un tipo di interazione detta reciproca. Anche in culture fortemente polarizzate come quella iatmul, esistevano particolari momenti rituali in cui esperienze di inversione di ruolo producevano esperienze assai prossime a fenomeni di reciprocità (Bateson, 1949 ). Il momento rituale si approssima a transazioni interattive equiparabili al gioco, al motto di spirito e all’umorismo. Esistono cioè dei segnali di ordine superiore, delle regole ad un livello meta, che comunicano ai partecipanti all’interazione la natura dell’interazione stessa: gioco, aggressione, corteggiamento, rituale, ecc.

    Le metaregole che definiscono la natura dell’interazione contribuiscono a creare nel corso della comunicazione circuiti virtuosi che consentono a diversi livelli di contesti multipli di intercambiarsi armonicamente (armonic loops) senza creare alcun disagio nei partecipanti all’interazione. Se un adulto rivolgendosi ad un bambino gonfia il petto e minaccioso dichiara - “Adesso ti mangio!” - , il bambino molto probabilmente coglierà alcuni segnali che attiveranno quelle metaregole (“Questo è un gioco”) che a loro volta definiranno la relazione in termini affettuosi e affatto ostili. Il gioco propone un “linguaggio per parlare a proposito del linguaggio” e ad ogni mossa del gioco (game) corrisponde un’attivazione dialogica per cambiare le regole stesse del gioco (Bateson, 1956).



    Figura 1: circuito vurtuoso nell’interazione tra diversi sistemi identitari (dimensione dialogica)

    Giocare con le proprie premesse implicite - i pregiudizi - significa costruire in fieri nuove regole di comunicazione, consentire alle cornici di contesto di collassare l’una nell’altra e di riassumere la posizione iniziale arricchendosi di significati nuovi coordinati ai propri. Umorismo, creatività, irriverenza nei confronti dei modelli culturali e dei livelli di significato taciti (propri ed altrui), appaiono la via regia verso la costruzione di un dialogo con l’altro, dialogo in cui tutti hanno ragione persino coloro che dicono che la ragione non può essere di tutti.
    Il motto di spirito come l’umorismo ha il potere di creare discontinuità nel dialogo e di consentire una completa ristrutturazione del campo percettivo (inversione figura-sfondo) ed emotivo. La potenza creativa dell’umorismo consente alla persona di giocare con narrative identitarie – storie, miti individuali e collettivi carichi di emozioni ed affetti- che altrimenti difficilmente potrebbero essere condivisi senza creare disagio e allarme; “[..] l’umorismo [..] fornisce alle persone un indizio indiretto del tipo di visione della vita che essi hanno o potrebbero avere in comune” (Bateson, 1953, p. 47). Attraverso il lazzo e la battuta di spirito gli attori del dialogo shiftano da un livello conversazionale di tipo contenutistico ad un livello in cui diversi sé e diversi sistemi identitari comunicano interagendo e mettendosi in relazione: l’universale cede il passo al molteplice, la dimensione monologica a quella dialogica, il monoculturalismo al pluralismo (Edelstein, 2003). L’andamento circolare del motto di spirito consente di sperimentare l’altro da sé ( la sua biografia, il suo modello culturale) come possibile e temporanea marca di contesto, imprimendo al dialogo una spinta dinamica e riflessiva in grado di fare sperimentare nel dialogo stesso nuovi posizionamenti e nuovi livelli di contesto, “maltrattando” irriverentemente pregiudizi idiosincratici e allo stesso tempo rendendoli accessibili all’altro che dal canto suo può giocare con l’ identità, personale e culturale, dell’interlocutore senza comprometterla ferirla, frammentarla.

    Ironia ed irriverenza informano interazioni pluraliste, consentendo, in qualità di metaregole, di armonizzare circuiti riflessivi bizzarri che intrappolano l’interazione fra diverse culture in un monologo etnocentrico. In questo secondo caso, sia che si tratti di rifiutare che di accogliere, sia che si tratti di inserirsi che di isolarsi, appaiono evidenti asimmetrie e dicotomie tra culture dominanti e culture dominate, tra l’io ed il tu e tra un noi ed un voi. La dimensione monologica dell’interazione è contestualizzata da metaregole che creano dicotomie, totalizzanti e non riflessive. In tal senso due culture (idio o macro che siano) appaiono intransitive l’una all’altra e le loro interazioni proiettate in progressive ed asintotiche differenziazioni verso una possibile – e probabile - rottura del sistema.



    Figura 2: circuito bizzarro nell’interazione tra diversi sistemi identitari (dimensione monologica)

    Un esempio di incontro tra diverse culture e diverse biografie: la conversazione terapeutica

    La conversazione terapeutica può considerarsi un tipico esempio di interazione dialogica fra idioculture differenti per storia personale, per modalità di comporsi nelle relazioni e per modelli culturali.

    Tutte le culture (micro e macro) costruiscono la propria identità intorno a storie e le stesse storie hanno ragion d’essere in quanto possono essere raccontate in un contesto sociale (Mc Adams, Janis, 2004). “La struttura narrativa della memoria autobiografica appare indistinguibile dalla struttura narrativa di altre comunicazioni sociali [..] e la traccia delle memorie autobiografiche è di solito un atto sociale che definisce un gruppo sociale” (Rubin, 1998, p. 54). Nella conversazione si costruiscono memorie socialmente condivise, come in un romanzo in cui voci polifoniche sono costitutive di livelli multipli di significazioni e di significati (Mc Adams, Janis, 2004). Attraverso la conversazione terapeutica, in contesti di counseling e psicoterapia, l’operatore ed il cliente esplorano la possibilità di ridefinire, rinarrare un corpus di storie condivise e co-costruite e di raggiungere una sempre maggiore assunzione di responsabilità e presa di coscienza (Edelstein, 2007). Il processo terapeutico diventa metaforicamente un percorso emancipatorio da narrative dominanti nella cultura del cliente, verso una pluralità di ipotesi alternative con una propria coerenza ed estetica. Quando il paziente racconta la sua storia di vita contemporaneamente ascolta il proprio racconto, parla al terapeuta e a sé stesso contemporaneamente. Nella relazione terapeutica si apre uno spazio dialogico di ristrutturazione e ridefinizione del campo percettivo e semantico del paziente, si crea una tensione dinamica che nell’analisi delle storie di vita e delle biografie (di paziente e terapeuta) mostra in nuce la possibilità del cambiamento (Hermans, 2004).

    Il processo terapeutico diventa metaforicamente un percorso emancipatorio da narrative dominanti nella cultura del cliente (e perché no?! Del terapeuta), verso una pluralità di ipotesi alternative coerenti, con una propria estetica, dissonanti con le premesse patogene ma plausibili per il cliente (Ugazio, 1984). Quando il paziente racconta la propria storia contemporaneamente ascolta il suo racconto, parla al terapeuta e a sé stesso contemporaneamente. Nella relazione terapeutica si apre uno spazio dialogico di ristrutturazione e ridefinizione del campo percettivo e semantico del paziente, si crea una tensione dinamica che nell’analisi delle storie di vita e delle biografie (di paziente e terapeuta) mostra in nuce la possibilità del cambiamento (Hermans, 2004).
    Il cliente arriva come straniero al cospetto del terapeuta, oggetto sconosciuto, altro da sé sia per differenza di status che per sistemi di significato.
    Nella conversazione terapeutica i pregiudizi di terapeuta e paziente possono diventare una risorsa in più verso il cambiamento, nella misura in cui essi siano esplicitati e conoscibili biunivocamente dall’una e dall’altra parte: “i valori e le opinioni del terapeuta interagiscono con i valori e le opinioni dei pazienti, creando soluzioni imprevedibili” (Cecchin et al., 1997, ). Discutere attorno ai propri pregiudizi apre la strada alla messa in discussione di premesse identitarie radicate, a tratti cristallizzate nell’iceberg dei sintomi, premesse che se trattate con “riverente irriverenza” possono assumere sfumature di significato nuove ed evolutive (Cecchin et. al., 1993). Alla ieratica e solenne impassibilità dell’analista preferiamo il terapeuta capace di “giocare” con irriverente ironia, utilizzando il proprio pregiudizio e quello del cliente come una rappresentazione di una realtà che non è reale (“Questa è una terapia”!), e che può, perciò, essere accettata anche in tutta la sua scomodità (Bertrando, 2006). L’indicibile, attraverso l’uso del gioco e dell’umorismo, può diventare una storia raccontabile, le certezze possono assumere le sembianze di dilemmi, le verità di ipotesi che come figure caleidoscopiche emergono dallo sfondo permettendosi di giocare con ciò che è falso (Mizzau, 2005).

    Conclusioni

    Riconsiderare il pregiudizio come un orientatore di scopi, credenze, schemi cognitivi ed emozionali che entrano in azione per ristrutturare campi percettivi frammentati, disorganizzati, nebulosi e scarsamente decidibili, consente di pensare l’interazione con l’altro come un momento di verifica delle proprie premesse implicite, non necessariamente minacciate dalle premesse altrui, ma passibili di verifica, di revisione ed eventualmente di sostituzione. Un approccio de-costruzionista della conversazione consente di utilizzare differenti livelli di significato, quando possibile coordinandoli, il più delle volte accettando il mistero, l’inconoscibile che, nell’intersecarsi di percorsi imprevedibili, le aporie, mette a contatto con la “notte” incarnata nell’altro da sé (Dufourmantelle, 2000). “L’uomo deve lasciare crescere dentro di sé l’inquietante, l’inconciliabile e l’enigmatico, ciò da cui la vita comunemente si distacca per passare all’ordine diurno” (Patocka, 1981). Secondo Patocka (1981) la notte apre a ciò che ci fa vacillare e lo straniero, l’esiliato, il visitatore consentono un contatto con il notturno e di infrangere l’eterno dualismo diurno tra io ed altro, soggetto e oggetto.

    La cultura Occidentale affianca, con sfumature differenti, il significato di mistero a quello di mistificazione, altrimenti declinabile nell’accezione di mistico (Barbetta, 2004). L’inconoscibile, il non-razionale, quando non comprensibili nell’alveo del divino, sconfinano nei territori della delusione e della paura e possono essere riconducibili alle semantiche della ragione attraverso i discorsi sulla criminalità (cattiveria), sul terrore (incubo terrifico) e sulla malattia (follia) (Foucault, 2001).

    L’incontro tra diverse storie deve passare attraverso il riconoscimento dell’altro come portatore di significato e co-costruttore di una realtà condivisa nell’ atto stesso dell’ interazione tra diverse culture. La Legge dell’ospitalità incondizionata lascia spazio alle molteplici leggi dell’ospitalità: in ebraico “fabbricare tempo” equivale ad “invitare”. L’intelligenza del linguaggio, in una singola parola, rivela in nuce la necessità storica della presenza di uno straniero, dell’altro da sè che aiuti a produrre un’effrazione nella corazza dell’imperturbabile coerenza diurna (Derrida, 2000).

    In una conversazione cosmopolita l’altro da sé viene considerato alla stregua del nativo, affatto minacciante delle premesse dell’ospite. L’enfasi sul coordinamento tra diversi significati prevale sul desiderio modernista di conservare ad ogni costo coerenza e di proteggersi dal mistero (Pearce, 1998).
    Come due sistemi di storie possono riconoscersi come potenzialmente compatibili e comparabili?
    La nostra proposta, che passa attraverso un excursus sulla conversazione terapeutica, è di individuare metaregole con un massimo grado di generalizzazione che informino il contatto dialogico tra le diverse culture (Hwang, 2006). Lo spazio dell’ incontro - fisico e psicologico - consente di costruire un dialogo pubblico entro cui voci differenti possono distinguersi e, a qualche livello, entrare in conflitto su temi specifici quali razza, religione, identità personale e collettiva ec. (Anderson et al., 2003). Le regole che consentono e veicolano il conflitto a nostro avviso possono essere condivisibili attraverso la pratica del gioco. Giocare con diverse culture significa, innanzitutto, poter trattare le proprie premesse, i pregiudizi, con irriverente ironia. Attraverso l’accettazione del nostro pregiudizio, ci possiamo permettere di entrare in contatto con i pregiudizi di altre culture. Il potersi concedere di comunicare allo straniero un buon grado di irriverenza verso le nostre credenze, può approssimarci all’obiettivo di creare quello spazio di dialogo e di gioco in cui anche le premesse dello straniero possono essere trattate con altrettanta irriverenza. Coordinamento e accettazione del mistero transitano attraverso l’umorismo, il pirandelliano «sentimento del contrario», verso un più profondo contatto tra narrative identitarie che possono permettere a sé stesse e ad altre voci di (ri)raccontarsi senza il terrore di dissipare la propria coerenza interna.

    In conclusione, se il pensiero razionale per definizione appare una potenza dominatrice, capace di ricondurre l’«altrove » nell’habitus della nostra ragione e della nostra memoria, come un indelebile sigillo, usando le parole di Dufourmantelle (2000, pg.13) “è probabile che in certi momenti l’uso filosofico dell’ironia, da Socrate a Kiekegard, abbia potuto turbare il pensiero”.


    NOTE

    1] La CMM (Pearce, Cronen, 1980; Cronen et al, 1982) si propone nei primi anni ’80 del secolo scorso come un’innovativa teoria della comunicazione. La comunicazione umana viene definita come la modalità con cui gli interlocutori coordinano sistemi di significato idiosincratici; tale coordinamento viene gestito attraverso livelli e strutture multipli che costituiscono il corpus di regole definitorie di un’interazione comunicativa stabilendone i confini e i contesti di azione (Baraldi, Barbetta, 1998).
    2] Gould (1977, 2002) utilizza il termine exaptation per indicare strutture cooptate per nuove funzioni ovvero una struttura si rivela adatta ad una funzione pur non essendo programmata per essa (es.: la stazione eretta dell’essere umano e il conseguente sviluppo del pollice opponente della mano, antecedenti delle potenzialità intelligenti umane e del progresso in generale, paiono essere conseguenza non tanto della lotta per la ricerca del cibo ma di un improvviso riscaldamento della crosta terrestre).
    3] Con omosocialità maschile intendiamo quell’insieme di comportamenti, relazioni e rapporti sociali - non di carattere sessuale - che intercorrono esclusivamente tra persone di sesso maschile (ad esempio in contesti che riguardino sport o, fino a pochi anni fa in Italia , la vita militare).
    4] Bruner (2002) distingue tre differenti generi narrativi: a. legale (riguarda violazioni della legge, si svolge nel passato e si riferisce a normative giuridiche condivise ), b. letterario (dal consueto si genera l’inatteso, è un genere fuori dal tempo, ad esso si riferiscono generi letterari come la commedia e la tragedia classica), c. autobiografico (mondo privato, memoria del passato, narrazioni reali e credibili).


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