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  • Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006

    VERSO UNA VISIONE SOPRANNATURALE DELLA FOLLIA


    (Traduzione Marina Brancato)

    Mabel Franzone

    mabel.franzone@wanadoo.fr
    Dottorato in Lingua Spagnola, Università degli Studi di Censier, Parigi III, Diploma di Studi Approfonditi Latino Americani IHEAL, Parigi III, Laurea di Studi Latino Americani IHEAL, Parigi III; dal 2002 membro dell'Istituto Internazionale di Letteratura Ibero-Americana IILI-Pittsburgh, dal 1993 membro del Centro di Studi sull'Attuale e il Quotidiano CEAQ, Parigi V, e del Centro di Ricerche Interdisciplinari sulla Cultura e le Civilizzazzioni Ispano-Americane.

    A mia sorella Mary e alla mia amica Brigitte - folli d'amore - in memoriam. A loro cui non ho saputo dare l'aiuto né il sostegno di cui avevano bisogno.

    Pensare la follia diversamente

    La nostra scelta è di porre quest’articolo sotto il segno della speranza, un modo di evocare la follia per farla uscire dagli schemi dell’esclusione e della vergogna veicolati dalla Modernità europea. In effetti, basta leggere Michel Foucault e la sua Storia della follia nell'età classica (Foucault, 1972) per cogliere il grado dell'orrore che vive chi è considerato "folle". Foucault se ne rende conto benissimo: il tono è dato fin dal primo paragrafo del primo capitolo, dove spiega come il ruolo svolto dalla lebbra nel Medioevo fu lo stesso assunto in seguito dalla follia, cioè l'esclusione (Foucault, 1972, p. 13). Un'esperienza personale mi lascia pensare che nulla sia cambiato: mi è capitato di dover accompagnare un'amica all'ospedale Sainte Anne di Parigi. Si trovava in attesa di divorzio. Logicamente presentava alcuni sintomi di "depressione", di lacerazioni con la "realtà", desideri di morire, indifferenza per il suo ambiente poiché troppo concentrata sul suo dispiacere, sulla sua rottura. Ciò è ben noto: la situazione di separazione si accompagna ad impulsi di morte, ed è tale che sembra si sopportino tutte le sofferenze del mondo. Per alcuni, il malessere è piuttosto fisico e mentale, per altri il mentale prende proporzioni rare. Ma dobbiamo tenere conto del fatto che il male è soprattutto emozionale, e quindi molto difficile da incanalare.

    All'ospedale, ci diedero due soluzioni: o la si lasciava lì "sul campo" per imbottirla di medicine, o si dava il recapito telefonico di suo marito affinché il gruppo medico potesse chiedergli l'autorizzazione a ricoverarla. Lasciarla ricoverare, abbrutire con rimedi da cavallo, che in realtà non tranquillizzano per niente, ma lasciano il soggetto senza reazione, abitato da allucinazioni, da una sete irrefrenabile e da incubi senza fine. Cioè quando l’essere è sul cammino del non essere. Ci davano due possibilità, entrambe coercitive e con un solo e simile risultato: il ricovero. Ciò che Foucault stesso chiama "sorvegliare e giudicare". Ho dovuto farmi garante della mia amica, firmare un documento, mentre lei stessa ne firmava un altro liberando l’ospedale da qualsiasi responsabilità. Ciò accade quattro anni fa ed ancora oggi ne ridiamo, felici che abbia potuto "salvarsi". E non si tratta di un caso isolato, ascolto spesso gente dire scherzando che si ha timore di andare all'ospedale, quando si è depressivi o depressi.

    Il sistema degli ospedali psichiatrici era identico in Argentina. Mia sorella, depressa a seguito di un dispiacere d'amore, dovette fuggire per evitare gli elettroshock. Mi ricordo che arrivò un giorno in camicia di notte a casa, dopo aver attraversato con vestiti intimi tutta la nostra piccola città ultraborghese. Era più che abbastanza perché divenne la bestia nera della società immobile di questa provincia oligarchica. Gli rimproveravano d’essere "anormale", di "non controllarsi", di non comportarsi come "una persona giudiziosa", "di non comprendere il proprio marito", di non accettare la "realtà".

    Ed è attorno a questo concetto di realtà che si gioca tutto: la libertà e la normalità. Infatti, la difficoltà che troviamo a separare chiaramente ragione e pazzia risiede nell'ambiguità che ricopre il termine "realtà". La follia, si dice, si rivela quando colui che si considera come malato esce dalla realtà. Vive oltre di essa, nutrendosi di visioni o finzioni, le sue parole diventano un delirio uscente dalle "rotaie" dell'obiettività "sana" (Tribolet, 2005, p. 5). Ma molto spesso la pazzia va insieme con una grande intelligenza e ipersensibilità. Certamente il termine "intelligenza" per essere definita urta contro la stessa difficoltà della nota "realtà". Mia sorella, psicologa di formazione, rivelò di disporre di una logica matematica avanzata, ed in occasione dei suoi ultimi anni d'università, un epistemologo ne fece la sua assistente di corso. È tutto ciò che posso dire considerando la sua intelligenza.

    A volte mi chiedo se tutto non gira che attorno a queste due parole. Riprenderò qui una tematica propria del contemporaneo, quella di un ritorno possibile delle vecchie tradizioni e dei vecchi parametri culturali, per scoprire ulteriori pensieri sulla follia. Cioè invocare un'unità, termine portatore in se stesso di una pluralità di voci collegate forse da qualcosa che oltrepassa, qualcosa che vada oltre la ragione propria del pensiero "unico". Esplorare altri tipi di pensieri avrebbe il merito di tentare di comprendere ed ascoltare inizialmente il discorso sulla follia, facendo arretrare il più lontano possibile i limiti della psiche, impegnandosi sulle vie inesplorate del cuore. Vedere, quindi, il "malato" come una totalità, rispettandone il grande mistero dell’essere con ciò che egli ha di trascendente e d’incomprensibile. I misteri del cuore umano sono insondabili.

    Il delirio

    Serge Tribolet [1] ci ricorda che, per il senso comune, il delirio è qualcosa d’insensato, privato di ragione. La definizione psichiatrica è diversa: "disordine del contenuto del pensiero". Le idee deliranti sono descritte come idee false e senza base alle quali il paziente presta una fede assoluta "non sottoposte alla prova ed alla dimostrazione, non rettificabili con il ragionamento". Le idee deliranti sono generate o mantenute da meccanismi psichici che costituiscono diverse modalità d'apprensione della realtà. Questi meccanismi del delirio sono l'interpretazione, l’allucinazione, l'immaginazione. In funzione della prevalenza dell'uno o l'altro di questi meccanismi, la psichiatria distingue i deliri d'interpretazione (paranoia), i deliri immaginativi (parafrenia) ed i deliri d’allucinazione (schizofrenia). Un delirio può comparire durante molte situazioni psicologiche, malattie psichiatriche o malattie d'origine organica. Negli ultimi casi, i principali sintomi sono visivi sotto forma d’allucinazioni. Il malato vede personaggi, animali, delle creature venute da nessuna parte, che siano ibridi mitologici, fatati e ugualmente ibridi. Mi chiedo allora dove si situano i casi che hanno segnato le letterature, come quelli sollevati da Jorge Luis Borges nel suo Libro de Los Seres Imaginarios (Borges, Guerrero, 1983). Qui sono citati "un animale sognato da Kafka", "gli angeli di Swedenborg", il mostro Achéron "visto" dal giovane Tundal, gli angeli della visione di Ezechiele della Bibbia, ecc.. L'elenco è lungo e possiede la virtù di comprendere visione e rivelazione come parametri di conoscenza, poiché presenta nel cuore dell'immaginario lo stesso status degli esseri delle mitologie del mondo intero e quelli generati da individui, cioè quelli prodotti dall’inconscio collettivo e individuale. Mi chiedo cosa ci resta di Gérard de Nerval o di Antonin Artaud ed anche di Augusto Strindberg o di César Vallejo. L'elenco di quelli che scrissero e soffrirono sotto l'impulso della brillante paranoia del divino è lunghissimo.

    Queste cornici della pazzia non fanno che allontanare le manifestazioni distanti dalla sacrosanta ragione. Molti tra noi hanno già avuto ed hanno allucinazioni, visioni ed una certa dose di paranoia. Più pertinente è il trattamento dell'allucinazione dato dai filosofi dell'antichità greca che non la riducono ad un semplice sintomo della malattia mentale, senza tuttavia confonderla con una mancanza di percezione, due errori della psichiatria classica (Tribolet, 2005, p. 14). Infatti, i greci parlavano di mania e, nel corso del Medioevo e del Rinascimento, i filosofi non esitavano a parlare di pazzia. Quando la follia viene esclusa dal campo della medicina s’inizia a parlare di malattia mentale. Il concetto di schizofrenia fu proposto nel 1908 per sostituire quello di demenza precoce utilizzato nel XIX secolo. La sua origine etimologica è il termine greco schizein - separare - e phrên - spirito. Quando nel 1952 è introdotto l'impiego neurolettico, rimedio utilizzato per la schizofrenia, le teorie biologiche propongono argomentazioni a favore delle perturbazioni della neuro-trasmissione cerebrale. La genetica cerca nei geni le cause di alcuni tipi di schizofrenia. Ciò è interessante, poiché i cromosomi del DNA di tutti gli esseri viventi sono identici a differenza che, nell'essere umano, ci sarebbe un piccolo segmento che si trova soltanto in lui nel quale risiederebbe il grande mistero della schizofrenia che, è esclusivamente umana (Tribolet, 2005, p. 14). Col passare delle epoche ed in alcune geografie diverse, si è tentato di dare una definizione al termine di follia o di malattia mentale o schizofrenia ed alcune delle teorie elaborate, ciascuna dotata della propria cura, non è riuscita a comprendere ciò che fosse esattamente. Questi dubbi sono stati sempre espressi in letteratura, essendo la phantasia il terreno d'espressione di dubbi ed errori. Ne abbiamo un buon esempio con il racconto del brasiliano, Bahianais, Joachim Machado di Assis, "l'Aliéniste" (Machado De Assis, 1962). Scritto nel 1882 ed incluso nel lavoro Papeis Avulsos, questo racconto rientra nel periodo più rigido della psichiatria, del XX secolo.

    Il personaggio principale è don Simao Bacamarte, medico dedicato alla ricerca scientifica desideroso di studiare profondamente la follia nelle sue varie fasi - stabilendone una classificazione. Si esprimerà in questi termini "la ragione nasconde la pazzia, dunque, occorre rivelarla, segnare i limiti tra entrambi, per curare l'una e proteggere l'altra." O ancora dirà tra sé: "uomo di scienza, e soltanto di scienza, nulla oltre la scienza non poteva che attenderlo." (Machado De Assis, 1962, p. 37). È un resoconto su l’aliéniste - non sull'alienazione - e sulla sincerità dello scienziato che si interroga incessantemente sul senso delle definizioni e sulla loro applicazione. Esaminiamo più da vicino questo racconto.

    Dopo avere effettuato studi di medicina in Europa, Simao Bacamarte si stabilisce nella città immaginaria di Itaguai in un Brasile sospeso nel tempo. A quaranta anni, è un appassionato di fenomeni psichici e desidera lavorare per "la verità dell'anima". Fonda la Casa Verde o Rifugio dei matti e decide di chiudervi tutti quelli che considera come malati mentali. Innanzi tutto il progetto suscita la curiosità in tutto il paese in seguito provoca una resistenza immensa. L'idea di chiudere i matti e farli vivere sotto lo stesso tetto è considerata una "pazzia", un sintomo di demenza. Diventa allora "l’aliéniste"(l’alienato), quello che conduce gli altri al manicomio, il depositario psichico di suoi compatrioti, che dichiara folli o sani di spirito secondo la sua valutazione. Fra i primi "rinchiusi", ci saranno "due matti per amore", come un certo Costa che, avendo ereditato un’immensa fortuna, si mette a sprecarla sia prestandone a chiunque sia facendo regali ai bisognosi. Poi viene il giro degli incostanti, dei poeti dalle idee strane e sublimi, dei superstiziosi e degli allucinati, degli ambiziosi, dei parassiti, dei matti di lavoro, ecc.. Questo resoconto suscitò in me la stessa sensazione quando consultai per la prima volta un dizionario di psichiatria: trovavo in me ogni sintomo di tutte le malattie. Vediamo come evolve l'aliéniste di Machado di Assis.

    Bacamarte constatando che tali internamenti non erano così opportuni - mettere in reclusione tutta la città senza arrivare in fondo al problema - decide di cambiare teoria ed applicare l'opposto della precedente. Sarà considerato normale lo squilibrio delle facoltà, l'anormale essendo l'equilibrio e la sua prosecuzione. Rinchiude allora i "normali", "li cura" e li lascia in libertà. Si chiede allora se il folle non sia che se stesso, e si chiude (da cui la sua onestà) da solo nella Casa Verde con la sua scienza e la sua pazzia. Vi morirà, isolato da tutti, senza essere riuscito a sapere dove fosse la verità della scienza. Troviamo in Machado di Assis l'uomo insolente e ribelle, che esprime attraverso i suoi scritti una profonda malinconia. Lascia incombere uno scetticismo leggero di fondo, con la cui pendenza lancerà una sfida al potere, che stigmatizza il dogmatismo scientifico e medico, che denuncia l'ipocrisia, il cinismo e l'opportunismo dei "maggioritari". In uno dei suoi personaggi, il barbiere, si troverà, il momento di una riflessione, l'attrazione oscura per il potere contenuto nel cuore umano e tutto ciò che veicola nella nostra rappresentazione un manicomio: "è in questo momento decisivo che il barbiere si sente impadronito dall'ambizione del potere; "gli sembra allora che distruggendo la casa verde e riducendo a nulla l'influenza dell'aliéniste, potrebbe arrivare a prendere un alto incarico in seno al consiglio comunale" (Machado De Assis, 1962, p. 63). infatti, questa casa verde era l'immagine del potere, capace di dichiarare gli abitanti di una città come veri e propri cittadini o come degli “incapaci." E ciò che in realtà è messo in dubbio è l'essere umano nella sua totalità. Gli uomini appaiono come un genere spregevole, agiscono soltanto secondo il potere che gli è stato concesso. Così, l’onesto aliéniste si presenta come l'unico idealista.

    Se vi è qualcosa da prendere in considerazione in questo racconto che, peraltro, supera ogni stile, ogni epoca, è la sincera ricerca - e quasi tenera ed innocente - del significato della follia da parte di questo medico. È anche l'avvertimento del pericolo che si corre trattando della follia come qualcosa di collettivo. La prospettiva ci sembra giusta, poiché la diagnosi della pazzia e la cura decretate dipendono esclusivamente dai pensatori che detengono il potere. Pertanto non si può sfortunatamente negare che esiste un certo tipo di malati in tutta la loro singolarità e la loro mostruosità drammatica. Ma la follia e le forme che assume - schizofrenia, paranoia, o qualsiasi altra denominazione - dipende da scuole di pensiero.

    Come siamo lontani dal caso dei quaccheri dell'Inghilterra del XVII secolo citati da Michel Foucault. La loro visione delle cose: "Non diamo denaro ad uomini vestiti di nero per assistere i nostri poveri, per seppellire i nostri morti, per predicare ai nostri fedeli: queste sante occupazioni ci sono troppo care per scaricarle su altri” [2]. Poiché si tratta di questo, di assumersi in modo comunitario tutte le nostre tragedie come esseri umani. Non di vivere in un universo asettico nel quale nulla verrebbe a disturbare il nostro sacrosanto ordine, le nostre occupazioni quotidiane, il nostro venerato lavoro. Ci fu un'epoca in cui le sepolture si facevano da sé. In America latina, fu così fino agli anni settanta. Dopo il colpo di Stato [3], ci siamo messi a fare come i paesi "sviluppati" che credono che lì esiste la felicità, il progresso. In realtà, eravamo nel treno dell’esilio della morte delle nostre vite. Fu lo stesso con la follia. I nostri folli andavano e venivano liberamente nelle città, come i nostri minorati fisici e mentali. Fino ad allora le madri osavano uscire con i loro figli "minorati", iscriverli a scuola, dare loro amore e struttura familiare, senza trattarli come la scoria della società. Poi, non si sa come, ci fu un'inversione. Gli avvenimenti delle grandi dittature in America latina e la loro iscrizione logica in un mondo di valori capitalisti? Il cambiamento fu troppo rapido, come l'esilio dalla tragedia e dagli affetti, fino al parossistico momento in cui si facevano scomparire coloro che erano "diversi." L'ultima dittatura si concluse con 30.000 dispersi ed in questo periodo le madri e le nonne giravano intorno ad un luogo reclamando i loro bambini. Le chiamarono anche "le folli", tuttavia esse diedero un impulso alla società argentina, una scorza d'umanità, un inizio di tragedia, se necessario alla stessa vita. Grazie alle "folli della Piazza di Maggio" numerosi settori del potere furono messi in dubbio, dei soldati giudicati, iniziati dei processi, sebbene il contributo fondamentale fosse il reinserimento della morte nel panorama delle nostre vite.

    Se la "pazzia" delle "folli della Piazza di Maggio" che, folli di dolore reclamavano i loro figli, ebbero la virtù di avvicinare alla morte e alla lesione emozionale più profonda che possa sperimentare un essere umano - la perdita di un figlio - il mediatore fu il corpo, il corpo penoso delle madri, il corpo scomparso dei figli, corpi che si collegavano improvvisamente al cuore, ristabilendo una relazione dimenticata. Dimenticati poiché, nell'antichità, due fondamentali scritti spiegano questa relazione embricata, innegabile. Si tratta d’Ippocrate e di uno Pseudo-Aristotele.

    Ippocrate sul riso e la pazzia: una relazione tra il cuore ed il corpo

    Effettivamente queste lettere le dobbiamo non ad Ippocrate, ma ad un autore anonimo che le redasse oltre due mila anni fa, ed in modo magistrale. Al punto che queste lettere hanno sedotto la nostra immaginazione culturale, e, alla stregua del problema XXX attribuito ad Aristotele, innalzato al livello dei testi "originari" della letteratura occidentale, secondo Jean Starobinsk (Iippocrate, 1989, p. 9). Lettere paradossali, scuotono impercettibilmente il sistema delle cose apprese. Rivelano i limiti, che dissipano la falsa chiarezza sostituendo ad un mondo che parcheggia di senso un mondo di ambiguità dove tutto è una cosa ed il suo contrario, che attenua ogni differenza. Così dimostrano che né l’epistemè né la doxa conoscono la verità sulla pazzia, lasciando aperto un abisso d'incertezza dove i logos si perdono.

    Sono come un piccolo romanzo in cui si racconta di tre viaggi o movimenti con una fine che porta un cambiamento radicale alle situazioni dell'inizio dell'opera. Primo movimento: Ippocrate viaggia, chiamato a Adera; Democrito s’installa al di fuori della città ed allo stesso tempo si perde nelle stelle, "traslocando" due volte. Secondo movimento: quando Ippocrate viaggia in "sogno" - la metafora che diventa allegoria - e tanto nel senso letterale che in quello figurato, il medico si avvicina al suo paziente. Ultimo movimento: dopo una spedizione che si può qualificare come iniziatica, Ippocrate torna a Cos con un'inversione tripla della situazione: il pazzo risulta essere un grande scienziato; il terapeuta un ignaro e la demenza una normalità. Queste lettere contengono solo una serie di slittamenti, non descrivono l’essere ma il passaggio, il passaggio della pazzia di un uomo alla pazzia collettiva e dalla competenza del medico a quella del filosofo.

    Il dibattito aperto da Ippocrate lascia intravedere due vaste problematiche: Chi è pazzo? La risposta d’Ippocrate è che, se esiste un vero malato, non è nient’altro che la collettività, sempre preoccupata di occuparsi dell'uomo, di evitare che esca dai limiti imposti. La seconda è: Chi è l'arbitro qualificato per decidere la buona salute mentale e la pazzia? Non può essere la massa, più del medico, ma semplicemente il filosofo. Con il medico ed il filosofo si affrontano due ermeneutiche, due terapie con due tipi di rimedi, di purghe (Hippocrate, 1989, p. 17).

    Questa allusione al filosofo come terapeuta ritorna con forza nei giorni nostri. Così, dopo il successo planetario del libro ‘Più Platone, meno Prozac’ di Lou Marinoff, abbiamo visto svilupparsi la filoterapia. Filosofi consulenti pretendono, invocando Socrate e la sua maieutica, di aiutare la gente a risolvere i loro problemi ed angosce esistenziali. Questa corrente s’inscrive nella linea di pensiero lanciata da Gerd Achenbach all'inizio degli anni 80 in Germania e da Marc Sautet, creatore dei caffè - filosofia in Francia (Chapuis, 2006). Abbiamo un altro lavoro filosofico-medico con il libro citato in alto e attribuito ad Aristotele.

    Il problema XXX

    Questa opera appartiene ad uno stile perfettamente ermetico, ci parla di una profondità che è interamente nostra, forzandoci ad un lavoro archeologico dell'immaginario culturale. Intitolato La melanconia dell’uomo di genio, è un testo breve, che comprende nello stesso tempo letteratura medica e filosofia in cui sì da importanza anche alla fisiologia e alla creatività. In realtà tutto si baserebbe sulla melanconia e la bile nera, tale umore ha forza straordinaria nel modellare gli esseri e renderli folli. Umore colpevole della depressione, nonostante sia dei temperamenti depressivi e quando l'uomo si è allontanato dagli dèi, immerso negli eccessi e nella lussuria, tra entusiasmi momentanei, che si trovano le personalità d'ingegno. "Per quale ragione tutti coloro che sono stati uomini d'eccezione, in ciò che osserva la filosofia, la scienza dello Stato, la poesia e le arti, sono ovviamente melanconiche ed alcune al punto tale da essere afferrati da mali la cui origine è la bile nera, come quelli che raccontano (...) gli scritti dedicati ad Eracle” (Aristote, 1988, p. 83). Altri folli nominati nel testo sono: Aiace e Bellerofonte, il primo diventato completamente pazzo, il secondo cerca luoghi segreti nella solitudine più assoluta.

    Ma altri uomini di genio sono colpiti da questa bile nera, come Empedocle, Platone e Socrate. A questi uomini famosi occorre aggiungere tutti coloro che si dedicarono alla poesia. Il problema XXX è un sogno sulla creazione o sulla capacità di creare. Ci dice che la creatività è principalmente un impulso, una necessità sconosciuta ad essere diverso, un incitamento imprevedibile a diventare "altro", “a diventare tutti gli altri" (ek-statikoi). Come se potessimo essere profondamente noi stessi soltanto uscendone, lasciandoci possedere, lasciandoci essere altro. Così è eliminata l'alternativa tra l'essere "superdotato" ed il "folle", messi sullo stesso piano e rivelando in loro uno stesso elemento naturale, la melanconia. Tra i due vi è solo una differenza di grado. In questo caso ci sarebbe qualcosa di cui l'individuo non è responsabile, un appello divino, un'arte. Fra queste arti, il migliore esempio è la poesia, poiché l'uomo non è la causa di ciò che dice o canta; la sua fonte di creazione si situa oltre di lui, non deve spiegare le sue parole. Il poeta non è che un momento, un istante, nella catena che va dai cieli, dalle Muse all'ascoltatore. È la parola che crea il legame, la parola che parla, incarna e rappresenta.

    Dalla medicina alla letteratura: il linguaggio tra limiti e rotture

    Finora percepiamo all’incirca che la definizione della follia può, secondo i periodi, essere più o meno elastica ed estendersi a tutti gli esseri suscettibili di rompere i limiti imposti da un sistema. Questi limiti possono essere di tipo ideologico, politico-sociale ed anche dipendere dal settore del linguaggio. Il primo tipo è stato illustrato nel paragrafo precedente dall'evocazione delle folli della Piazza di Maggio, episodio che ha avuto luogo in un'epoca recente e si concluse non con il loro internamento ma con l'assassinio di molte tra loro, ad esempio. Ma non si tratta l di casi isolati e non è appannaggio di un unico periodo della storia. Nel XVIII secolo e durante la rivoluzione francese, l'ospedale Bicêtre era diventato il centro principale d’ospedalizzazione degli "insensati", e raccoglieva gli alienati provenienti da altri ospedali o "dalle case di forza". Ma vi si rinchiudeva anche gente perfettamente sana di spirito, vittime del potere politico. "Bicêtre contiene certamente criminali, briganti, uomini selvaggi... ma anche una folla di vittime del potere arbitrario, della tirannia delle famiglie, del dispotismo paterno..." Le celle nascondono uomini, nostri fratelli e nostri simili, a cui l'aria è negata, che vedono la luce soltanto attraverso stretti abbaini" (Foucault, 1972, p. 489). Due eventi distanti nel tempo ma che ci mostrano che la pazzia è un concetto utilizzato e riutilizzato dal potere per imporsi e strumentalizzare un'esclusione propria del sistema che si vuole difendere. Rimane da analizzare la rottura dei limiti imposti dal linguaggio.

    Due considerazioni sulla lingua e il linguaggio ci permettono di vedere sia una benedizione sia un penoso limite. Si tratta di cercare tra i due un elemento che ci permetta di legare questo dono umano, tra il grandioso ed il restrittivo. Tra il linguista e lo psichiatra qualcosa sembra avere il ruolo "d'individuazione", di qualcosa che andrebbe oltre l'individualità per andare a toccare frontiere sconosciute, ciò ci fa passare dall’Io all'universo, dissoluzione dei limiti. Per Giorgio Steiner, la lingua è una matrice culturale, è la nostra finestra aperta sulla vita. L'immagine del mondo di ogni essere umano e la somma delle immagini nella società sono una funzione linguistica. Questo pensatore ci dice quindi che varie culture hanno vari modi di eseguire la cartografia del tempo e dello spazio, di qualificare i movimenti ed i vari stati delle cose e degli esseri, se gli indigeni hoppis possono avere una migliore intelligenza di alcune immagini della fisica di Einstein rispetto ad un individuo anglosassone, ad esempio, è perché la matrice linguistica ha preparato i solchi di sensazioni necessarie ed adeguate (Steiner, 2000, p. 112). Il canale inevitabile delle nostre conoscenze è determinante nella nostra cosmovisione. Per Serge Tribolet, il linguaggio è allo stesso tempo il nostro vantaggio e la nostra prigione. Condannato a riferirsi agli esseri ed agli oggetti che costituiscono il nostro universo da parte del suo intermediario, sembrerebbe che il quadro autorizzato dai limiti del linguaggio ci sia spesso troppo stretto. I limiti del pensiero sono predeterminati dai limiti del linguaggio. Il mondo degli umani è comparabile alla costruzione di una casa le cui fondamenta e la cui architettura sono concepite sul modello di una prigione dorata. Prigione per il pensiero che non può superare le pareti, prigione senza finestre sul mondo esterno. Il delirio è una fessura, uno strappo nelle leggi del linguaggio, un'apertura verso il mondo esterno (Tribolet, 2005, pp. 94-95). Per Steiner, la finestra è aperta immediatamente con il linguaggio, per Tribolet la finestra si apre con la breccia della follia o del delirio.

    Questa scissura non è libera da logica. È dotata di una sua logica ma non quella del linguaggio corrente. Abbatte le pareti, rompe l'armatura concettuale. Lacan ha saputo trovare una logica nell'ambito del delirio di pazienti psicotici "queste allusioni verbali, queste relazioni cabalistiche, questi giochi d’omonimie, questo gioco di parole (...) questa trasfigurazione del termine nell'intenzione ineffabile, questa immobilità dell'idea nel semantema, queste ibridità del vocabolario (...) questa duplicità nell'enunciazione, ma anche questa coerenza che equivale ad una logica." (Lacan, 1966, p. 167) Ed è forse questa logica, che appartiene soltanto ad essa stessa, uguale ad essa stessa, dove l’irrazionale si collega al razionale, il generale al privato, che ci permetterebbe di collegare queste due visioni del linguaggio, il cui canale ci permetterebbe di ascoltare l'altro e pensarlo a partire dalla sua logica per smetterla con l’esclusione. Numerosi autori hanno lasciato indizi testimonianti il loro accesso a queste regioni piene di mistero.

    Fra loro, Gérard de Nerval spiega una malattia del suo spirito: "Proverò a trascrivere le impressioni di una lunga malattia che è avvenuta esclusivamente nei misteri del mio spirito; e non so perché uso il termine malattia, poiché mai, rispetto a ciò che è stato di me stesso, mai mi sono sentito così bene. A volte, credevo che la mia forza e la mia attività fossero raddoppiate; mi sembrava di sapere tutto, di comprendere tutto; l'immaginazione mi donava delizie infinite. È abbracciando ciò che gli uomini chiamano la ragione, che occorrerà rammaricarsi di averli persi?” (De Nerval, 1985, p. 103) Egli ci parla inoltre di questi momenti in cui "abbiamo accesso al mondo degli spiriti". Una porta ed un ponte si presentano, tra il nostro mondo concreto, logico, razionale, "reale" e l'altro, mondo oscuro, di cuori, di poteri magici, di logiche che abbracciano tutto, di comunicazione con il divino. Un mondo dove il misticismo è presente.

    Delirio mistico

    Marcel Réja, precursore nello studio delle manifestazioni artistiche di alienati fin dal 1907 - come lo era stato nel 1892 J. Seglas studiando il linguaggio di questi pazienti - trascrive questi versi disperati ed ardenti d'amore e di necessità di amare.

    "E poiché l'amore ci riunisce,
    Restiamo uniti, restiamo insieme!
    Sì mio Gesù adorato, mio Gesù ben gradito; sì, sei in me ed io sono in te! Sì la tua carne è la mia carne; il tuo sangue è il mio sangue, la tua vita è la mia vita!
    O mia felicità sovrannaturale,
    Mio piacere casto del cielo,
    Mia estasi eterna!
    Noi siamo uniti, teneramente uniti, santamente uniti, è il paradiso!
    Il nostro piacere è comune, poiché le nostre anime non fanno che una sola!
    Tu solo hai potuto consolarmi!
    O mio piacere benefico,
    Mia cara dolcezza circostante
    Mia bellezza santa che onora,
    E mio splendore che abbaglia,
    Con quale nome, Gesù, chiamarti!
    Gesù, Gesù, o mio amore,
    Tutta la notte e tutto il giorno
    Tu divinizzi questo soggiorno:
    Non sento più la mia solitudine!”
    (Anonyme cité par Marcel Réja. L’Art chez les fous. Op. Cit. pp. 156-157-158.)

    Marcel Réjà non presta loro alcun valore artistico se non di meravigliosi slanci ed entusiasmi vigorosi che non superano la fase di strette e morbose ossessioni poiché, a suo parere, l'idea dominante diventa qualcosa di troppo imperioso. L'esasperazione passionale conduce verso pantomime, a cui si sostituisce al verbo. Quanto a noi; amiamo compararli a questi versi di St Jean de la Croix: "... Miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli angeli sono miei e la Madre di Dio, tutte le cose sono mie. Lo stesso Dio è mio e per me, poiché Cristo è mio e tutto per me. Che cosa chiedi dunque e che cosa cerchi, anima mia? Tutto ciò è tuo e tutto per te.” [4]

    Tuttavia, St Jean de la Croix, che ammiriamo, fu "medico della chiesa" e la sua poesia citata in tutti gli ambienti ed in tutte le arti. Non si tratta di una percezione allucinata così come la determinava Leibniz? Questo filosofo situava lo studio della percezione nel campo puramente metafisico, poiché la percezione riguarda l’essere. Questo ultimo è costituito da monadi, unità spirituali o punti metafisici che contengono nella loro essenza dalla Creazione l’insieme dei loro stati futuri. Il concetto metafisico di monade interviene come il "centro della percezione" [5]. Secondo Leibniz, si tratta di non restare nel campo delle apparenze ma di andare aldilà del fenomeno, verso il suo fondamento. Egli vede in ogni corpo "qualcosa come un’anima" cioè qualcosa i cui attributi fanno parte della percezione e degli appetiti, dei desideri. Nei versi trascritti, possiamo vedere desideri di comunicazione con Gesù, una sensazione d’unione magistrale con il divino, un’esperienza d'integrazione con gli uomini, l'universo, con tutto ciò che esiste. Porte della percezione che conducono verso altre dimensioni dell’essere e dell’Essere. Qui vi sarebbe un principio animista, un ritorno alla primitiva indifferenziazione del vero e del falso, la scoperta di uno stato originale ideale dove il visibile e l'invisibile erano soltanto uno. Diogène Laerce affermava: "le immagini mentali dei folli sono vere". Se fosse il caso; allora sarebbe necessario spiegare l'invisibile con segni ricercati nelle manifestazioni fenomenali. Il fenomeno allucinatorio troverebbe così il suo statuto "ontico". Ignorarlo significherebbe ritornare a considerarlo come allucinazione, poiché è una percezione "disturbata" e dunque falsa. Al contrario, ciò che si considera allucinato è ciò che sfugge a tutti, poiché attua una capacità superiore di discernimento, la facoltà di comunicare con l'invisibile, con lo sconosciuto ed inconoscibile. Leibniz non sosteneva già che "ogni percezione è allucinatoria" (Deleuze, 1988, p. 119). E poiché percepiamo tutti...

    Ciò che Socrate chiamava "demone", questa parte di sconosciuto che è in ciascuno di noi. Si manifesta generalmente quando ignoriamo ciò che facciamo e diciamo, quando dubitiamo dei nostri sogni, pur percependo che un demone sconosciuto ci parla, che ascoltiamo voci e che sentiamo anche qualcosa sulla nostra spalla. "Io non posso rinunciare a queste visite che mi lasciano sempre più solo e che mi allontanano sempre più dagli dei della città" [6]. Ci permetteremo di mettere in relazione questa frase con Avicenne e chi lo studiò in Occidente, Henry Corbin. Il filosofo parlava "d’intelligenze intermedie" - gli angeli - come figure esemplari del dramma intimo e personale, il dramma dell'apprendistato di tutta una vita. Queste esistenze non sono definite una volta per tutte, ma come un simbolo, sono cifre e silenzi che prendono vita man mano che ogni coscienza sente il richiamo del simbolo per la sua espansione, per comprendersi, cioè per farne il segno della sua espansione (Corbin, 1986, p. 245). In altri termini, quando l'individualità si trasforma in "individuazione", poiché l'invisibile viene ad incarnarsi nelle nostre anime, prendiamo parte a ciò che esiste nell'universo. I suddetti "deliri mistici" contengono questa componente, poiché Dio si cerca nell'assoluto e non nella moderazione. Un paziente di 26 anni ricoverato per deliri spiega la sua esperienza in questo modo: "ciò che avviene in me è qualcosa d’esterno." Questo qualcosa lo percepisco attraverso delle voci, ho l'intuizione molto sviluppata. La considero una sovrapposizione del pensiero e più realtà che io chiamo la "pluralità" [7]. Queste parole dicono molto più di una semplice storia, vi è in loro un testo codificato, una trama logica che occorre seguire alla lettera. Lasciano trasparire la sensazione di un caos, di una grande confusione esterna, ma anche nel linguaggio. L'uscita è una porta che solo la follia può varcare. Poiché questa porta è quella che ci conduce verso altre dimensioni e le cose ci appaiono eccessivamente imbricate, poiché oltrepassare queste porte è la condizione della conoscenza, la conoscenza primordiale, "spirituale", dell'universo invisibile. Follie e delirio mistico: porte o il pericolo?

    Leggere il delirio: follia e poesia [8]

    Serge Tribolet nel momento in cui gli rendiamo omaggio attraverso queste pagine, ci ricorda che oggi la medicina utilizza sempre più mezzi, informatica e strumenti di qualsiasi tipo per stabilire le diverse terapie e le loro valutazioni. Il medico è diventato un assistente, un comandante in seconda, essendo la tecnica sovrana. Dunque ciò che è da prendere in considerazione è che ogni caso è particolare, ogni paziente. Una frase d’Ippocrate dice: "La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione fugace, l'esperienza ingannevole, il giudizio difficile." [9] L’occasione fugace ci ricorda il kairos greco, parola che indica il breve momento dell'atto nella tragedia greca, momento in cui il tragico eroe trasforma il corso della storia. Momento opportuno, momento inevitabile che decide il destino. L'artista è un essere dotato per riconoscere quest’atomo di tempo. E la medicina dovrebbe essere una forma d'arte, per temere questo momento d'umanità, che nessuna esperienza può offrire. Nel lirismo della follia, non può essere tutto un’enorme esagerazione. Un autore anonimo "folle" trova un'ispirazione veemente nel dolore della solitudine e della coscienza della differenza; una potente respirazione che assume una forma rigidamente classica. Nei versi che seguono, vi è del buon senso, una folle ispirazione divina:

    "Voi v’incantate per provare il mio delirio
    La mia anima è tutto, tutto eccetto la mia lira,
    Ragazza del cielo che un giorno m’inviò dio,
    Mi segue fino alle gogne,
    Pregando per voi gli dei e i geni,
    In un singhiozzo, un sospiro, un addio.
    Riprendete il vostro liuto, figli di Apollo, coraggio!
    Canta i suoi luoghi, le sue erbe, la sua ombra,
    In questa cloaca in cui la ragione si tace,
    Canta questi matti, di cui vedi il delirio...”
    (Versi citati da Marcel Réja. L’Art chez les fous. Le dessin, la prose, la poésie. L’Harmattan. Col. Psychanalyse et Civilisations. Paris. 2000. p. 152.)

    Un altro dolore anonimo dice:

    "Pronta da qui, la vita dell'uomo si compone
    Dell’essere, ragionevole o folle.
    Di sembrare, ragionevole o folle.
    Di credere, ragionevole o folle.
    Di credere di sembrare, ragionevole o folle.
    Ed alcune volte di due, di tre ed anche
    In questi quattro modi di esistere allo stesso tempo.
    Ma quando l'uomo si accorge che egli non vive nessuno
    Di questi quattro modi di esistere, l'uomo esiste?”
    (Versi citati da Marcel Réja. L’Art chez les fous. Le dessin, la prose, la poésie. L’Harmattan. Col. Psychanalyse et Civilisations. Paris. 2000. p. 219)

    Cosa nei versi precedenti permette di stabilire che si tratti dei versi di un "folle"? I termini lasciano trasparire una grande lesione emozionale, una solitudine immensa. Almeno è ciò che possiamo percepire, non essendo medici. Il clinico attende disperatamente la parola significativa. Per l’alienato, la peggiore prova è soltanto quella del silenzio, benché la sua osservazione sia sempre attiva e pronta a temere qualsiasi altro indice che può rivelare uno spirito perso. Una volta acquisita questa parola, egli deve classificarla secondo i disordini delle idee e degli affetti. Il ruolo della letteratura negli ospedali psichiatrici è d’incarnare, fra tutte le arti, il criterio più sensibile della pazzia. Ha un ruolo psicologico di sfogo emotivo. Essendo la funzione del linguaggio il mezzo più ricco, più sottile, acuto o meno, sarà anche la pietra angolare più delicata dei disordini della suddetta intelligenza.

    "Signor Medico, ben triste è uno stato,
    Al manicomio, dove il pentimento piange;
    Dove il giorno è un secolo, ed ogni momento un'ora;
    Dove l'esistenza è soltanto un combattimento eterno
    Questa vita inutile è quella di Lemaire
    Di cui il pentimento vero può ispirare pietà
    Ah! Signor medico, dall'abisso dove cado,
    Le mie lunghe grida di dolore si elevano fino a voi,
    Vogliate essere per me, contro la sorte gelosa,
    Rompete il suo pugnale, e degnatevi di sorridere!
    Fate aprire la mia prigione Signore e che ne sia fatto uscire.
    Che un nuovo Lazzaro emerga dal cerchio
    E che di gioia debba spirare sulla soglia
    Che il mio ultimo sospiro superi almeno la porta!”
    (Marcel Réja. L’Art chez les fous. Op. Cit. pp. 148-149.)

    La lesione emozionale, la penosa reclusione che implora il medico, che ha il potere decisionale, iscrive questi versi ad un denominatore comune di ricerca d'amore e di libertà, di non contenimento. Il terapeuta rinchiuso che invoca il diritto alla salute, questa impostura. Infatti, la nozione di salute è relativa e si basa su criteri soprattutto soggettivi, che emergono come uno stato variabile e dinamico di tolleranza, d’adattamento e di compensazione rispetto al mezzo ambientale totale. È la stessa retorica che anima la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e la carta dell'OMS. Ma il diritto non tiene conto di altri concetti come il piacere, quelli dell'amore, del timore, della tristezza... Questi termini non hanno diritto di cittadinanza nei testi giuridici o legislativi. Il concetto di salute si presenta allora come una deriva ideologica (Tribolet, 2005, p. 129), rischio già denunciato da Giorgio Canguilhem in quanto mette da parte l’insensatezza della tendenza a considerare il patologico non come una deviazione del fisiologico nell'individuo, ma come una deviazione del corpo sociale.

    Tuttavia occorrerebbe ritornare su alcuni parametri come quelli evocati dai libri d’Ippocrate e d’Aristotele, quando l'uomo "folle" era e rimaneva considerato come un uomo. Ma l'incompetenza sociale raggiunge il suo apice quando nel 1810 la nozione d'irresponsabilità penale è iscritta nella legge. Vengono applicate delle pene, ma l'individuo non è più responsabile. Ciò significa che il folle che commette un crimine non è più un uomo? Eppure non è colpito da un'animalità sconosciuta, ma il suo atto è la mostruosità propria dell'umano, terribilmente umano, straripato dalla sua umanità. La follia non è un restringimento dell’essere, è l'essere stesso ed essa deve essere riconosciuta totalmente responsabile in tutti i casi, senza eccezione. La follia si rivolge a ciascuno di noi, ci parla della nostra umanità e, in questo senso, dovrebbe essere considerata come un beneficio.

    Non soltanto occorrerebbe ripensare la follia criminale e la sua responsabilità ma anche al modo di reinserirla nella società. Carlos Castañeda, antropologo che trascrisse gli insegnamenti degli ex Toltèques, introduce una nozione particolare, quella di "follia controllata".

    Follia controllata

    Secondo gli insegnamenti di Don Juan, guida di Carlos Castañeda, il mondo è così come ce l'hanno insegnato da sempre. Inizialmente i nostri genitori, quindi la scuola e la società s’incaricano di mantenere la struttura di un sistema la cui conseguenza più grave è la perdita del mistero della vita e della libertà che deve essere nostra. La parte destra del nostro cervello è quella che riceve questi insegnamenti anticipati, è il mondo del tonal, della fisica e del concreto, della logica che conosciamo ed è quello che mantiene il mondo così com’è. Ma vi sono altri mondi, altre dimensioni che questo tonal non può percepire. Per accedervi, occorre sviluppare la parte sinistra del nostro cervello. Allo stesso modo, abbiamo costantemente un’infinità di percezioni, percezioni non ragionate, perché sono innumerevoli, troppo legate le une alle altre, indifferenziate. Queste minuscole percezioni svolgono un ruolo determinante nella relazione al mondo di ogni individuo, nella sua relazione al resto dell'universo [10].

    Di conseguenza, se il mondo è uno spettacolo montato da noi stessi, la nostra unica funzione è quella del testimone. Leibniz diceva "che garanzia abbiamo che il mondo non sia un sogno?" Solo la perfezione di Dio garantisce il reale" [11]. Non vi è alcun atto che possiamo compiere che sia di un'importanza capitale per il mondo. Una volta compresa questa premessa, possiamo slegarci dei condizionamenti del tipo "essere utile alla società" oppure "occorre produrre qualcosa per la posterità" o "dobbiamo vivere in questa maniera" per prendere coscienza di avere la libertà totale di scegliere il nostro cammino. Sappiamo per certo che dobbiamo prendere in prestito questa o quell’altra via, tuttavia ne scegliamo una che ci soddisfa tenuto conto che ha lo stesso valore di qualsiasi altra e che la nostra scelta è arbitraria. Questa capacità di fare una scelta priva di senso è ciò che Toltèques e Castañeda chiamano la "follia controllata", essendo questa la più bella espressione della nostra libertà e la giustificazione dei nostri atti. E cioè si tratta della più grande delle follie: inventarci un cammino che, in fondo, non ha alcuna incidenza né sul mondo né sugli altri. Siamo liberi di essere folli e di scegliere il cammino che detteremo alla nostra follia. D'altra parte, avere coscienza di questo gioco sacro significa possedere il "controllo della chiarezza" riguardo a noi stessi, dell'universo, verso la nostra breve esistenza temporale. Verso la nostra realtà.

    Quest'articolo è iniziato evocando la nozione di realtà. Un lavoro dell'antropologo Carlos Castañeda intitolato Una Realidad Aparte (“Una Realtà Separata”) dà spiegazioni di base semplicemente su un'altra visione del mondo. Riconosco di avervi trovato "qualcosa", una porta, un'apertura, un'uscita dalla prigione occidentale, dai sistemi di credenza instaurati, tanto sociali che religiosi e familiari. Ho sentito dunque un sollievo immenso nel sapere che qualcuno nel mondo pensava differentemente e ne provai una libertà immensa. Di conseguenza, ho potuto fare cose che non avrei potuto poiché il sistema in cui viviamo m’ispira letteralmente timore. I limiti del "reale" esplodono per andare verso altri universi, forse verso altre galassie, che danno all'essere umano facoltà innumerevoli, un gran potere di percezione che include nel "normale" di queste facoltà le visioni, le "rivelazioni" ed una grande quantità di parametri "irrazionali" che bisogna come un “guerriero” far fruttare e ricercare durante tutta una vita. Benché si tratti di un cammino di solitudine assoluta, vale la pena, anche attraverso la cura data alla follia.

    Cosmovisione soprannaturale della follia

    Seguendo questa logica di visioni del mondo differenti dalla visione occidentale, la nostra intenzione è di dimostrare che ci sono altri modi di considerare la malattia mentale e come alcune comunità se ne prendono carico decolpevolizzando il paziente. Magia, credenza e malattia sono tre aspetti che circondano la vita dell'uomo. Per gli abitanti delle Ande, queste nozioni sono restate così come erano state ereditate delle culture pre-ispaniche. Mettono in relazione il passato ed il presente, l'ieri e l'oggi di questo mondo sconosciuto che è l'uomo andino. Comprendere la ricchezza contenuta nella loro visione particolare del mondo, intrisa di connotazioni magico-religiose che accompagnano ogni momento dalla loro esistenza, c’introduce nella loro concezione particolare della malattia e la corrispondenza terapeutica, attualmente conservata grazie alla trasmissione orale. Nei paragrafi che seguono, accenneremo alla medicina della Puna argentina, cioè il Nord-ovest. In questa regione rurale ed isolata, la medicina ha conservato le sue caratteristiche tipiche antecedenti l'arrivo degli Spagnoli e della rottura dell'immaginario che ne seguì, più marcata in altre regioni.

    Nel concetto della gente della Puna (altipiani), le malattie mentali sono considerate sovrannaturali, connotate da circostanze misteriose o magiche, curate da colui che viene chiamato "medico particolare", guaritore o stregone. Prodotta dalla rottura d'equilibrio tra l'uomo ed il divino, la salute sarebbe al contrario uno stato d'armonia" [12]. La malattia è effettivamente una cosmopatia poiché implica una rottura d'equilibrio con la natura ed il mezzo ambientale. Quest'equilibrio prende vita attraverso i suoi rappresentanti, le divinità inferiori, le entità protettive che, come organizzatori morali e sociali, abitano o governano tutta la creazione. In particolare, gli incidenti geografici e le montagne, le cascate o i precipizi sono considerati "animati" da un'entità spirituale che concede loro vita e comprensione, da cui la necessità di onorarli ed accontentarli tramite offerte. Questi esseri proteggono l'uomo che correttamente li placa, ma lo punisce in caso d'inosservanza dai suoi doveri. È allora impossibile dissociare la medicina dai miti, dagli dei e dai demoni. Tutto deve essere esaminato, leggende, racconti, poesie popolari, danze, rituali, abitudini, feste e stessa lingua. Così Pachamama e Supay (la madre terra ed il diavolo), di altri spiriti maligni o benevoli della natura, e le forti impressioni ricevute in occasione della comparsa improvvisa di "espantos e duendes" (fantasmi e folletti) o anche di altri esseri dotati di caratteristiche sovrannaturali sono i responsabili diretti delle affezioni mentali che presentano gli abitanti soggetti ad un incontro con "lo sconosciuto". Accenneremo in particolare alle malattie dette "mentali".

    Affezioni causate dal rapimento dell’anima da parte di uno spirito malefico: Conosciute come "Pilladuras" (mascalzonate) o "Tentaduras del Demonio" (tentazioni del diavolo), Supay o il Maligno ed altri spiriti malintenzionati. Queste entità s’impadroniscono dell’anima o "pensiero" o "spirito" della persona, gli causano confusioni comprendenti stati psicotici o d’alienazione mentale che può portare ad un’inevitabile conclusione mediante il suicidio. Supay o il Demone può anche essere responsabile dei malesseri riuniti nelle espressioni "soffiato dal maligno" o "visto dal demone", che danno luogo alla follia.

    Il posseduto dal maligno non è solo, "è tentato" a causa della presenza di altri spiriti maligni che impediscono la sua cura. I guaritori comuni sono contrari ad avviare una cura, poiché temono di affrontare questi esseri diabolici. È per tale motivo che vengono chiamati specialisti dalla Bolivia, come ad esempio i più conosciuti Laikas, Yatiris o Kallawayas, i soli ad essere capaci in tali situazioni. Se non si può fare appello a questa soluzione, viene utilizzato un mezzo più semplice: si fa prendere coscienza al paziente della propria affezione e della propria causa. Viene inviato sul luogo dove la sua affezione ebbe inizio affinché, con un rituale preventivo-propiziatorio, denominato "retribuzione", la Pachamama o Madre terra sia invocata ed il suo intervento richiesto presso Supay affinché restituisca lo spirito. Questa azione è chiamata "perdonarsi" o "domanda del perdono dall'offesa" ed è lo stesso interessato che interviene per il suo ristabilimento [13].

    L'alterazione degli stati dell’anima, come conseguenza di un'azione o di evento traumatico o di "paura": Le cause di queste alterazioni fra cui gli stati morbosi di spavento, di paura o di terrore, conosciute con il termine globale di "paura", risultato di forti impressioni, emozioni intense, grandi tensioni, angoscia e spavento. Nonostante le variazioni regionali, i motivi all'origine della sindrome presentano basi eziologiche simili e considerano la "paura" come responsabile della perdita temporanea dello spirito o della sua fuga. Se la persona non è consapevole, se non interpreta la causa della malattia per ignoranza, può restare definitivamente colpita da uno stato speciale d'alienazione mentale. Ciò può avvenire nei casi di "antica paura" non curata in tempo o quando lo spirito invaso si unisce a quello dei morti che vagano nei dintorni dei cimiteri.

    Affezioni causate da alcuni agenti fisici e ad alcuni fenomeni astrofisici oppure atmosferici: In generale sono considerati come responsabili di alcune affezioni l'aria, il vento, il tornado, l'arcobaleno, il lampo, l'eclissi e le fasi lunari. Nel caso del vento o Wayra, l'aria proiettata trasporta gli spiriti o le emanazioni malefiche o malsane come i desideri o le passioni delle persone male intenzionate incontrate. L'aria o il vento sono considerati come veicolanti, che introducono o causano grandi onde di vento, di terra, venute dalla montagna, dai cimiteri e come propagatori di "mali" o "sortilegi". L'eclissi, il fulmine, l'arcobaleno sono agenti responsabili di alcuni disordini mentali, alterazioni o affezioni, temporanee o meno. Entrerebbero in questa categoria altre malattie fisiche come il labbro leporino, ritardi mentali e paralisi cerebrale.

    Le circostanze che precedono una malattia, in generale mal definite, sono generalmente attribuite a cause non razionali, da cui il fatto che nella diagnosi o nell'eziologia attribuita dal guaritore sia presente l'idea che il male o le diverse affezioni siano d'origine sovrannaturale. Il guaritore stesso determina la causa tramite una divinazione con le acque, la coca, l'allume, o altri mezzi rivelatori delle circostanze in cui la malattia è stata contratta. Le malattie che presentano caratteristiche chiaramente psichiche manifestano sintomi psicosomatici crescenti, suscettibili di trattamenti magico - suggestivi che arrivano poco a poco al ristabilimento del paziente con l'ausilio dell'utilizzo di terapie adeguate utilizzate dai guaritori [14]. Esaminiamo come sono designati questi guaritori.

    Il medico o guaritore

    Il guaritore acquisisce la sua capacità "medica" in due modi: a) con l'apprendistato o con gli insegnamenti trasmessi da un altro guaritore. In questo caso, deve apprendere ad identificare tutte le piante medicinali della regione ed anche quelle di ambienti fitogeografici marginali e distanti. Deve inoltre imparare a riconoscere in modo infallibile i rimedi ed i loro dosaggi, da cui l'apprendistato dei concetti eziologici e sintomatici che includono le idee della medicina regionale in relazione alle forme patologiche. A volte la trasmissione è realizzata di padre in figlio, ma può anche avvenire tra semplici parenti o tra conoscenti. b) Tramite una circostanza particolare: esiste la credenza secondo la quale nel momento in cui una persona è toccata dal fulmine e dalle sue scariche elettriche durante una tempesta, passa per due tappe. Nella prima, si disintegra e nella seconda si reintegra. Una terza tappa ha luogo se l'episodio non ha alcun testimone: in questo caso, la persona toccata "resuscita" pur potendo essere seriamente bruciata. Questa conclusione la presenta come "designata" da Dio per essere guaritore.

    La differenza tra i due modi di acquisire lo statuto di "medico" risiede nel fatto che, nel primo caso, l'individuo sa trattare le malattie sulle quali è stato istruito; nel secondo caso, sarà "medico" di "tutto"; in tal modo ci si può rendere conto quanto la medicina delle Puna argentine risponde ad un'eziologia mistica (Palma, 1978, pp. 192-193), accompagnata da una concezione globalizzata del corpo, dello spirito, della persona, della società e dell'universo. Cioè di tutte le sfere della vita, quelle che ci appaiono completamente integrate ed interdipendenti le une delle altre. Nello stesso tempo, quando parliamo di una prospettiva mistica, è che la forma produttiva di questa medicina è ancora piena di senso, veicolante la vecchia relazione degli uomini con la natura, e cioè quando ogni incidente geografico ed ogni fenomeno meteorologico erano divinità regolatrici, benefiche e terribili allo stesso tempo. Quindi i concetti stessi di malattia e di malattia mentale appaiono integrati in un tutto che la Comunità si assume. Come abbiamo accennato sopra, considerando che l'agente della follia è esterno all'uomo, c'è una discolpa che gli permette, tramite la pressione comunitaria, di prendere coscienza del suo stato e di partecipare alla sua cura. In tal modo vi è una dimensione reale dei poteri magici della natura trasmessa all'uomo, articolati con concetti che gli servono a temere una realtà, una realtà magica, naturalmente. Il magico può contribuire a dare alla cultura occidentale un’autocoscienza purificata da polemiche visioni già superate. Se il processo d'anamnesi (communion) del mondo magico deve essere considerato come recentemente iniziato (De Martino, 1999, p. 11) occorre continuare in questa visione perché maturi e sia utilizzata in Occidente.

    Conclusione

    Il concetto che dovremmo prendere in considerazione è quello di cosmopatia, cioè la malattia intesa come una frattura dell’equilibrio con l'universo. Nelle Ande, ciò appare completamente articolato poiché tutto è sottomesso alla Madre Terra, alla Pachamama. Il benefico come il malefico, le opere d'arte, la caccia, i raccolti, la salute e la malattia, tutto è regolato da essa. Questo concetto ha per effetto il decolpevolizzare l'uomo rendendolo più responsabile del suo ambiente e, con ciò ugualmente, della sua salute. Ma in Occidente ci sono correnti ed individui che, sul modello di Serge Tribolet, rimettono in questione il sistema di reclusione ed anche la concezione di malattia mentale.

    La comparsa di questi movimenti di pensiero è qualcosa di positivo poiché la follia [15], come concetto, evolve e si trasforma in tempo di crisi culturale, quando si è ai prolegomeni di qualcosa di nuovo, senza che si sappia esattamente ciò di cui si tratta. Quando si osservano i libri pubblicati e ripubblicati, si constata la necessità di una tendenza ad assumere la follia come terreno di riflessione. Molti di questi lavori ci parlano di un ritorno delle vecchie filosofie, di quelle che hanno fondato l'Occidente, come scoperta di pensieri considerati "antiquati" o "primitivi". Tutti comprendono riferimenti più o meno magici, poiché tentano di includere elementi "invisibili" nella realtà. Realtà stessa messa in gioco, poiché si comincia ad introdurvi altri tipi di logica. L'ampiezza del problema è significativa poiché vi si può leggere una necessità di superare alcuni limiti precedentemente imposti dai sistemi di pensiero, dai poteri socioeconomici ed anche teologici.

    A partire da questo punto di vista, si può comprendere e condividere l'idea lanciata da Serge Tribolet, e cioè che la follia rappresenta un vantaggio per l'umanità, non soltanto perché è in relazione con la creazione, ma perché essa permette di ripensare l'essere umano, alla ricerca di un altro posto nel mondo, aprendo la sua riflessione verso l'universo di cui, finalmente, tutti noi facciamo parte. Si tratta di iscrivere la malattia dello spirito nell'ambito di un'ecologia o di un’ecosofia, cosa che va nel senso della tendenza attuale della biologia, della zoologia e delle altre scienze che pensano l'uomo ed il suo ambiente. È in questo senso che esprimo qui il mio desiderio più profondo che questo periodo sia fertile in riflessioni che portino finalmente ad un cambiamento di status per gli esclusi dell'umanità.


    NOTE

    1] Psichiatra d’ospedali a Parigi, responsabile di un’unità d’ospedalizzazione all’ospedale Maison Blanche. Titolare di un DEA di psicanalisi, dottorando in filosofia alla Sorbona, insegnante, conferenziere ed autore di numerose opere specializzate (Précis de sémiologie de troubles psychiques, Guide pratique de psychiatrie, Droit et psychiatrie).
    2] Voltaire. Lettres philosophiques. Ed. Droz, I, p. 17. Cité par Michel Foucault. Histoire de la Folie à l’âge classique. Op. Cit. p. 485.
    3] Questo colpo di stato durerà tra il 1976 e il 1983, il più sanguinoso della storia argentina.
    4] https://missel.free.fr/Sanctoral/12/14.htm
    5] Leibniz. La Monadologie. Ed. Delagrave. Paris. 1988. pp. 149-150. Citato da Serge Tribolet. Op. Cit. p. 156.
    6] Pascal Quignard si riferisce ad Apuleio. Le Démon de Socrate. Rivages Poche/Petite Bibliothèque.
    7] Questo giovane uomo, chiamato Henri, est uno dei casi citati da Serge Tribolet. Op. Cit. pp. 80-81.
    8] Titolo del libro di Juan Rigoli. Lire le Délire. Aliénisme, rhétorique et littérature en France au XIX siècle. Prefazione di Jean Starobinski. Fayard. 2001. 649 pp.
    9] Ippocrate citato da Serge Tribolet. Op. Cit. p. 16.
    10] Leibniz. Nouveaux essais sur l’entendement humain. GF Flammarion. N° 582. Paris. 1990. p. 42. Citato da Serge Tribolet. Op. Cit. p. 161.
    11] Ibidem.
    12] Concetto segnalato da Juan Lastres e citato da María Cristina Bianchetti. Cosmovisión sobrenatural de la locura. Pautas populares de salud mental en la puna argentina. Ed. Víctor Manuel Hanne. Salta. 1996. p. 13.
    13] Ibidem. p. 132-133.
    14] Ibidem. p. 137.
    15] Non soltanto la pazzia, ma tutti gli argomenti che costituiscono i pilastri dell'apparato della conoscenza, come l'animalità, l'umanità, la femminilità che vanno a ridefinire la posizione degli esseri viventi nel mondo e fanno in modo che, l'uomo fra essi, cercherà un nuovo posto, un nuova ontologia che deriverà forse verso un'ontogenesi.


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