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  • Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006

    IL VALORE DEL MITO E DELLA PAROLA NELLA STRUTTURAZIONE DELL'ORDINE INTERIORE


    Antonio Zulato

    antoniozulato@libero.it
    Insegnante di Filosofia e membro del Comitato Scientifico del L.E.D. (Laboratorio di Educazione al Dialogo) di Trento; Esperto in Metodologie Autobiografiche (Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari).

    La parola

    Ognuno di noi dovrebbe rileggere spesso il “libro” della sua vita per scoprire nella trama delle parole che la traducono il filo conduttore che la guida … per scoprire nel segreto dei significati che le parole nascondono lo sforzo che il linguaggio fa di tenere insieme l’io e il mondo. Le parole c’insegnano a contenere il mondo dentro di noi … e a collocarci nel mondo. E quando ne scaturisce qualcosa che chiamiamo “bellezza” allora possiamo essere certi che un ponte tra noi e il mondo è stato gettato, un ordine si è creato dentro di noi che ci permette di abitare il mondo come la nostra casa.

    Ma perché le parole hanno questa capacità di fare da intermediarie? Heidegger ci risponderebbe perché “Non è l’uomo che parla il linguaggio, ma il linguaggio che parla l’uomo.” Detto in altri termini perché non è l’uomo che struttura il linguaggio, ma il linguaggio che struttura l’uomo. Le parole, dunque, attraverso i loro significati e i legami sintattici, in un uso che sia desiderio di una luce illuminante, sono già portatrici di indicazioni e di sensi che vanno nella direzione che contemporaneamente appaga, in quanto ci indica delle risposte, e inquieta inducendo in noi nuove domande. E proprio in questo compito, la “Parola” ci rivela già la nostra essenza fondamentale.

    Se è vero che le parole, usate con l’intenzione di “illuminare”, sono in se stesse portatrici delle aspirazioni più profonde dell’uomo, allora noi possiamo cogliere in esse le indicazioni che veramente servono ad individuare la nostra strada. Anche se non prevedono mai un approdo definitivo, ma sempre e solo un cammino, come ci indica il “racconto” di Abramo, che è il “racconto” di ogni uomo, nel senso che quella che possiamo considerare una “compiutezza” individuale è solo il punto di partenza di un ulteriore cammino. Capire questo significa aver già gettato le basi del nostro ordine interiore.

    Partendo da questi presupposti possiamo anche capire che cosa intendeva dire Levinas, nelle ultime righe di Totalità e infinito, con le seguenti affermazioni: “Porre l’essere come Desiderio e come bontà non significa isolare preliminarmente un io che tenderebbe in seguito [dopo essersi costituito come individuo] verso un al di là [verso l’altro]. Significa affermare che comprendersi dall’interno - prodursi come io [prendere coscienza di sé] - è comprendersi con lo stesso gesto che è già rivolto all’esterno [verso l’altro] per estrovertire e manifestare - per rispondere di ciò che comprende [assumersi la responsabilità dell’altro, dalla cui relazione nasce la comprensione di sé] - per esprimere; significa affermare che la presa di coscienza è già linguaggio; che l’essenza del linguaggio è bontà, o ancora, che l’essenza del linguaggio è amicizia ed ospitalità.” (Levinas, 2000, p. 314)

    Che cosa significa che “la presa di coscienza è già linguaggio” se non che la presa di coscienza di sé “dimora” nel linguaggio inteso, da una parte, come comunicazione che mi indirizza all’altro, e, dall’altra, come parola che ne dice il senso? Il linguaggio, cioè, esplica la duplice funzione di definire la propria identità, e di costruire, con la ricerca di senso, quell’ordine interiore che meglio ci aiuta ad attraversare la realtà in armonia con noi stessi, collocati saldamente in noi stessi … nella direzione “opportuna” [1]. Se analizziamo alcune parole forse è più facile comprendere.

    Quando usiamo la parola “differenza”, probabilmente, non siamo coscienti della ricchezza d’informazioni che essa può darci se andiamo a leggerla al suo interno. La sua origine latina, differo, rimanda al greco diafero, dove dia indica contemporaneamente il “porre un confine”, “distinguere” e “mettere in relazione”; fero, poi, significa “portare”, nel senso di “condurre”, “porre”, “mettere” (non “prendere su di sé”, che è specifico di un altro verbo, tollo), ed è un verbo che non ha la forma del tempo “perfetto”, indica cioè un presente durativo, una situazione di “permanenza”. Se crediamo alla capacità strutturante delle parole, non dobbiamo trascurare questi particolari, perché sono fondamentali; e, nella fattispecie del verbo fero, dobbiamo aggiungere il fatto che esso veniva usato per indicare la donna incita. Quali significati (indicazioni) possiamo ricavare mettendo insieme tutte queste informazioni? Che la differenza porta e mantiene la distinzione, ma ci indica anche il modo per mettere in relazione le parti distinte, e che questa relazione è feconda, cioè creatrice di qualcosa di nuovo. La potenza della parola che qui vogliamo rimarcare sta proprio in quell’uso del verbo fero privo del tempo “passato perfetto”, e forse prima ancora, l’aver potuto concepire che certi verbi non debbano avere tale tempo, per dare delle indicazioni preziose di ordine etico, cioè di comportamenti concreti nella direzione di ciò che è “bene” per l’uomo, anche se non sappiamo esattamente dove possa portare [2]. In questo caso, la differenza porta con sé tutta la sua ricchezza, intesa come potenzialità di “dare forma” all’uomo sia nella dimensione individuale che sociale, solo se mantiene la distinzione, non se apre la possibilità alla fusione di ciò che è separato, situazione che non permetterebbe la relazione dialettica, e quindi la conquista di qualcosa di nuovo.

    Se prendiamo, poi, in considerazione la parola “confine” e facciamo un piccola indagine scopriamo che con essa si intende generalmente una linea che ‘separa’ due spazi, due territori, due proprietà. E invece il suo senso originario ci dice che essa è una linea che ‘unisce’, che mette insieme quegli spazi, quei territori, quelle proprietà. Non è la stessa cosa relazionarsi col proprio vicino avendo alla base l’idea che una siepe ‘ci unisce’ a lui piuttosto che ‘ci separa’ da lui! Che cosa ci dice questo, se non che il linguaggio nella sua strutturale saggezza ci dà i principi in base ai quali costruire i comportamenti che contribuiscono al nostro profondo agio e benessere.

    Nella stessa direzione vanno le parole ‘concorrenza’ e ‘competizione’, sul cui significato comune non mi soffermo, tanto è scontato; vale la pena invece richiamare l’attenzione sul fatto che esse originariamente significano rispettivamente ‘correre insieme’ e ‘raggiungere insieme’. Quale dei due significati, tra quello comune e quello originario, ci rassicura di più?

    Un discorso particolare va fatto rispetto alla ‘cura’. Molte parole significative, infatti, ce la richiamano; ricostruiamo qui di seguito l’etimologia di alcune.

    1. ACCOGLIERE. Deriva dal lat. A + Colligere, che a sua volta deriva da Cum + Legere. A, Ad = “Presso”; Cum = “Insieme”
    Legere = Legare, avvincere, stringere; scegliere.
    Collidere = Legare insieme, raccogliere scegliendo.

    ACCOGLIERE, dunque, significa “raccogliere presso di sé scegliendo”, dove il fatto di scegliere sta ad indicare la preziosità dell’ospite e quindi “l’attenzione, la cura, con cui lo si riceve”; in definitiva significa “ricevere con affetto, come si addice a cosa cara o preziosa”. Possiamo aggiungere che il gesto di accogliere non può prescindere dal ‘prendersi cura’, se pensiamo che neglegere significa ‘trascurare’.

    2. LIBERTA’. Per capire bene il concetto di “libertà” dobbiamo rifarci al termine latino liberi con il quale i romani designavano i figli riconosciuti dal padre come appartenenti alla sua famiglia; il gesto simbolico che sanciva questa appartenenza era l’innalzamento con le braccia. Questo significava l’impegno del padre e della famiglia a prendersi cura di loro facendosi carico dell’allevamento, dell’istruzione, dello sviluppo globale della persona.

    Libertas, dunque, è la condizione filiale, distinta dalla licentia che esprime la speranza di poter esprimere la propria volontà (affermazione del proprio io). Libertas esprime, invece, il senso della relazione filiale, che è una relazione indissolubile e indissociabile; la libertà è, quindi, la massima cura per la relazione (trascendimento del proprio io).

    La libertà dunque implica l’appartenenza ad un contesto sociale che considera di grande valore i suoi appartenenti, per cui esso da una parte si prende cura della loro realizzazione e dall’altra si dimostra attento ad ascoltare e a recepire le loro proposte per il miglioramento della vita individuale e sociale. Si può dire, in altre parole, che se una persona viene considerata e adeguatamente aiutata dal contesto sociale in cui vive, può far emergere anche quelle potenzialità e quegli aspetti di sé che da sola non sarebbe in grado di sviluppare.

    La libertà così intesa, quindi, non solo non ostacola le possibilità di un individuo, ma le rafforza e le amplifica attraverso la ‘cura’ degli altri.

    3. MEDITARE. Deriva dal lat. Mederi = curare, aiutare, che a sua volta deriva da una radice i.e. - Med- che significa “riflettere”, “curare” [o, forse, “curare riflettendo”, come fa il medico].

    Se ne deduce che la “riflessione” è una forma di “cura”, e
    Riflettere su di sé è un prendersi cura di sé; e
    Meditare su una cosa vuol dire guardarla, osservarla con cura.

    4. RESPONSABILITA’. Questo termine esprime il modo di affrontare una situazione, un comportamento o un’azione, propri o altrui, facendosene carico, preoccupandosene delle conseguenze.

    Deriva infatti da re-, che indica l’ “azione di ritorno o di risposta”, e da spondere che significa “impegnarsi con diligenza e attenzione”, “garantire”, “prendersi cura”, “farsi carico”. Generalmente, infatti, s’intende per responsabile colui che sa rendere ragione o sa accettare le conseguenze delle proprie ed altrui azioni, qualsiasi ne sia il costo. E’ per questo motivo che la responsabilità è la testimonianza della forza morale di una persona. Essa rappresenta l’opposto del “lasciar correre”, del “fregarsene”, del “delegare ad altri”, ed è il miglior rimedio contro l’individualismo e l’indifferenza.

    E’ importante notare che dallo stesso verbo spondere derivano i termini “sposo” e “sposa”, che acquistano quindi i significati suddetti.

    5. RISPETTO. Deriva dal latino respicere, che è composto da re-, che da una parte ha il valore di “indietro” e dall’altra ha il compito di intensificare l’azione del verbo al quale si accompagna; e da
    specere, “guardare”.

    Respicere, quindi, significa “guardare indietro”, cioè “ripensare”, “considerare”, “tener conto”, ma significa anche “volgere lo sguardo verso”, “osservare”, “esaminare (anche spiritualmente)”, “guardare attentamente”, sempre però “badando a …”, “consideran-do …”. “Considerando che cosa?”, viene da chiedersi.

    Tenendo presente che il verbo specere si era specializzato per esprimere il concetto di “profezia” e che la profezia ha a che fare col “destino”, possiamo affermare che respicere - rispettare - significa “guardare con attenzione una persona tenendo in considerazione il suo destino”.

    Il rispetto è, dunque, uno sguardo che si prende cura dell’altro, nel senso che è attento a non invadere, a non condizionare, a non compromettere “ciò che gli è proprio”, “ciò che gli appartiene in maniera specifica”; uno sguardo, se possibile, che si preoccupa di scoprire e di esaltare le sue caratteristiche e potenzialità.

    Poiché specere significa anche “guardare dall’alto”, e quindi da lontano, possiamo dedurre che rispettare vuol dire mettersi in rapporto con le persone mantenendo una certa distanza, lasciando cioè una zona di “agio” tra noi e loro, per non condizionarle. Anche questo è prendersi cura.

    6. PENSARE. Deriva da pensum, che a sua volta deriva da pendere [la radice pen- indica la tensione in senso verticale, in contrapposizione a ten- indicante invece la tensione in senso orizzontale], che significa “pesare” (“essere pesante”), “soppesare”, “giudicare”, “stimare”, “considerare”, (Nihil pensi habere significa “non curarsi di …”, “trascurare”, “non farsi scrupoli”).

    Pensum era il peso di lana che la schiava doveva filare in un giorno; essendo legato all’idea di “dovere” ha assunto, alla fine, proprio il significato di “compito”, “dovere”. [Dimensione del dovere].

    L’aggettivo pensus, poi, significa “che ha peso”, “pregevole”, “prezioso”. [Dimensione del valore]

    Da pendere deriva inoltre pensare, che indica l’ “azione del pesare”, “pesare con cura”, “esaminare”, “valutare”.

    Pensare significa anche “compensare” [cioè “valutare cosa manca e provvedere”], “bilanciare” (vicem pensare significa “rimpiazzare”, “fare le veci”), “contraccambiare”, “risarcire”, “pareggiare”, termini che implicano la ricostruzione di un equilibrio.

    Pensare è, dunque, un “dovere”, il dovere di “prendersi cura” delle idee, delle cose, delle cose nelle idee, caricandole di senso, allargando i limiti dei loro confini … fino a creare delle zone di sovrapposizione o di connessione tali da stabilire relazioni nuove, prima inconcepibili. Ma “pensare” implica, come condizione fondamentale, un valutare accurato, all’insegna della “responsabilità”, per accedere all’aspetto pregevole, prezioso delle cose a partire dal quale è possibile ricostruire un equilibrio funzionale a quello che, con parole umane, chiamiamo “star bene”, e talvolta “bellezza”.

    Val la pena ricordare, in proposito, che il termine francese “panser” (che ha la stessa radice) significa, ”medicare”, cioè prendersi cura di creare le condizioni perché qualcosa che si è rotto o lacerato possa risanarsi e ricostruirsi. L’uomo, grazie al pensiero, si prende cura del mondo, di sé, si prende cura di sé nel mondo, in modo creativo, adempiendo, così, al suo compito essenziale; questo è possibile, però, se agisce secondo una modalità di “possesso” di cui la lingua stessa ancora una volta ci dà le indicazioni adeguate per armonizzare le esigenze di libertà creativa dell’uomo e il mondo deterministico della natura.

    Che cose ci dice, dunque, la lingua rispetto al “possedere”? Proviamo a fare un’analisi di quelli che comunemente definiamo aggettivi (o pronomi) “possessivi”.

    A partire dalle espressioni in cui li usiamo, deduciamo che essi possono indicare:
    Possesso: Il mio quaderno;
    Appartenenza: La mia città;
    Condivisione, relazione, complicità: Il nostro incontro.

    Ma, forse, è più esatto dire che non indicano una di queste escludendo le altre, quanto piuttosto che ne indicano una in particolare implicando contemporaneamente anche le altre. È come dire che c’è vero possesso di una cosa se contemporaneamente si appartiene ad essa e si condivide con essa un destino comune prendendosene cura; solo così il “possesso” va nella direzione della “crescita” per l’uomo - … e dei destini dell’universo? Quello che chiamiamo “crescita” - e forse “bellezza” e “bontà” - è ciò che nell’uomo, nelle sue decisioni, nelle sue azioni, va nello stesso senso del “destino” dell’universo? D’altronde, “universo”, non significa “una sola direzione”?

    Il prendersi cura, associato al concetto di possesso appena chiarito, è dunque una dimensione che il linguaggio stesso ci ha rivelato essere intrinsecamente originaria alla struttura umana; ad essa dunque è opportuno che ci atteniamo per collocarci nella prospettiva della vita “autentica”. Questo, infatti, è il termine usato da Heidegger per indicare l’esito di un certo modo di intendere la “cura”, che è comunque una peculiarità che accompagna strutturalmente e originariamente l‘uomo.

    Infatti, dopo aver premesso i versi del poeta latino Igino, “Poiché infatti fu la Cura che per prima diede forma all’uomo, la Cura lo possieda finché esso viva”, il filosofo fa la distinzione tra “cura” delle cose e “cura” delle persone.

    Il “prendersi cura delle cose” rappresenta l’attività per cui l’uomo può mutarle, manipolarle, costruirle, ripararle … secondo un progetto facente capo a se stesso (“usa”, ad esempio, la stella Polare per orientarsi); è la dimensione del commercio, in cui le cose sono strumenti subordinati ai suoi bisogni e ai suoi scopi (utilizzabilità). Ma può rappresentare anche l’atteggiamento del guardarle come semplice-presenza; è la dimensione della contemplazione, della conoscenza gratuita.

    L’ “avere cura degli altri”, invece, può significare, da una parte, sottrarre agli altri le loro cure, procurare loro delle cose: un “essere insieme”, cioè, in modo “inautentico”, e, dall’altra, aiutarli ad essere liberi di assumersi le loro cure, aprirli alla possibilità di trovare se stessi e di realizzare il proprio essere: un “coesistere” che costituisce la “vita autentica”. È evidente quali sono per Heidegger le vie che dobbiamo percorrere per darci una struttura interiore che ci permetta di situarci adeguatamente nel mondo.

    Se il linguaggio proviene ed è testimonianza dell’ “essere”, della radice profonda della realtà, come dice Heidegger, allora seguire gli stimoli delle parole e la struttura del linguaggio - come gli esempi sopra citati ci lasciano intravedere - significa avere la garanzia di camminare in un terreno in cui è possibile aprirsi ad un senso che riguarda noi e la realtà tutta, anche se comunque si tratta di un “compimento” mai esaustivo, cifra di un’umanità che strutturalmente sempre tende ad un “oltre”. Il sentire positivo - ancorché inquieto - dentro di noi è la garanzia del nostro stare affacciati a questa apertura. Detto altrimenti, sembra esserci una sintonia tra parola (linguaggio) e “destino” dell’uomo, quando il destino sia inteso come “cifra”, fine intrinseco ed essenziale, dell’uomo, ciò in cui l’uomo sente soddisfatto il senso della sua ricerca, della sua vita come ricerca, all’insegna di una libertà che è insieme responsabilità e rischio.

    Questo ci insegnano anche i Libri Sacri di tutte le culture, testi che non ci danno mai delle verità già ben chiare, definite, inequivocabili, ma piuttosto indicazioni di vie, tra mille contraddizioni, che talvolta si perdono in labirinti inestricabili da cui non sappiamo uscire. È un invito, questo, a conquistarci la verità, a costruircela pazientemente e con la sofferenza che spesso deriva dal nostro sentirci inadeguati al compito. Nessuno può sostituirsi a noi in questa responsabilità. Nessuno di noi dovrà mai dire: “Mi è stato detto di fare così!”, e scaricare su altri un compito che appartiene solo a noi, assumendocene i rischi.

    È la lezione che apprendiamo dal racconto del “peccato originale”. “Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.” (Gen. 2, 17.) “Non morirete affatto!” - dice il serpente alla donna - “Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male.” (Gen. 3, 4-5.) La conoscenza, che nell’uomo deve avvenire come graduale conquista che lo trasforma facendolo evolvere verso forme sempre più profonde e sottili di consapevolezza, l’uomo ha avuto la presunzione di possederla tutta e immediatamente. Ora sappiamo che la conoscenza umana segue i ritmi del tempo ed è accompagnata sempre dalla “sofferenza” del dubbio e dell’insicurezza. Accettare di camminare in questa situazione di precarietà senza rinunciare mai a compiere il passo successivo ad ogni conquista, ci fa provare senz’altro la sensazione di stare pienamente nella vita, e di poterlo esprimere con la parola.

    È importante dunque educarci alla parola, che significa innanzitutto pronunciarla con responsabilità, dandole tutto il peso che essa porta con sé, coscienti della forza che essa ha di incidere su di noi e di conseguenza sul nostro atteggiamento nei confronti della realtà e degli altri; coscienti della sua strutturale potenzialità di darci quell’indirizzo che ci resterà sconosciuto, ma che in ogni caso ha il pregio di collocarci in noi stessi, nella contemporanea appartenenza alla realtà.

    C’è, forse, una parola che più di altre ci indica la strategia con cui rivolgerci a noi stessi, agli altri, alle cose, ed è la parola “benedizione”. “Bene-dire” significa dare riconoscimento al bene presente nelle persone e nelle cose, ricercarne la “forma” frammista alla ridondanza non essenziale e definirla con la chiarezza che lo sguardo disinteressato può cogliere. Se la parola che esce dallo sguardo dell’altro è “bene-dizione”, allora il nostro “dire” può fluire, sicuro di andare nella direzione giusta … anche se non sappiamo esattamente dove può portare; non preoccupato dalla presenza del “negativo”, al quale, in questo modo, viene a mancare della linfa di cui ha bisogno per alimentarsi, cioè della malafede. “Benedire” è infatti riconoscere l’intenzione retta delle azioni proprie e altrui. Affrontare la vita con questa predisposizione significa creare le condizioni perché si diffonda armonia in tutto ciò con cui ci relazioniamo.

    Il mito

    Dal momento che le varie culture che popolano questo nostro pianeta si sono in modo preferenziale espresse all’inizio attraverso i miti, come in parte abbiamo già visto, una riflessione su di essi ci farà scoprire ulteriori possibilità di senso e di ricerca; ci dirà i segni, gli indizi per una presa in carico della vita secondo le stesse modalità che man mano ci diventeranno chiare. E subito scopriremo come la vita trovi la strategia della sua dinamicità nella tensione tra posizioni opposte che contemporaneamente si richiamano e si respingono; ciò che dobbiamo perseguire non sta mai nell’ampliamento o nel “compimento” di una sola polarità, ma nel limitare la carica di espansione di un’idea tramite ciò che la condiziona, scoprendo in ciò che la condiziona la possibilità di espressione della sua essenza più profonda.

    Due miti del viaggio, metafora della vita, stanno alla base della nostra cultura, due miti speculari che ci indicano come solo il rimbalzare dall’uno all’altro possono dare consistenza a ciò che cerchiamo in termini di senso: Abramo che parte da “casa” per intraprendere un viaggio che non sa dove lo porterà, e Ulisse che viaggia, invece, per fare ritorno a casa. Il primo si muove nell’aspra essenzialità del deserto, per scoprire nell’essenzialità esteriore che il cammino porta, in definitiva, a se stessi, alla scoperta della propria identità individuale e sociale, a prescindere da un luogo di destinazione; il secondo tra le insidie del mare, per conquistare con l’intelligenza e la forza quella conoscenza che sarà capitalizzata, al ritorno a casa, come strumento per vincere il male, e quindi come virtù etica.

    La strutturazione del nostro ordine interiore è possibile solo se siamo capaci di guardare contemporaneamente a questi due messaggi, perché di entrambi abbiamo bisogno per collocarci nella complessità che ci costituisce. Ma ogni consapevolezza acquisita è solo una tappa. Così scopriamo, nella variante dantesca del viaggio di Ulisse, il bisogno che la conoscenza non sia slegata dal mondo degli affetti. Per questo Ulisse trova la morte oltre le Colonne d’Ercole, perché per la conoscenza ha sacrificato Itaca con tutti i suoi legami e sentimenti. Conoscenza e amore non possono essere separati senza costituire un “pericolo”; tanto è vero che in alcune lingue sono espressi dallo stesso termine. E questo è per noi un altro grande messaggio.

    Anche Mnemosine, che trasforma in modello sacro, fondativo della nostra vita, ciò che noi ricordiamo, fu affiancata da Lete, l’Oblio, affinché i dolori non fossero resi eterni: le due esperienze, della memoria e dell’oblio, erano ugualmente sacre e connesse con la sfera infera, luogo della non-vita, come comunemente viene inteso, o, forse, di un’ “esistenza” nel senso etimologico del termine, un “ex-sistere”, un “porsi fuori” dalla dimensione afferrabile dalla nostra conoscenza dove gli opposti sono ricomposti in unità. Un luogo di tenebre, interdetto alla “luce” della ragione, che solo il mito per altre vie può alluderci … e la garanzia ci è data dal fascino che il mito suscita in noi. Dalle sue indicazioni scopriamo la sintonia di un senso, di un’armonia che da sempre ci appartiene, nascosta da quell’ “unità” insondabile che ci fonda e ci fonde con l’universo senza confonderci con esso. Che cosa può essere altrimenti quella che noi chiamiamo bellezza se non la rivelazione di questa “fusione”, o, almeno, di una “corrispondenza”, di una adesione delle nostre forme alle forme della realtà che ci sostiene e su cui poggiamo il nostro peso orientandoci. Ecco lo specchio del nostro orientamento interiore.

    E alla luce del “ricordo” possiamo leggere anche il racconto di Orfeo ed Euridice. Col suo canto e la sua musica Orfeo riesce a convincere Ade, il re degli inferi, a restituirgli la moglie Euridice, morta anzitempo per il morso di un serpente. Ade acconsente, ma pone una condizione: Orfeo non deve girarsi indietro finché Euridice non sia giunta alla luce del sole. Euridice segue Orfeo per l’oscura voragine, guidata dal suono della sua lira. Ma appena giunge alla luce del sole, Orfeo si volge per vedere se Euridice è con lui e così la perde per sempre. “Moriva per la seconda volta - dice Ovidio - ma non emise un rimprovero nei confronti del suo consorte.” (Metamorfosi, X, 60 - 63)

    Quale contributo può dare questo mito alla “definizione” di ciò che ci appartiene come valore intrinseco? Uno stimolo possiamo riceverlo proprio dal fatto che Euridice non rimprovera Orfeo per la sua “debolezza”: il ricordo delle cose passate non deve indurci a desiderare di ripeterle; esse esprimono tutta la forza del loro valore proprio come “ricordo”, perché la vita deve continuare andando oltre il ricordo, creando nuove vie a partire da ciò che quel ricordo ha fondato. Un monito alla nostra nostalgia, se essa ci ancora al passato piuttosto che darci lo slancio verso qualcosa che ancora non conosciamo.

    Ma possiamo prendere anche qualcos’altro da questo mito. Dopo la morte di Orfeo ad opera delle Menadi, Baccanti al seguito di Dioniso - il dio dei sensi - che aveva voluto l’uccisione di Orfeo per la sua devozione ad Apollo - il dio dell’intelletto - la sua testa fu gettata nel fiume Ebro insieme alla sua lira. La testa arrivò al tempio di Dioniso, mentre la lira arrivò al tempio di Apollo. Ritorna il tema degli opposti: i sensi (Dioniso) hanno bisogno dell’intelletto per acquisire “significato”, cioè per andare oltre se stessi, mentre l’intelletto (Apollo) ha bisogno dei sensi per “ancorarsi” nel corpo e nelle cose. L’uno richiede l’appoggio dell’altro. Secondo quest’ottica dobbiamo guardare agli aspetti, talvolta opposti, che ci costituiscono … per ascendere a livelli più alti di entrambi attraverso lo sforzo di conciliarli.

    E riferendoci al mito di Narciso, vediamo che egli, morto nella contemplazione della sua immagine, viene trasformato nel fiore che porta il suo nome, un fiore bellissimo … che, però, non sa la sua bellezza. Non poteva essere che questo il destino di Narciso, il giovane bellissimo che non “cresceva” perché non conosceva la sua “ombra”. E allora, scoprire di poter ritrovare nelle nostre zone oscure, sconosciute, inquietanti … ritrovare nel loro “riconoscimento” la radice della nostra consapevolezza, questo è il servizio più sacro che noi possiamo fare alla nostra vita. Sono le nostre parti “straniere” quelle che ci incuriosiscono, che ci permettono di volgere lo sguardo altrove, quelle, in definitiva, che ci mettono in cammino; sono esse che, mettendoci in discussione, ci fanno percepire per contrasto, la “luce” di cui siamo portatori … Strutturarci interiormente può significare, dunque, vedere nell’ “ombra” lo strumento, e nella “luce” il fine che dà “senso” al nostro muoverci nella vita. Così l’ “errore” che nasce dall’ “ombra” ci permette di passare dalla situazione di “erranti” alla situazione di “itineranti”, di persone che stanno seguendo una traccia, una via che conduce da qualche parte, anche se non ci è dato arrivare, perché, probabilmente, la nostra unità interiore consiste proprio nella consapevolezza di dover fare un tratto di strada e poi … passare il testimone.

    Ritornando ad Abramo, allora, possiamo cogliere un’altra stimolazione: egli era partito su “ordine” di Dio, ma non sapeva dove doveva andare; aveva solo una vaga prospettiva: “Esci dalla tua terra (…) verso la terra che io ti mostrerò.” (Gen. 12.1.) Era quello un invito a fare attenzione ai “segni”; ai segni che Dio, di volta in volta, gli avrebbe mandato. Che cosa dice questo a noi? Forse qualcosa di estremamente liberatorio: non voler progettare la nostra vita in base a desideri, molto spesso indotti da esperienze altrui, quanto piuttosto cogliere nella nostra vita le indicazioni che riguardano la nostra autenticità più profonda, quella che sentiamo stimolata dai fatti che ci troviamo a fronteggiare, frutto delle nostre decisioni, ma anche della realtà che non dipende da noi. Deve essere nostra cura trovare l’equilibrio tra queste due dimensioni, attenti agli avvenimenti, senza accanirci a perseguire rigidamente obiettivi che possono alla lunga rivelarsi fuorvianti. Essere nell’atteggiamento di chi ha la pazienza di costruire giorno per giorno, in base alle esperienze che si trova a fare, le tappe di un percorso che solo nella lunga durata può rivelare il suo valore, significa vivere l’esperienza del sentirci ospiti dell’esistenza che continuamente si costruisce in noi. In quest’ottica possiamo sentirci liberi dal “dovere” di progettare, e di liberarci dal senso di frustrazione che il non raggiungimento degli obiettivi sempre ci procura. Anzi, il sentirci deviati rispetto al nostro scopo potrebbe rivelarsi un’opportunità preziosa. È la proposta che ci fa anche il racconto della Bhagavadgita [3]: “Tu sei competente ad agire, ma non a godere del frutto dei tuoi atti. Non prendere mai come movente il frutto della tua azione.” (Bhagavadgita, II, 39)

    Si tratta, in definitiva, di passare da un “vuoto” sentito come “assenza” [di un progetto] ad un “vuoto” vissuto come “attesa” … di ciò che non ha ancora un nome e che, perciò, è assolutamente inedito, cioè, impensabile; “attesa” in senso forte, dunque, non “aspettativa”, che, in quanto tale, conosciamo già. In una prospettiva più sociale si colloca, invece, il mito di Prometeo, quale ci viene proposto da Platone nel suo Protagora. Seguiamolo in un riassunto di Giovanni Fornero: “Quando gli Dèi ebbero plasmato le stirpi animali, incaricarono Prometeo (Pro+métis = il preveggente) ed Epimeteo (Epì+métis = l’imprevidente) di distribuire ad esse le facoltà di cui ciascuna stirpe conveniva che fosse dotata per poter sopravvivere. Epimeteo fece la distribuzione. Assegnò ad alcuni animali la forza senza la velocità, ad altri, i più deboli, assegnò la velocità perché potessero salvarsi con la fuga di fronte ai pericoli; ad altri dette mezzi di difesa e di offesa o altra capacità che rendesse possibile la loro conservazione. Agli animali più piccoli dette la possibilità di fuggire con le ali o di nascondersi sotto terra. A quelli più grandi, dette, appunto con la grandezza, il modo di conservarsi. E così distribuendo ad ognuno una facoltà appropriata, fece in modo da evitare che qualche razza si spegnesse. Distribuì inoltre spesse pelli e pellicce per difendere gli animali contro il freddo invernale e i calori estivi. E procurò ad ogni specie animale un cibo diverso: o le erbe, o i frutti degli alberi, o le radici, o, ad alcuni animali, la carne degli altri animali. Ai carnivori tuttavia assegnò prole poco numerosa, mentre dette una prole abbondante alle loro vittime in modo da garantire la conservazione delle loro specie. Ora Epimeteo, che non era abbastanza saggio, non si accorse di aver distribuite tutte le facoltà agli animali irragionevoli: il genere umano rimaneva ancora sfornito di tutto e Prometeo, che intervenne ad esaminare la distribuzione fatta da Epimeteo, vide che mentre tutti gli altri animali erano attrezzati convenientemente per la loro conservazione, l’uomo era nudo, scalzo, indifeso e inerme. Fu allora che Prometeo pensò di rubare ad Efesto e ad Atena il fuoco e l’abilità meccanica e di farne dono all’uomo. Con l’abilità meccanica e con il fuoco l’uomo fu così in grado di procurarsi la protezione, la difesa, le armi e gli strumenti per procurarsi il cibo, dei quali l’incauta distribuzione di Epimeteo l’aveva lasciato privo.

    Mediante l’abilità meccanica e il fuoco l’uomo poté inventare le case, le calzature, gl’indumenti, nonché gli strumenti e le armi per procurarsi il cibo. Cominciò anche ad articolare la voce con arte in modo da formarne parole e nomi. E fu anche il solo essere mortale che, in quanto partecipe di un’abilità divina, onorò gli dèi e costruì altari e immagini sacre. Ma tutto ciò non bastava ancora a garantire la vita degli uomini perché essi vivevano dispersi e non erano in grado di combattere le fiere. Cercavano bensì di riunirsi e di fondare città per difendersi; ma quando si riunivano, non possedendo l’arte politica, cioè l’arte di vivere insieme, si facevano torto a vicenda e quindi di nuovo si disperdevano e perivano. Dovette allora intervenire Zeus e salvare per la seconda volta il genere umano dalla dispersione: egli mandò Hermes a portare fra gli uomini il rispetto reciproco e la giustizia affinché fossero principi ordinatori delle comunità e creassero presso i cittadini vincoli di solidarietà e di benevolenza. E a differenza delle arti meccaniche che non furono date a tutti, giacché, per esempio, un sol medico basta a molti profani, Zeus stabilì che tutti partecipassero dell’arte politica, cioè del rispetto reciproco e della giustizia, e che coloro che si rifiutassero di parteciparne fossero allontanati dalla comunità umana od uccisi.” (Cfr. Abbagnano, Foriero, 2000, p. 115)

    È importante che ogni uomo strutturi il suo mondo interiore in base ai suddetti principi, la garanzia del cui “valore” [4] è data dal fatto che la realizzazione di sé ha maggiori possibilità di compiutezza se c’è il contributo dell’attenzione e del contributo “rispettoso” dell’altro. Che è come dire: “Se qualcuno mi dà una mano io posso essere e fare di più di quello che potrei essere e fare da solo.” Il motto latino “Alterius sic alter poscit opem” [“Così l’uno richiede l’appoggio dell’altro”] lo conferma. In questo senso vanno, appunto, i significati etimologici di “competizione” [raggiungere insieme] e di “concorrenza”[correre insieme], come abbiamo già visto.

    La prosecuzione del mito, che Eschilo ci presenta nel Prometeo incatenato, ci dice inoltre, in sintonia con molte altre testimonianze della nostra cultura occidentale e non solo, che la sofferenza crea conoscenza … e anche questa è una “provocazione” da mettere in conto nella nostra ricerca di senso. Riconciliarci con la sofferenza rappresenta senz’altro il compito di una vita. Soprattutto se riguarda quella sofferenza estrema che è la morte.

    E concludiamo con un cenno al mito di Antigone, sorella di Eteocle e Polinice. Quando i due fratelli muoiono nel duello che li opponeva l’uno all’altro, Antigone infrange il divieto, imposto dal tiranno Creonte, loro zio, di dare sepoltura al corpo di Polinice e sparge sul cadavere una manciata di polvere, gesto rituale sufficiente ad assolvere l’obbligo religioso. Per questo atto di pietà viene condannata a morte da Creonte e rinchiusa viva in fondo ad una caverna scavata nella rupe. Antigone s’impicca nella prigione, ed Emone, il suo fidanzato, figlio di Creonte, si uccide sul suo cadavere.

    Al di là del concetto che ci sono “leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei, quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne, quelle che nessuno sa quando comparvero” (Sofocle, Antigone, Episodio II), e che nessun mortale può sovvertire, volevo cogliere un’indicazione più generale che può aiutarci ad una maggiore chiarezza dentro di noi, e, di conseguenza, nel nostro rapporto con la realtà. Ci sono dimensioni, che sfuggono alla nostra logica, nei confronti delle quali dobbiamo sentirci in perenne ricerca - ricerca supportata anche da tutta la cultura che si è sedimentata attraverso i secoli nelle parole, nei miti, nella poesia nella riflessione filosofica - perchè la continua re-interpretazione alla luce del presente ci permette di andare oltre il presente e tracciare nuovi cammini da sperimentare. Restando, però, sempre in allerta perché “il male sembra un bene all’uomo quando un dio gli vuole oscurare la mente: allora è breve il tempo che precede la rovina.” (Sofocle, Antigone, Stasimo II, Antistrofe II)

    Conclusione

    La nostra conoscenza è possibile solo attraverso la separazione degli opposti, ma la nostra strutturazione interiore è possibile solo tramite la loro simultanea considerazione, solo tramite una ricomposizione armonica che li superi entrambi in una sintesi che diventa piena consapevolezza. Finché gli opposti restano separati non sono possibili né verità, né giustizia, né “coscienza”. Tra Ulisse, ad esempio, che viaggia in vista del ritorno a casa, e Abramo, che cammina per il deserto senza conoscere la meta, noi non dobbiamo scegliere, ma comprendere innanzitutto che in ognuno di noi c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro; spetta a noi poi vedere quando è il tempo di essere Ulisse e quando è il tempo di essere Abramo. In ogni caso, quando viviamo l’uno dobbiamo aver ben presente l’esistenza in noi dell’altro, perché questa, come abbiamo già detto, è la fonte della consapevolezza.

    Ognuno è invitato a soffermarsi sui miti che conosce, a cercarne altri, lasciarsi interrogare e abbandonarsi alla ricerca di risposte, fiducioso che proprio nella ricerca può emergere la “mappa” più confacente al suo mondo interiore. Quello che ho esposto è il risultato - parziale e non definitivo - della mia riflessione, che propongo come esempio e come contributo per un confronto, convinto che ognuno nasconda in sé tracce di una verità che lentamente si va costruendo. Già questa convinzione darebbe un grosso contributo alla unità del nostro mondo interiore, il quale, nel suo rapporto con la realtà esterna può scoprire ciò che lo caratterizza; una conoscenza di sé che risponde alla domanda fondamentale che ogni uomo si fa. Solo da qui può iniziare quella valorizzazione di sé e degli altri che ci porta a vivere la libertà come espressione autentica di sé in cui il “modello” del proprio mondo interiore trova una risonanza nel mondo esteriore.

    L’analisi proposta è necessariamente parziale … e c’è un “oltre” in questo scritto, che si può sperimentare solo come “sentire” inafferrabile dal pensiero, perché il “tutto” del mito e della parola non si può razionalizzare in maniera compiuta e immediata; si lascia scoprire solo molto lentamente, creando coscienza … e derivando da quella stessa coscienza che crea!


    NOTE

    1] Ricordo che in origine i marinai qualificavano come opportunus il vento che tirava nella direzione del porto!
    2] Cfr. in proposito J. L. Borges, Una preghiera: “Ignoriamo i destini dell’universo, ma sappiamo che ragionare con lucidità e operare con giustizia è aiutare quei disegni, che non ci saranno rivelati.”
    3] Libro sacro dell’Induismo, in cui il beato Krisna spinge l’eroe Arjuna a compiere il suo dovere di casta insegnandogli la dottrina dell’azione disinteressata. È, in sostanza un’esposizione delle diverse vie indù di liberazione.
    4] Definiamo come “valore” ciò che non rimanda a nient’altro per caratterizzarsi, ciò che contiene in sé stesso tutti gli elementi per proporsi, ciò che non fa riferimento a nient’altro per definirsi. Particolarmente significativo per una maggiore interiorizzazione di questo concetto è il seguente brano di Italo Calvino: “Dalla profonda distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un ammicco: una cosa si stacca delle altre cose con l’intenzione di significare qualcosa … che cosa? Se stessa; una cosa è contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di significare se stessa e nient’altro, in mezzo a cose che significano se stesse e nient’altro.” (I. Calvino, Palomar, Torino 1983, p. 117)


    BIBLIOGRAFIA

    E. Lévinas, Totalità e infinito, Milano, Jaca Book, 2000.
    N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, vol. A, Tomo 1, Milano, Paravia, Milano 2000.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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