Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006
IL VALORE DEL MITO E DELLA PAROLA NELLA STRUTTURAZIONE DELL'ORDINE INTERIORE
      Antonio Zulato
antoniozulato@libero.it
        Insegnante di Filosofia e membro 
                    del Comitato Scientifico del L.E.D. (Laboratorio di Educazione 
                    al Dialogo) di Trento; Esperto in Metodologie Autobiografiche 
        (Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari).
La 
                    parola
                    
                    Ognuno di noi dovrebbe rileggere spesso il “libro” della sua 
                    vita per scoprire nella trama delle parole che la traducono 
                    il filo conduttore che la guida … per scoprire nel segreto 
                    dei significati che le parole nascondono lo sforzo che il 
                    linguaggio fa di tenere insieme l’io e il mondo. Le parole 
                    c’insegnano a contenere il mondo dentro di noi … e a collocarci 
                    nel mondo. E quando ne scaturisce qualcosa che chiamiamo “bellezza” 
                    allora possiamo essere certi che un ponte tra noi e il mondo 
                    è stato gettato, un ordine si è creato dentro di noi che ci 
                    permette di abitare il mondo come la nostra casa.
                    
                    Ma perché le parole hanno questa capacità di fare da intermediarie? 
                    Heidegger ci risponderebbe perché “Non è l’uomo che parla 
                    il linguaggio, ma il linguaggio che parla l’uomo.” Detto in 
                    altri termini perché non è l’uomo che struttura il linguaggio, 
                    ma il linguaggio che struttura l’uomo. Le parole, dunque, 
                    attraverso i loro significati e i legami sintattici, in un 
                    uso che sia desiderio di una luce illuminante, sono già portatrici 
                    di indicazioni e di sensi che vanno nella direzione che contemporaneamente 
                    appaga, in quanto ci indica delle risposte, e inquieta inducendo 
                    in noi nuove domande. E proprio in questo compito, la “Parola” 
                    ci rivela già la nostra essenza fondamentale.
                    
                    Se è vero che le parole, usate con l’intenzione di “illuminare”, 
                    sono in se stesse portatrici delle aspirazioni più profonde 
                    dell’uomo, allora noi possiamo cogliere in esse le indicazioni 
                    che veramente servono ad individuare la nostra strada. Anche 
                    se non prevedono mai un approdo definitivo, ma sempre e solo 
                    un cammino, come ci indica il “racconto” di Abramo, che è 
                    il “racconto” di ogni uomo, nel senso che quella che possiamo 
                    considerare una “compiutezza” individuale è solo il punto 
                    di partenza di un ulteriore cammino. Capire questo significa 
                    aver già gettato le basi del nostro ordine interiore.
                    
                    Partendo da questi presupposti possiamo anche capire che cosa 
                    intendeva dire Levinas, nelle ultime righe di Totalità e infinito, 
                    con le seguenti affermazioni: “Porre l’essere come Desiderio 
                    e come bontà non significa isolare preliminarmente un io che 
                    tenderebbe in seguito [dopo essersi costituito come individuo] 
                    verso un al di là [verso l’altro]. Significa affermare che 
                    comprendersi dall’interno - prodursi come io [prendere coscienza 
                    di sé] - è comprendersi con lo stesso gesto che è già rivolto 
                    all’esterno [verso l’altro] per estrovertire e manifestare 
                    - per rispondere di ciò che comprende [assumersi la responsabilità 
                    dell’altro, dalla cui relazione nasce la comprensione di sé] 
                    - per esprimere; significa affermare che la presa 
                    di coscienza è già linguaggio; che l’essenza 
                    del linguaggio è bontà, o ancora, che l’essenza 
                    del linguaggio è amicizia ed ospitalità.” (Levinas, 
                    2000, p. 314)
                    
                    Che cosa significa che “la presa di coscienza è già linguaggio” 
                    se non che la presa di coscienza di sé “dimora” nel linguaggio 
                    inteso, da una parte, come comunicazione che mi indirizza 
                    all’altro, e, dall’altra, come parola che ne dice il senso? 
                    Il linguaggio, cioè, esplica la duplice funzione di definire 
                    la propria identità, e di costruire, con la ricerca di senso, 
                    quell’ordine interiore che meglio ci aiuta ad attraversare 
                    la realtà in armonia con noi stessi, collocati saldamente 
                    in noi stessi … nella direzione “opportuna” [1]. 
                    Se analizziamo alcune parole forse è più facile comprendere.
                    
                    Quando usiamo la parola “differenza”, probabilmente, non siamo 
                    coscienti della ricchezza d’informazioni che essa può darci 
                    se andiamo a leggerla al suo interno. La sua origine latina, 
                    differo, rimanda al greco diafero, dove dia indica contemporaneamente 
                    il “porre un confine”, “distinguere” e “mettere in relazione”; 
                    fero, poi, significa “portare”, nel senso di “condurre”, “porre”, 
                    “mettere” (non “prendere su di sé”, che è specifico di un 
                    altro verbo, tollo), ed è un verbo che non ha la forma del 
                    tempo “perfetto”, indica cioè un presente durativo, una situazione 
                    di “permanenza”. Se crediamo alla capacità strutturante delle 
                    parole, non dobbiamo trascurare questi particolari, perché 
                    sono fondamentali; e, nella fattispecie del verbo fero, dobbiamo 
                    aggiungere il fatto che esso veniva usato per indicare la 
                    donna incita. Quali significati (indicazioni) possiamo ricavare 
                    mettendo insieme tutte queste informazioni? Che la 
                    differenza porta e mantiene la distinzione, ma ci indica anche 
                    il modo per mettere in relazione le parti distinte, e che 
                    questa relazione è feconda, cioè creatrice di qualcosa di 
                    nuovo. La potenza della parola che qui vogliamo rimarcare 
                    sta proprio in quell’uso del verbo fero privo del tempo “passato 
                    perfetto”, e forse prima ancora, l’aver potuto concepire che 
                    certi verbi non debbano avere tale tempo, per dare delle indicazioni 
                    preziose di ordine etico, cioè di comportamenti concreti nella 
                    direzione di ciò che è “bene” per l’uomo, anche se non sappiamo 
                    esattamente dove possa portare [2]. 
                    In questo caso, la differenza porta con sé tutta la sua ricchezza, 
                    intesa come potenzialità di “dare forma” all’uomo sia nella 
                    dimensione individuale che sociale, solo se mantiene la distinzione, 
                    non se apre la possibilità alla fusione di ciò che è separato, 
                    situazione che non permetterebbe la relazione dialettica, 
                    e quindi la conquista di qualcosa di nuovo.
                    
                    Se prendiamo, poi, in considerazione la parola “confine” e 
                    facciamo un piccola indagine scopriamo che con essa si intende 
                    generalmente una linea che ‘separa’ due spazi, due territori, 
                    due proprietà. E invece il suo senso originario ci dice che 
                    essa è una linea che ‘unisce’, che mette insieme quegli spazi, 
                    quei territori, quelle proprietà. Non è la stessa cosa relazionarsi 
                    col proprio vicino avendo alla base l’idea che una siepe ‘ci 
                    unisce’ a lui piuttosto che ‘ci separa’ da lui! Che cosa ci 
                    dice questo, se non che il linguaggio nella sua strutturale 
                    saggezza ci dà i principi in base ai quali costruire i comportamenti 
                    che contribuiscono al nostro profondo agio e benessere.
                    
                    Nella stessa direzione vanno le parole ‘concorrenza’ e ‘competizione’, 
                    sul cui significato comune non mi soffermo, tanto è scontato; 
                    vale la pena invece richiamare l’attenzione sul fatto che 
                    esse originariamente significano rispettivamente ‘correre 
                    insieme’ e ‘raggiungere insieme’. Quale dei due significati, 
                    tra quello comune e quello originario, ci rassicura di più?
                    
                    Un discorso particolare va fatto rispetto alla ‘cura’. Molte 
                    parole significative, infatti, ce la richiamano; ricostruiamo 
                    qui di seguito l’etimologia di alcune.
                    
                    1. ACCOGLIERE. Deriva dal lat. A + Colligere, 
                    che a sua volta deriva da Cum + Legere. A, Ad = “Presso”; 
                    Cum = “Insieme”
                    Legere = Legare, avvincere, stringere; scegliere.
                    Collidere = Legare insieme, raccogliere scegliendo.
                    
                    ACCOGLIERE, dunque, significa “raccogliere presso di sé scegliendo”, 
                    dove il fatto di scegliere sta ad indicare la preziosità dell’ospite 
                    e quindi “l’attenzione, la cura, con cui lo si riceve”; in 
                    definitiva significa “ricevere con affetto, come si addice 
                    a cosa cara o preziosa”. Possiamo aggiungere che il gesto 
                    di accogliere non può prescindere dal ‘prendersi cura’, se 
                    pensiamo che neglegere significa ‘trascurare’.
                    
                    2. LIBERTA’. Per capire bene il concetto 
                    di “libertà” dobbiamo rifarci al termine latino liberi con 
                    il quale i romani designavano i figli riconosciuti dal padre 
                    come appartenenti alla sua famiglia; il gesto simbolico che 
                    sanciva questa appartenenza era l’innalzamento con le braccia. 
                    Questo significava l’impegno del padre e della famiglia a 
                    prendersi cura di loro facendosi carico dell’allevamento, 
                    dell’istruzione, dello sviluppo globale della persona.
                    
                    Libertas, dunque, è la condizione filiale, distinta dalla 
                    licentia che esprime la speranza di poter esprimere la propria 
                    volontà (affermazione del proprio io). Libertas 
                    esprime, invece, il senso della relazione filiale, che è una 
                    relazione indissolubile e indissociabile; la libertà è, quindi, 
                    la massima cura per la relazione (trascendimento del 
                    proprio io).
                    
                    La libertà dunque implica l’appartenenza ad un contesto sociale 
                    che considera di grande valore i suoi appartenenti, per cui 
                    esso da una parte si prende cura della loro realizzazione 
                    e dall’altra si dimostra attento ad ascoltare e a recepire 
                    le loro proposte per il miglioramento della vita individuale 
                    e sociale. Si può dire, in altre parole, che se una persona 
                    viene considerata e adeguatamente aiutata dal contesto sociale 
                    in cui vive, può far emergere anche quelle potenzialità e 
                    quegli aspetti di sé che da sola non sarebbe in grado di sviluppare.
                    
                    La libertà così intesa, quindi, non solo non ostacola le possibilità 
                    di un individuo, ma le rafforza e le amplifica attraverso 
                    la ‘cura’ degli altri.
                    
                    3. MEDITARE. Deriva dal lat. Mederi = curare, 
                    aiutare, che a sua volta deriva da una radice i.e. - Med- 
                    che significa “riflettere”, “curare” [o, forse, “curare riflettendo”, 
                    come fa il medico].
                    
                    Se ne deduce che la “riflessione” è una forma di “cura”, e
                    Riflettere su di sé è un prendersi cura di sé; e
                    Meditare su una cosa vuol dire guardarla, osservarla con cura.
                    
                    4. RESPONSABILITA’. Questo termine esprime 
                    il modo di affrontare una situazione, un comportamento o un’azione, 
                    propri o altrui, facendosene carico, preoccupandosene delle 
                    conseguenze.
                    
                    Deriva infatti da re-, che indica l’ “azione di ritorno o 
                    di risposta”, e da spondere che significa “impegnarsi con 
                    diligenza e attenzione”, “garantire”, “prendersi cura”, “farsi 
                    carico”. Generalmente, infatti, s’intende per responsabile 
                    colui che sa rendere ragione o sa accettare le conseguenze 
                    delle proprie ed altrui azioni, qualsiasi ne sia il costo. 
                    E’ per questo motivo che la responsabilità è la testimonianza 
                    della forza morale di una persona. Essa rappresenta l’opposto 
                    del “lasciar correre”, del “fregarsene”, del “delegare ad 
                    altri”, ed è il miglior rimedio contro l’individualismo e 
                    l’indifferenza.
                    
                    E’ importante notare che dallo stesso verbo spondere derivano 
                    i termini “sposo” e “sposa”, che acquistano quindi i significati 
                    suddetti.
                    
                    5. RISPETTO. Deriva dal latino respicere, 
                    che è composto da re-, che da una parte ha il valore di “indietro” 
                    e dall’altra ha il compito di intensificare l’azione del verbo 
                    al quale si accompagna; e da
                    specere, “guardare”.
                    
                    Respicere, quindi, significa “guardare indietro”, cioè “ripensare”, 
                    “considerare”, “tener conto”, ma significa anche “volgere 
                    lo sguardo verso”, “osservare”, “esaminare (anche spiritualmente)”, 
                    “guardare attentamente”, sempre però “badando a …”, “consideran-do 
                    …”. “Considerando che cosa?”, viene da chiedersi.
                    
                    Tenendo presente che il verbo specere si era specializzato 
                    per esprimere il concetto di “profezia” e che la profezia 
                    ha a che fare col “destino”, possiamo affermare che respicere 
                    - rispettare - significa “guardare con attenzione una persona 
                    tenendo in considerazione il suo destino”.
                    
                    Il rispetto è, dunque, uno sguardo che si prende cura dell’altro, 
                    nel senso che è attento a non invadere, a non condizionare, 
                    a non compromettere “ciò che gli è proprio”, “ciò che gli 
                    appartiene in maniera specifica”; uno sguardo, se possibile, 
                    che si preoccupa di scoprire e di esaltare le sue caratteristiche 
                    e potenzialità.
                    
                    Poiché specere significa anche “guardare dall’alto”, e quindi 
                    da lontano, possiamo dedurre che rispettare vuol dire mettersi 
                    in rapporto con le persone mantenendo una certa distanza, 
                    lasciando cioè una zona di “agio” tra noi e loro, per non 
                    condizionarle. Anche questo è prendersi cura.
                    
                    6. PENSARE. Deriva da pensum, che a sua volta 
                    deriva da pendere [la radice pen- indica la tensione in senso 
                    verticale, in contrapposizione a ten- indicante invece la 
                    tensione in senso orizzontale], che significa “pesare” (“essere 
                    pesante”), “soppesare”, “giudicare”, “stimare”, “considerare”, 
                    (Nihil pensi habere significa “non curarsi di …”, “trascurare”, 
                    “non farsi scrupoli”).
                    
                    Pensum era il peso di lana che la schiava doveva filare in 
                    un giorno; essendo legato all’idea di “dovere” ha assunto, 
                    alla fine, proprio il significato di “compito”, “dovere”. 
                    [Dimensione del dovere].
                    
                    L’aggettivo pensus, poi, significa “che ha peso”, “pregevole”, 
                    “prezioso”. [Dimensione del valore]
                    
                    Da pendere deriva inoltre pensare, che indica l’ “azione del 
                    pesare”, “pesare con cura”, “esaminare”, “valutare”.
                    
                    Pensare significa anche “compensare” [cioè “valutare cosa 
                    manca e provvedere”], “bilanciare” (vicem pensare significa 
                    “rimpiazzare”, “fare le veci”), “contraccambiare”, “risarcire”, 
                    “pareggiare”, termini che implicano la ricostruzione di un 
                    equilibrio.
                    
                    Pensare è, dunque, un “dovere”, il dovere di “prendersi cura” 
                    delle idee, delle cose, delle cose nelle idee, caricandole 
                    di senso, allargando i limiti dei loro confini … fino a creare 
                    delle zone di sovrapposizione o di connessione tali da stabilire 
                    relazioni nuove, prima inconcepibili. Ma “pensare” implica, 
                    come condizione fondamentale, un valutare accurato, all’insegna 
                    della “responsabilità”, per accedere all’aspetto pregevole, 
                    prezioso delle cose a partire dal quale è possibile ricostruire 
                    un equilibrio funzionale a quello che, con parole umane, chiamiamo 
                    “star bene”, e talvolta “bellezza”.
                    
                    Val la pena ricordare, in proposito, che il termine francese 
                    “panser” (che ha la stessa radice) significa, ”medicare”, 
                    cioè prendersi cura di creare le condizioni perché qualcosa 
                    che si è rotto o lacerato possa risanarsi e ricostruirsi. 
                    L’uomo, grazie al pensiero, si prende cura del mondo, di sé, 
                    si prende cura di sé nel mondo, in modo creativo, adempiendo, 
                    così, al suo compito essenziale; questo è possibile, però, 
                    se agisce secondo una modalità di “possesso” di cui la lingua 
                    stessa ancora una volta ci dà le indicazioni adeguate per 
                    armonizzare le esigenze di libertà creativa dell’uomo e il 
                    mondo deterministico della natura.
                    
                    Che cose ci dice, dunque, la lingua rispetto al “possedere”? 
                    Proviamo a fare un’analisi di quelli che comunemente definiamo 
                    aggettivi (o pronomi) “possessivi”.
                    
                    A partire dalle espressioni in cui li usiamo, deduciamo che 
                    essi possono indicare:
                    Possesso: Il mio quaderno;
                    Appartenenza: La mia città;
                    Condivisione, relazione, complicità: Il nostro incontro.
                    
                    Ma, forse, è più esatto dire che non indicano una di queste 
                    escludendo le altre, quanto piuttosto che ne indicano una 
                    in particolare implicando contemporaneamente anche le altre. 
                    È come dire che c’è vero possesso di una cosa se contemporaneamente 
                    si appartiene ad essa e si condivide con essa un destino comune 
                    prendendosene cura; solo così il “possesso” va nella 
                    direzione della “crescita” per l’uomo - … e dei destini dell’universo? 
                    Quello che chiamiamo “crescita” - e forse “bellezza” e “bontà” 
                    - è ciò che nell’uomo, nelle sue decisioni, nelle sue azioni, 
                    va nello stesso senso del “destino” dell’universo? D’altronde, 
                    “universo”, non significa “una sola direzione”?
                    
                    Il prendersi cura, associato al concetto di possesso appena 
                    chiarito, è dunque una dimensione che il linguaggio stesso 
                    ci ha rivelato essere intrinsecamente originaria alla struttura 
                    umana; ad essa dunque è opportuno che ci atteniamo per collocarci 
                    nella prospettiva della vita “autentica”. Questo, infatti, 
                    è il termine usato da Heidegger per indicare l’esito di un 
                    certo modo di intendere la “cura”, che è comunque una peculiarità 
                    che accompagna strutturalmente e originariamente l‘uomo.
                    
                    Infatti, dopo aver premesso i versi del poeta latino Igino, 
                    “Poiché infatti fu la Cura che per prima diede forma 
                    all’uomo, la Cura lo possieda finché esso viva”, 
                    il filosofo fa la distinzione tra “cura” delle cose e “cura” 
                    delle persone.
                    
                    Il “prendersi cura delle cose” rappresenta l’attività per 
                    cui l’uomo può mutarle, manipolarle, costruirle, ripararle 
                    … secondo un progetto facente capo a se stesso (“usa”, ad 
                    esempio, la stella Polare per orientarsi); è la dimensione 
                    del commercio, in cui le cose sono strumenti subordinati ai 
                    suoi bisogni e ai suoi scopi (utilizzabilità). Ma può rappresentare 
                    anche l’atteggiamento del guardarle come semplice-presenza; 
                    è la dimensione della contemplazione, della conoscenza gratuita.
                    
                    L’ “avere cura degli altri”, invece, può significare, da una 
                    parte, sottrarre agli altri le loro cure, procurare loro delle 
                    cose: un “essere insieme”, cioè, in modo “inautentico”, e, 
                    dall’altra, aiutarli ad essere liberi di assumersi le loro 
                    cure, aprirli alla possibilità di trovare se stessi e di realizzare 
                    il proprio essere: un “coesistere” che costituisce la “vita 
                    autentica”. È evidente quali sono per Heidegger le vie che 
                    dobbiamo percorrere per darci una struttura interiore che 
                    ci permetta di situarci adeguatamente nel mondo.
                    
                    Se il linguaggio proviene ed è testimonianza dell’ “essere”, 
                    della radice profonda della realtà, come dice Heidegger, allora 
                    seguire gli stimoli delle parole e la struttura del linguaggio 
                    - come gli esempi sopra citati ci lasciano intravedere - significa 
                    avere la garanzia di camminare in un terreno in cui è possibile 
                    aprirsi ad un senso che riguarda noi e la realtà tutta, anche 
                    se comunque si tratta di un “compimento” mai esaustivo, cifra 
                    di un’umanità che strutturalmente sempre tende ad un “oltre”. 
                    Il sentire positivo - ancorché inquieto - dentro di noi è 
                    la garanzia del nostro stare affacciati a questa apertura. 
                    Detto altrimenti, sembra esserci una sintonia tra parola (linguaggio) 
                    e “destino” dell’uomo, quando il destino sia inteso come “cifra”, 
                    fine intrinseco ed essenziale, dell’uomo, ciò in cui 
                    l’uomo sente soddisfatto il senso della sua ricerca, della 
                    sua vita come ricerca, all’insegna di una libertà che è insieme 
                    responsabilità e rischio.
                    
                    Questo ci insegnano anche i Libri Sacri di tutte le culture, 
                    testi che non ci danno mai delle verità già ben chiare, definite, 
                    inequivocabili, ma piuttosto indicazioni di vie, tra mille 
                    contraddizioni, che talvolta si perdono in labirinti inestricabili 
                    da cui non sappiamo uscire. È un invito, questo, a conquistarci 
                    la verità, a costruircela pazientemente e con la sofferenza 
                    che spesso deriva dal nostro sentirci inadeguati al compito. 
                    Nessuno può sostituirsi a noi in questa responsabilità. Nessuno 
                    di noi dovrà mai dire: “Mi è stato detto di fare così!”, e 
                    scaricare su altri un compito che appartiene solo a noi, assumendocene 
                    i rischi.
                    
                    È la lezione che apprendiamo dal racconto del “peccato originale”. 
                    “Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi 
                    mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.” 
                    (Gen. 2, 17.) “Non morirete affatto!” - dice il serpente alla 
                    donna - “Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero 
                    i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene 
                    e il male.” (Gen. 3, 4-5.) La conoscenza, che nell’uomo deve 
                    avvenire come graduale conquista che lo trasforma facendolo 
                    evolvere verso forme sempre più profonde e sottili di consapevolezza, 
                    l’uomo ha avuto la presunzione di possederla tutta e immediatamente. 
                    Ora sappiamo che la conoscenza umana segue i ritmi del tempo 
                    ed è accompagnata sempre dalla “sofferenza” del dubbio e dell’insicurezza. 
                    Accettare di camminare in questa situazione di precarietà 
                    senza rinunciare mai a compiere il passo successivo ad ogni 
                    conquista, ci fa provare senz’altro la sensazione di stare 
                    pienamente nella vita, e di poterlo esprimere con la parola.
                    
                    È importante dunque educarci alla parola, che significa innanzitutto 
                    pronunciarla con responsabilità, dandole tutto il peso che 
                    essa porta con sé, coscienti della forza che essa ha di incidere 
                    su di noi e di conseguenza sul nostro atteggiamento nei confronti 
                    della realtà e degli altri; coscienti della sua strutturale 
                    potenzialità di darci quell’indirizzo che ci resterà sconosciuto, 
                    ma che in ogni caso ha il pregio di collocarci in noi stessi, 
                    nella contemporanea appartenenza alla realtà.
                    
                    C’è, forse, una parola che più di altre ci indica la strategia 
                    con cui rivolgerci a noi stessi, agli altri, alle cose, ed 
                    è la parola “benedizione”. “Bene-dire” significa dare riconoscimento 
                    al bene presente nelle persone e nelle cose, ricercarne la 
                    “forma” frammista alla ridondanza non essenziale e definirla 
                    con la chiarezza che lo sguardo disinteressato può cogliere. 
                    Se la parola che esce dallo sguardo dell’altro è “bene-dizione”, 
                    allora il nostro “dire” può fluire, sicuro di andare nella 
                    direzione giusta … anche se non sappiamo esattamente dove 
                    può portare; non preoccupato dalla presenza del “negativo”, 
                    al quale, in questo modo, viene a mancare della linfa di cui 
                    ha bisogno per alimentarsi, cioè della malafede. “Benedire” 
                    è infatti riconoscere l’intenzione retta delle azioni proprie 
                    e altrui. Affrontare la vita con questa predisposizione significa 
                    creare le condizioni perché si diffonda armonia in tutto ciò 
                    con cui ci relazioniamo.
                    
                    Il mito
                    
                    Dal momento che le varie culture che popolano questo nostro 
                    pianeta si sono in modo preferenziale espresse all’inizio 
                    attraverso i miti, come in parte abbiamo già visto, una riflessione 
                    su di essi ci farà scoprire ulteriori possibilità di senso 
                    e di ricerca; ci dirà i segni, gli indizi per una presa in 
                    carico della vita secondo le stesse modalità che man mano 
                    ci diventeranno chiare. E subito scopriremo come la vita trovi 
                    la strategia della sua dinamicità nella tensione tra posizioni 
                    opposte che contemporaneamente si richiamano e si respingono; 
                    ciò che dobbiamo perseguire non sta mai nell’ampliamento o 
                    nel “compimento” di una sola polarità, ma nel limitare la 
                    carica di espansione di un’idea tramite ciò che la condiziona, 
                    scoprendo in ciò che la condiziona la possibilità di espressione 
                    della sua essenza più profonda.
                    
                    Due miti del viaggio, metafora della vita, stanno alla base 
                    della nostra cultura, due miti speculari che ci indicano come 
                    solo il rimbalzare dall’uno all’altro possono dare consistenza 
                    a ciò che cerchiamo in termini di senso: Abramo che parte 
                    da “casa” per intraprendere un viaggio che non sa dove lo 
                    porterà, e Ulisse che viaggia, invece, per fare ritorno a 
                    casa. Il primo si muove nell’aspra essenzialità del deserto, 
                    per scoprire nell’essenzialità esteriore che il cammino porta, 
                    in definitiva, a se stessi, alla scoperta della propria identità 
                    individuale e sociale, a prescindere da un luogo di destinazione; 
                    il secondo tra le insidie del mare, per conquistare con l’intelligenza 
                    e la forza quella conoscenza che sarà capitalizzata, al ritorno 
                    a casa, come strumento per vincere il male, e quindi come 
                    virtù etica.
                    
                    La strutturazione del nostro ordine interiore è possibile 
                    solo se siamo capaci di guardare contemporaneamente a questi 
                    due messaggi, perché di entrambi abbiamo bisogno per collocarci 
                    nella complessità che ci costituisce. Ma ogni consapevolezza 
                    acquisita è solo una tappa. Così scopriamo, nella variante 
                    dantesca del viaggio di Ulisse, il bisogno che la conoscenza 
                    non sia slegata dal mondo degli affetti. Per questo Ulisse 
                    trova la morte oltre le Colonne d’Ercole, perché per la conoscenza 
                    ha sacrificato Itaca con tutti i suoi legami e sentimenti. 
                    Conoscenza e amore non possono essere separati senza costituire 
                    un “pericolo”; tanto è vero che in alcune lingue sono espressi 
                    dallo stesso termine. E questo è per noi un altro grande messaggio.
                    
                    Anche Mnemosine, che trasforma in modello sacro, fondativo 
                    della nostra vita, ciò che noi ricordiamo, fu affiancata da 
                    Lete, l’Oblio, affinché i dolori non fossero resi eterni: 
                    le due esperienze, della memoria e dell’oblio, erano ugualmente 
                    sacre e connesse con la sfera infera, luogo della non-vita, 
                    come comunemente viene inteso, o, forse, di un’ “esistenza” 
                    nel senso etimologico del termine, un “ex-sistere”, un “porsi 
                    fuori” dalla dimensione afferrabile dalla nostra conoscenza 
                    dove gli opposti sono ricomposti in unità. Un luogo di tenebre, 
                    interdetto alla “luce” della ragione, che solo il mito per 
                    altre vie può alluderci … e la garanzia ci è data dal fascino 
                    che il mito suscita in noi. Dalle sue indicazioni scopriamo 
                    la sintonia di un senso, di un’armonia che da sempre ci appartiene, 
                    nascosta da quell’ “unità” insondabile che ci fonda e ci fonde 
                    con l’universo senza confonderci con esso. Che cosa può essere 
                    altrimenti quella che noi chiamiamo bellezza se non la rivelazione 
                    di questa “fusione”, o, almeno, di una “corrispondenza”, di 
                    una adesione delle nostre forme alle forme della realtà che 
                    ci sostiene e su cui poggiamo il nostro peso orientandoci. 
                    Ecco lo specchio del nostro orientamento interiore.
                    
                    E alla luce del “ricordo” possiamo leggere anche il racconto 
                    di Orfeo ed Euridice. Col suo canto e la sua musica Orfeo 
                    riesce a convincere Ade, il re degli inferi, a restituirgli 
                    la moglie Euridice, morta anzitempo per il morso di un serpente. 
                    Ade acconsente, ma pone una condizione: Orfeo non deve girarsi 
                    indietro finché Euridice non sia giunta alla luce del sole. 
                    Euridice segue Orfeo per l’oscura voragine, guidata dal suono 
                    della sua lira. Ma appena giunge alla luce del sole, Orfeo 
                    si volge per vedere se Euridice è con lui e così la perde 
                    per sempre. “Moriva per la seconda volta - dice Ovidio - ma 
                    non emise un rimprovero nei confronti del suo consorte.” (Metamorfosi, 
                    X, 60 - 63)
                    
                    Quale contributo può dare questo mito alla “definizione” di 
                    ciò che ci appartiene come valore intrinseco? Uno stimolo 
                    possiamo riceverlo proprio dal fatto che Euridice non rimprovera 
                    Orfeo per la sua “debolezza”: il ricordo delle cose passate 
                    non deve indurci a desiderare di ripeterle; esse esprimono 
                    tutta la forza del loro valore proprio come “ricordo”, perché 
                    la vita deve continuare andando oltre il ricordo, creando 
                    nuove vie a partire da ciò che quel ricordo ha fondato. Un 
                    monito alla nostra nostalgia, se essa ci ancora al passato 
                    piuttosto che darci lo slancio verso qualcosa che ancora non 
                    conosciamo.
                    
                    Ma possiamo prendere anche qualcos’altro da questo mito. Dopo 
                    la morte di Orfeo ad opera delle Menadi, Baccanti al seguito 
                    di Dioniso - il dio dei sensi - che aveva voluto l’uccisione 
                    di Orfeo per la sua devozione ad Apollo - il dio dell’intelletto 
                    - la sua testa fu gettata nel fiume Ebro insieme alla sua 
                    lira. La testa arrivò al tempio di Dioniso, mentre la lira 
                    arrivò al tempio di Apollo. Ritorna il tema degli opposti: 
                    i sensi (Dioniso) hanno bisogno dell’intelletto per acquisire 
                    “significato”, cioè per andare oltre se stessi, mentre l’intelletto 
                    (Apollo) ha bisogno dei sensi per “ancorarsi” nel corpo e 
                    nelle cose. L’uno richiede l’appoggio dell’altro. Secondo 
                    quest’ottica dobbiamo guardare agli aspetti, talvolta opposti, 
                    che ci costituiscono … per ascendere a livelli più alti di 
                    entrambi attraverso lo sforzo di conciliarli.
                    
                    E riferendoci al mito di Narciso, vediamo che egli, morto 
                    nella contemplazione della sua immagine, viene trasformato 
                    nel fiore che porta il suo nome, un fiore bellissimo … che, 
                    però, non sa la sua bellezza. Non poteva essere che questo 
                    il destino di Narciso, il giovane bellissimo che non “cresceva” 
                    perché non conosceva la sua “ombra”. E allora, scoprire di 
                    poter ritrovare nelle nostre zone oscure, sconosciute, inquietanti 
                    … ritrovare nel loro “riconoscimento” la radice della nostra 
                    consapevolezza, questo è il servizio più sacro che noi possiamo 
                    fare alla nostra vita. Sono le nostre parti “straniere” quelle 
                    che ci incuriosiscono, che ci permettono di volgere lo sguardo 
                    altrove, quelle, in definitiva, che ci mettono in cammino; 
                    sono esse che, mettendoci in discussione, ci fanno percepire 
                    per contrasto, la “luce” di cui siamo portatori … Strutturarci 
                    interiormente può significare, dunque, vedere nell’ “ombra” 
                    lo strumento, e nella “luce” il fine che dà “senso” al nostro 
                    muoverci nella vita. Così l’ “errore” che nasce dall’ “ombra” 
                    ci permette di passare dalla situazione di “erranti” alla 
                    situazione di “itineranti”, di persone che stanno seguendo 
                    una traccia, una via che conduce da qualche parte, anche se 
                    non ci è dato arrivare, perché, probabilmente, la nostra unità 
                    interiore consiste proprio nella consapevolezza di dover fare 
                    un tratto di strada e poi … passare il testimone.
                    
                    Ritornando ad Abramo, allora, possiamo cogliere un’altra stimolazione: 
                    egli era partito su “ordine” di Dio, ma non sapeva dove doveva 
                    andare; aveva solo una vaga prospettiva: “Esci dalla tua terra 
                    (…) verso la terra che io ti mostrerò.” (Gen. 12.1.) Era quello 
                    un invito a fare attenzione ai “segni”; ai segni che Dio, 
                    di volta in volta, gli avrebbe mandato. Che cosa dice questo 
                    a noi? Forse qualcosa di estremamente liberatorio: non voler 
                    progettare la nostra vita in base a desideri, molto spesso 
                    indotti da esperienze altrui, quanto piuttosto cogliere nella 
                    nostra vita le indicazioni che riguardano la nostra autenticità 
                    più profonda, quella che sentiamo stimolata dai fatti che 
                    ci troviamo a fronteggiare, frutto delle nostre decisioni, 
                    ma anche della realtà che non dipende da noi. Deve essere 
                    nostra cura trovare l’equilibrio tra queste due dimensioni, 
                    attenti agli avvenimenti, senza accanirci a perseguire rigidamente 
                    obiettivi che possono alla lunga rivelarsi fuorvianti. Essere 
                    nell’atteggiamento di chi ha la pazienza di costruire giorno 
                    per giorno, in base alle esperienze che si trova a fare, le 
                    tappe di un percorso che solo nella lunga durata può rivelare 
                    il suo valore, significa vivere l’esperienza del sentirci 
                    ospiti dell’esistenza che continuamente si costruisce in noi. 
                    In quest’ottica possiamo sentirci liberi dal “dovere” di progettare, 
                    e di liberarci dal senso di frustrazione che il non raggiungimento 
                    degli obiettivi sempre ci procura. Anzi, il sentirci deviati 
                    rispetto al nostro scopo potrebbe rivelarsi un’opportunità 
                    preziosa. È la proposta che ci fa anche il racconto della 
                    Bhagavadgita [3]: “Tu sei 
                    competente ad agire, ma non a godere del frutto dei tuoi atti. 
                    Non prendere mai come movente il frutto della tua azione.” 
                    (Bhagavadgita, II, 39)
                    
                    Si tratta, in definitiva, di passare da un “vuoto” sentito 
                    come “assenza” [di un progetto] ad un “vuoto” vissuto come 
                    “attesa” … di ciò che non ha ancora un nome e che, perciò, 
                    è assolutamente inedito, cioè, impensabile; “attesa” in senso 
                    forte, dunque, non “aspettativa”, che, in quanto tale, conosciamo 
                    già. In una prospettiva più sociale si colloca, invece, il 
                    mito di Prometeo, quale ci viene proposto da Platone nel suo 
                    Protagora. Seguiamolo in un riassunto di Giovanni Fornero: 
                    “Quando gli Dèi ebbero plasmato le stirpi animali, incaricarono 
                    Prometeo (Pro+métis = il preveggente) ed Epimeteo (Epì+métis 
                    = l’imprevidente) di distribuire ad esse le facoltà di cui 
                    ciascuna stirpe conveniva che fosse dotata per poter sopravvivere. 
                    Epimeteo fece la distribuzione. Assegnò ad alcuni animali 
                    la forza senza la velocità, ad altri, i più deboli, assegnò 
                    la velocità perché potessero salvarsi con la fuga di fronte 
                    ai pericoli; ad altri dette mezzi di difesa e di offesa o 
                    altra capacità che rendesse possibile la loro conservazione. 
                    Agli animali più piccoli dette la possibilità di fuggire con 
                    le ali o di nascondersi sotto terra. A quelli più grandi, 
                    dette, appunto con la grandezza, il modo di conservarsi. E 
                    così distribuendo ad ognuno una facoltà appropriata, fece 
                    in modo da evitare che qualche razza si spegnesse. Distribuì 
                    inoltre spesse pelli e pellicce per difendere gli animali 
                    contro il freddo invernale e i calori estivi. E procurò ad 
                    ogni specie animale un cibo diverso: o le erbe, o i frutti 
                    degli alberi, o le radici, o, ad alcuni animali, la carne 
                    degli altri animali. Ai carnivori tuttavia assegnò prole poco 
                    numerosa, mentre dette una prole abbondante alle loro vittime 
                    in modo da garantire la conservazione delle loro specie. Ora 
                    Epimeteo, che non era abbastanza saggio, non si accorse di 
                    aver distribuite tutte le facoltà agli animali irragionevoli: 
                    il genere umano rimaneva ancora sfornito di tutto e Prometeo, 
                    che intervenne ad esaminare la distribuzione fatta da Epimeteo, 
                    vide che mentre tutti gli altri animali erano attrezzati convenientemente 
                    per la loro conservazione, l’uomo era nudo, scalzo, indifeso 
                    e inerme. Fu allora che Prometeo pensò di rubare ad Efesto 
                    e ad Atena il fuoco e l’abilità meccanica e di farne dono 
                    all’uomo. Con l’abilità meccanica e con il fuoco l’uomo fu 
                    così in grado di procurarsi la protezione, la difesa, le armi 
                    e gli strumenti per procurarsi il cibo, dei quali l’incauta 
                    distribuzione di Epimeteo l’aveva lasciato privo.
                    
                    Mediante l’abilità meccanica e il fuoco l’uomo poté inventare 
                    le case, le calzature, gl’indumenti, nonché gli strumenti 
                    e le armi per procurarsi il cibo. Cominciò anche ad articolare 
                    la voce con arte in modo da formarne parole e nomi. E fu anche 
                    il solo essere mortale che, in quanto partecipe di un’abilità 
                    divina, onorò gli dèi e costruì altari e immagini sacre. Ma 
                    tutto ciò non bastava ancora a garantire la vita degli uomini 
                    perché essi vivevano dispersi e non erano in grado di combattere 
                    le fiere. Cercavano bensì di riunirsi e di fondare città per 
                    difendersi; ma quando si riunivano, non possedendo l’arte 
                    politica, cioè l’arte di vivere insieme, si facevano torto 
                    a vicenda e quindi di nuovo si disperdevano e perivano. Dovette 
                    allora intervenire Zeus e salvare per la seconda volta il 
                    genere umano dalla dispersione: egli mandò Hermes a portare 
                    fra gli uomini il rispetto reciproco e la giustizia affinché 
                    fossero principi ordinatori delle comunità e creassero presso 
                    i cittadini vincoli di solidarietà e di benevolenza. E a differenza 
                    delle arti meccaniche che non furono date a tutti, giacché, 
                    per esempio, un sol medico basta a molti profani, Zeus stabilì 
                    che tutti partecipassero dell’arte politica, cioè del rispetto 
                    reciproco e della giustizia, e che coloro che si rifiutassero 
                    di parteciparne fossero allontanati dalla comunità umana od 
                    uccisi.” (Cfr. Abbagnano, Foriero, 2000, p. 115)
                    
                    È importante che ogni uomo strutturi il suo mondo interiore 
                    in base ai suddetti principi, la garanzia del cui “valore” 
                     [4] è data dal fatto che 
                    la realizzazione di sé ha maggiori possibilità di compiutezza 
                    se c’è il contributo dell’attenzione e del contributo “rispettoso” 
                    dell’altro. Che è come dire: “Se qualcuno mi dà una mano io 
                    posso essere e fare di più di quello che potrei essere e fare 
                    da solo.” Il motto latino “Alterius sic alter poscit opem” 
                    [“Così l’uno richiede l’appoggio dell’altro”] lo conferma. 
                    In questo senso vanno, appunto, i significati etimologici 
                    di “competizione” [raggiungere insieme] e di “concorrenza”[correre 
                    insieme], come abbiamo già visto.
                    
                    La prosecuzione del mito, che Eschilo ci presenta nel Prometeo 
                    incatenato, ci dice inoltre, in sintonia con molte altre testimonianze 
                    della nostra cultura occidentale e non solo, che la sofferenza 
                    crea conoscenza … e anche questa è una “provocazione” da mettere 
                    in conto nella nostra ricerca di senso. Riconciliarci con 
                    la sofferenza rappresenta senz’altro il compito di una vita. 
                    Soprattutto se riguarda quella sofferenza estrema che è la 
                    morte.
                    
                    E concludiamo con un cenno al mito di Antigone, sorella di 
                    Eteocle e Polinice. Quando i due fratelli muoiono nel duello 
                    che li opponeva l’uno all’altro, Antigone infrange il divieto, 
                    imposto dal tiranno Creonte, loro zio, di dare sepoltura al 
                    corpo di Polinice e sparge sul cadavere una manciata di polvere, 
                    gesto rituale sufficiente ad assolvere l’obbligo religioso. 
                    Per questo atto di pietà viene condannata a morte da Creonte 
                    e rinchiusa viva in fondo ad una caverna scavata nella rupe. 
                    Antigone s’impicca nella prigione, ed Emone, il suo fidanzato, 
                    figlio di Creonte, si uccide sul suo cadavere.
                    
                    Al di là del concetto che ci sono “leggi non scritte, inalterabili, 
                    fisse degli dei, quelle che non da oggi, non da ieri vivono, 
                    ma eterne, quelle che nessuno sa quando comparvero” (Sofocle, 
                    Antigone, Episodio II), e che nessun mortale può sovvertire, 
                    volevo cogliere un’indicazione più generale che può aiutarci 
                    ad una maggiore chiarezza dentro di noi, e, di conseguenza, 
                    nel nostro rapporto con la realtà. Ci sono dimensioni, che 
                    sfuggono alla nostra logica, nei confronti delle quali dobbiamo 
                    sentirci in perenne ricerca - ricerca supportata anche da 
                    tutta la cultura che si è sedimentata attraverso i secoli 
                    nelle parole, nei miti, nella poesia nella riflessione filosofica 
                    - perchè la continua re-interpretazione alla luce del presente 
                    ci permette di andare oltre il presente e tracciare nuovi 
                    cammini da sperimentare. Restando, però, sempre in allerta 
                    perché “il male sembra un bene all’uomo quando un dio gli 
                    vuole oscurare la mente: allora è breve il tempo che precede 
                    la rovina.” (Sofocle, Antigone, Stasimo II, Antistrofe II)
                    
                    Conclusione
                    
                    La nostra conoscenza è possibile solo attraverso la separazione 
                    degli opposti, ma la nostra strutturazione interiore è possibile 
                    solo tramite la loro simultanea considerazione, solo tramite 
                    una ricomposizione armonica che li superi entrambi in una 
                    sintesi che diventa piena consapevolezza. Finché gli opposti 
                    restano separati non sono possibili né verità, né giustizia, 
                    né “coscienza”. Tra Ulisse, ad esempio, che viaggia in vista 
                    del ritorno a casa, e Abramo, che cammina per il deserto senza 
                    conoscere la meta, noi non dobbiamo scegliere, ma comprendere 
                    innanzitutto che in ognuno di noi c’è un po’ dell’uno e un 
                    po’ dell’altro; spetta a noi poi vedere quando è il tempo 
                    di essere Ulisse e quando è il tempo di essere Abramo. In 
                    ogni caso, quando viviamo l’uno dobbiamo aver ben presente 
                    l’esistenza in noi dell’altro, perché questa, come abbiamo 
                    già detto, è la fonte della consapevolezza.
                    
                    Ognuno è invitato a soffermarsi sui miti che conosce, a cercarne 
                    altri, lasciarsi interrogare e abbandonarsi alla ricerca di 
                    risposte, fiducioso che proprio nella ricerca può emergere 
                    la “mappa” più confacente al suo mondo interiore. Quello che 
                    ho esposto è il risultato - parziale e non definitivo - della 
                    mia riflessione, che propongo come esempio e come contributo 
                    per un confronto, convinto che ognuno nasconda in sé tracce 
                    di una verità che lentamente si va costruendo. Già questa 
                    convinzione darebbe un grosso contributo alla unità del nostro 
                    mondo interiore, il quale, nel suo rapporto con la realtà 
                    esterna può scoprire ciò che lo caratterizza; una conoscenza 
                    di sé che risponde alla domanda fondamentale che ogni uomo 
                    si fa. Solo da qui può iniziare quella valorizzazione di sé 
                    e degli altri che ci porta a vivere la libertà come espressione 
                    autentica di sé in cui il “modello” del proprio mondo interiore 
                    trova una risonanza nel mondo esteriore.
                    
                    L’analisi proposta è necessariamente parziale … e c’è un “oltre” 
                    in questo scritto, che si può sperimentare solo come “sentire” 
                    inafferrabile dal pensiero, perché il “tutto” del mito e della 
                    parola non si può razionalizzare in maniera compiuta e immediata; 
                    si lascia scoprire solo molto lentamente, creando coscienza 
                    … e derivando da quella stessa coscienza che crea!
                    
                    
                    NOTE
                    
                    1] Ricordo che in origine 
                    i marinai qualificavano come opportunus il vento che tirava 
                    nella direzione del porto!
                    2] Cfr. in proposito J. L. 
                    Borges, Una preghiera: “Ignoriamo i destini dell’universo, 
                    ma sappiamo che ragionare con lucidità e operare con giustizia 
                    è aiutare quei disegni, che non ci saranno rivelati.”
                    3] Libro sacro dell’Induismo, 
                    in cui il beato Krisna spinge l’eroe Arjuna a compiere il 
                    suo dovere di casta insegnandogli la dottrina dell’azione 
                    disinteressata. È, in sostanza un’esposizione delle diverse 
                    vie indù di liberazione.
                    4] Definiamo come “valore” 
                    ciò che non rimanda a nient’altro per caratterizzarsi, ciò 
                    che contiene in sé stesso tutti gli elementi per proporsi, 
                    ciò che non fa riferimento a nient’altro per definirsi. Particolarmente 
                    significativo per una maggiore interiorizzazione di questo 
                    concetto è il seguente brano di Italo Calvino: “Dalla profonda 
                    distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un 
                    ammicco: una cosa si stacca delle altre cose con l’intenzione 
                    di significare qualcosa … che cosa? Se stessa; una cosa è 
                    contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è 
                    convinta di significare se stessa e nient’altro, in mezzo 
                    a cose che significano se stesse e nient’altro.” (I. Calvino, 
                    Palomar, Torino 1983, p. 117)
                    
                    
                    BIBLIOGRAFIA
                    
                    E. Lévinas, Totalità e infinito, Milano, Jaca Book, 2000.
                    N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, 
                    vol. A, Tomo 1, Milano, Paravia, Milano 2000.
 
      
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