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  • La narrazione e l'empowerment
    Federico Batini (a cura di)

    M@gm@ vol.4 n.3 Luglio-Settembre 2006

    IO RACCONTO, TU RACCONTI, EGLI RACCONTA: due esempi di 'percorsi' narrativi dell'identità


    Alessandra Micalizzi

    alessandra.micalizzi@iulm.it
    Dottoranda in Comunicazione e Nuove tecnologie (XX ciclo) presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM; Collabora a attualmente con l’Istituto di Comunicazione della stessa Università.

    Valentina Orsucci

    valentina.orsucci@iulm.it
    Dottoranda in Comunicazione e Nuove tecnologie (XX ciclo) presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM; Collabora attualmente con l’Istituto di Comunicazione della stessa Università.

    Elisabetta Risi

    elisabetta.risi@unimib.it
    Dottoranda di ricerca ‘QUA_SI’ - 'Tecnologie per la comunicazione e l'informazione applicate alla società della conoscenza e ai processi educativi’ presso l’Università degli studi di Milano – Bicocca, dove si occupa in particolare di digital divide; Collabora a progetti di ricerca dell’Istituto di Comunicazione dell’Università IULM di Milano.

    1. Raccontare e raccontarsi per esistere

    Le teorie socio-psicologiche di impronta post-modernista sottolineano la relazione esistente tra le fragilità e le contraddizioni del nostro tempo e la crisi dell’identità dell’uomo contemporaneo (Crespi, 2004), caratterizzata dalla frammentazione, dalla saturazione e dall’instabilità (Gergen, 1973; Bauman, 1991). La complessità sociale, la vorticosa accelerazione del cambiamento e la mancata aderenza ad un progetto comunitario condiviso, hanno generato nell’uomo contemporaneo dei meccanismi di difesa orientati più a comportamenti narcisisti-egoistici e all’isolamento che ad atteggiamenti pro-attivi di partecipazione sociale e politica (Crespi, 2004).

    L’unicità riconosciuta al proprio sé viene a sgretolarsi sotto i colpi di un’epoca in cui il sovraccarico di relazioni e di stimoli genera un processo di saturazione sociale (Gergen, 1991) che “corrode l’idea di un sé individuale, ne disperde l’essenza, lo decentra e lo scompone, producendo una molteplicità di voci dissonanti che mettono in dubbio” le certezze accumulate lungo la propria esistenza (Poggio, 2004, p. 50).

    È la crisi delle grandi narrazioni di Lyotard (1978) a indurre la riscoperta dei micro-cosmi interiori, dell’intimità delle singole storie individuali e a porre nuovamente al centro il ‘valore narrativo’ della propria storia da riscoprire, rinarrandola a se stessi e agli altri.

    Questo percorso intimo e insieme relazionale di messa in discorso del proprio sé muove i suoi passi dal desiderio di ripercorrere, attraverso la memoria autobiografica (Marsala, 2003), le tracce della propria esistenza partendo proprio dai ricordi e dall’immagine che in essi lentamente si delinea attraverso l’oggettivazione narrativa. Da un lato quindi alla memoria personale è riservato il compito di custodire le fasi della propria vita e i momenti salienti che rappresentano l’espressione della nostra identità, dall’altro la narrazione diventa la forma essenziale per l’oggettivazione di questa immagine interiore, per la sua socializzazione e il confronto con quelle che gli altri ci restituiscono.

    Nelle pagine che seguono, cercheremo di approfondire, per quanto possibile, il valore della narrazione nel processo di costruzione identitaria al fine di introdurre due ricerche empiriche: la prima incentrata sull’uso del metodo narrativo nella ricostruzione delle storie di vita di tossicodipendenti, la seconda volta a sottolineare il carattere formativo degli aneddoti che caratterizzano la vita familiare di più generazioni.

    2. Narrare è…

    Il ‘paradigma narrativo’ fonda le sue radici nello sforzo comune di molte delle discipline delle scienze umane come l’epistemologia, l’antropologia, la storia, la paleontologia, la sociologia e la psicologia che hanno progressivamente riconosciuto l’importanza del concetto di narrazione: “le storie, siano queste costruite dallo scienziato che dalla persona comune, sono apparse come modi ‘universali’ per attribuire e trasmettere significati circa gli eventi umani” (Smorti, 1997 p. 10).

    La narrazione non rappresenta infatti esclusivamente una modalità linguistica della messa in discorso di certi contenuti sulla base di regole e di strutture prestabilite. Come ci hanno dimostrato diversi studiosi (Bruner, Shank, etc.), la nostra mente segue una struttura narrativa che costituisce, accanto al sistema logico formale, lo schema cognitivo alla base dei nostri processi di memorizzazione e organizzazione della conoscenza. Detto in altro modo, le storie costituiscono “il sistema più efficiente per rappresentare, interpretare e memorizzare sequenze complesse e coordinate di azioni messe in atto da soggetti dotati di intenzionalità” (Di Fraia, 2004, p. 32).

    Ma le storie non sono semplicemente un ‘fatto cognitivo’. Esse sono state definite anche la moneta di scambio di ogni cultura (Bruner, 1990), lo strumento più semplice e più diffuso per la trasmissione della conoscenza condivisa, di ciò che permette di sentirci parte di una comunità. E la testimonianza dell’importanza delle storie nella formazione dei legami comunitari è rappresentata dalla ricchezza del patrimonio narrativo delle società tradizionali, dove le storie costituivano l’unico canale di trasmissione della conoscenza: “la narrazione è in un certo senso connaturata all’uomo, non si ha testimonianza di civiltà che non hanno utilizzato la narrazione, essa traversa le culture, le epoche, i luoghi, è presente da sempre e, forse, sarà sempre presente, si potrebbe dire che con il nascere della socialità, della relazione interumana è nata la narrazione ed insieme alla relazionalità stessa è l'unico elemento da sempre presente” (Batini, 2000).

    Ancora, le narrazioni condivise svolgono l’importante funzione di conservazione del patrimonio comunitario proprio grazie alla perpetuazione nel tempo attraverso l’atto del raccontare agli altri. Infine, non possiamo dimenticare il carattere pedagogico da sempre delegato alle storie siano esse aneddoti semantizzati o semplice frutto della fantasia (si pensi alle favole della tradizione popolare e ancor prima al ruolo svolto dai miti nelle civiltà del passato).

    Le due ricerche che prenderemo in considerazione nelle pagine successive, in realtà, focalizzano l’attenzione su un particolare tipo di storie, definite dalla Sommers (1992), storie ontologiche, ovvero quelle narrazioni “che gli attori usano per dare senso alle proprie vite, (che) sono finalizzate all’azione e alla base della costruzione dell’identità” (Smorti, 2000, p. 11).

    In modo particolare, i due studi, che di seguito proponiamo, focalizzano su dimensioni diverse dell’identità messa in discorso attraverso la narrazione e quindi sottolineano funzioni formative differenti. La pedagogia narrativa sottolinea, infatti, la stretta relazione tra formazione e racconto, non solo in veste strumentale, ma anche come ‘soggetto’ della formazione, specificando che “ogni processo formativo è di per sé narrativo” (Batini, 2000): la relazione narrativa che si instaura tra narratore e ascoltatore genera uno scambio dialogico di negoziazione del proprio sé, fondamentale per qualsiasi percorso di formazione e di empowerment.

    Mentre attraverso la condivisione di aneddoti familiari possiamo rintracciare i tratti della nostra identità sociale (Crespi, 2004), ovvero di ciò che siamo agli occhi degli altri, la ricostruzione della propria storia di vita è certamente un processo più intimo, volto a dare voce al proprio io. Sono tuttavia entrambi modi per prendere le distanze da se stessi oggettivati nel testo della propria storia. Se dovessimo utilizzare le parole di Bruner (1990), potremmo dire che attraverso le storie degli altri è possibile ricomporre i numerosi frammenti del ‘sé distribuito’, presente “in quei pezzi di mondo che la narrazione si incarica di portare ‘dentro’ al soggetto” (Smorti, 2000, p. 31).

    Le storie condivise assumono quindi un’importante funzione di verifica e di confronto della propria immagine attraverso gli occhi dell’altro: essere nel mondo significa essere esposto agli sguardi degli altri che ci restituiscono la nostra immagine attraverso il racconto (Cavarero, 2001).

    Raccontare di se stessi agli altri ha invece una funzione differente. Narrare la propria storia vuol dire dare voce ad un “io tessitore, che connette, intreccia, costruisce e satura, ma soprattutto si muove alla ricerca del senso della vita” (Poggio, 2004). Parlare di sé al mondo è un modo per condividere il lavorìo continuo che caratterizza la dinamicità del nostro self.

    Del racconto autobiografico possiamo individuare alcune caratteristiche. Innanzitutto si tratta di un ‘atto intenzionale’ (Demetrio, 2005) perché, come abbiamo già detto, si concretizza sotto le azioni dell’io che opera, tessendo le trame della sua storia, una ‘selezione’ tra gli accadimenti che hanno segnato la sua esistenza. In questo senso, oltre ad essere frutto di una ‘costruzione’ la narrazione autobiografica è anche un atto creativo che ‘genera’ appunto uno degli spazi possibili dell’esposizione del self: l’avere affidato al racconto, sia esso orale che scritto, immagini del vivere, del fare e del pensare, ci restituisce “solo alcuni indizi della nostra vita trascorsa o in divenire e di quel che riteniamo di essere nell’atto di esporci o di essere stati” (Demetrio, 2005, p. 43).

    Ancora, alla narrazione autobiografica, va riconosciuta una funzione formativa e, possiamo dire esistenziale: raccontare di sé vuol dire innanzitutto dare ordine al disordine interiore dell’esistenza (Olagnero, 2004), oggettivare, sistematizzandole, parti dell’identità continuamente in fieri, fino al nostro ultimo giorno.

    Solo la narrazione può fornire “continuità alla nostra esperienza di noi” (Poggio, 2004, p. 56) perché “è un processo di sviluppo nel tempo che (…) collega insieme un inizio e una fine” (Brockmeier, 1997, p. 82).

    Per concludere, la narrazione, come qualsiasi altra forma del racconto, è soprattutto un atto esplicativo: (come ci suggerisce Battacchi, 1997), narrare è innanzitutto ‘spiegare’. Utilizzando il significato più esteso di questo termine è possibile concludere questa parte introduttiva sottolineando il ruolo principale della narrazione, che è proprio quello di ‘capire il senso’ dell’esistenza che si dispiega nel racconto: l’attività ordinatrice della narrazione permetterebbe così di distendere i nodi e gli intrecci della matassa per recuperare anche il ‘senso’ dell’inizio e della fine.

    3. “Percorsi di tossicodipendenze”

    3.1 Obiettivo della ricerca

    La ricerca qui presentata rappresenta un tentativo di applicazione del metodo narrativo nello studio di percorsi biografici di tossicodipendenze.

    Obiettivo principale del lavoro era quello di capire come i soggetti dipendenti da sostanze stupefacenti “testualizzassero” la propria storia (Batini, 2002, p. 16), organizzando una narrazione lineare, coerente e significativa a partire da esperienze destrutturate e devianti quali sono per loro stessa natura le esperienze di dipendenza (cfr, ad esempio, Ravenna, 1997).

    Se la funzione principale della narrazione autobiografica è quella di re-interpretare il proprio vissuto a partire dal presente, costruendo una trama coerente e consequenziale (cfr, fra gli altri, Batini, 2002; Bruner, 2002; Demetrio, 1996; Di Fraia, 2004), ci siamo chiesti se e attraverso quali strategie narrative anche soggetti dalle identità fragili e dalle storie di vita inevitabilmente complesse potessero, attraverso il racconto, costruire storie ‘buone’.

    Il presente a partire dal quale ci si racconta rappresenta il punto di vista della narrazione, il criterio attraverso cui si selezionano gli elementi da includere nella trama, il senso della stessa, e il progetto biografico che sottende ad essa e orienta il proprio futuro (Smorti, 1994 e 1997).

    A partire da questa considerazione, nel nostro studio abbiamo provato a ricostruire gli strumenti narrativi che i soggetti hanno adottato da un lato per contestualizzare e giustificare le scelte che li hanno portati ad essere ciò che sono, e dall’altro per immaginare il proseguimento della propria storia a partire dal presente costruito attraverso la narrazione.

    Il racconto del proprio passato, dunque, come punto di partenza per spiegare il proprio presente e per scegliere il proprio futuro.

    3.2 Metodologia e campione

    La ricerca è stata condotta su un campione costituito da 15 soggetti maschi, suddivisi in tre gruppi composti, rispettivamente, da 5 tossicodipendenti da eroina, da 5 utilizzatori non dipendenti [2] di diverse sostanze stupefacenti, e da 5 non utilizzatori di droghe (quest’ultimo avente funzione di gruppo di controllo). La distinzione dei gruppi ha consentito, in fase di analisi, di ricondurre le differenze all’intensità della presenza della sostanza nella biografia del soggetto, per comprendere il ruolo della dipendenza nello sviluppo identitario.

    Applicando i presupposti del paradigma narrativo, secondo cui le narrazioni rappresentano la più naturale forma cognitiva attraverso la quale gli individui rappresentano agli altri e a sé stessi la propria vita (Bruner, 1990; Di Fraia, 2004; Scheibe, 1996; Somers, 1994), abbiamo messo a punto uno strumento di ricerca che enfatizzasse le potenzialità della narrazione autobiografica.

    Seguendo la proposta di Mc Adams (1993) abbiamo chiesto agli intervistati di immaginare e di raccontare il ‘libro’ della storia della propria vita. Costruita interamente su questa metafora narrativa, la traccia dell’intervista ricalcava la struttura della più classica scheda di analisi del contenuto letterario. Abbiamo cioè chiesto agli intervistati di immaginarsi il numero e il contenuto di ciascun capitolo nel quale questo libro metaforico è suddiviso, di attribuire un titolo ad ogni capitolo e all’intero testo, di individuare e descrivere i personaggi in esso coinvolti, i punti di svolta della trama, il genere narrativo al quale può essere ricondotto ecc…

    Questo ha permesso di rendere espliciti, narrativamente, i meccanismi di generazione di senso, le strategie di giustificazione del proprio passato, i processi causali degli eventi riportati ecc…

    In secondo luogo, abbiamo chiesto ai soggetti di immaginarsi, ancora in chiave narrativa, il proseguimento della propria storia, in termini di direzione e soprattutto di scelte di orientamento, proprio per cercare di comprendere la ‘linea rossa’ del racconto (Demetrio, 1996), e il meccanismo principale alla base delle decisioni e, conseguentemente, delle giustificazioni al proprio passato.

    La ricerca qui presentata è di tipo conoscitivo e descrittivo. Lo stesso metodo, comunque, è quello applicato dalla Comunità di recupero dove sono stati reclutati gli intervistati per progettare e attuare l’intervento sui ragazzi ospiti.

    3.4 L’analisi del materiale

    Attraverso il racconto del proprio libro di vita, gli intervistati sono riusciti ad osservarsi da un punto di vista quasi esterno, oggettivizzando la propria storia e ri-conoscendola con occhi nuovi.

    Anche noi abbiamo voluto analizzare le interviste narrative raccolte cercando di mantenere e replicare questa distanza fra il soggetto e la storia raccontata, traducendo tale relazione in quella intercorrente fra un autore e il proprio romanzo. In altre parole, sostenendo anche in questa fase della ricerca la metafora narrativa alla base del metodo messo a punto, abbiamo analizzato le storie di vita raccolte proprio come fossero dei libri, nei quali è certamente più immediato riconoscere una progettualità e una linea di sviluppo a partire dall’analisi degli elementi testuali e della loro contestualizzazione.

    Abbiamo pertanto studiato il materiale raccolto attraverso l’individuazione e l’analisi degli elementi strutturanti la composizione pentadica delle storie, secondo la proposta di Bruner (1998): attore, azione, scena, scopo e strumento. Per ciascuna di queste categorie, e per quelle da noi aggiunte, abbiamo effettuato un’analisi prevalentemente formale, riflettendo sui punti che seguono.

    Categoria   Tipo di analisi
         
    L’azione
    (qui declinata sotto forma di trama)
      Capitoli e criterio di suddivisone degli stessi, rapporto fra essi, struttura dell’intreccio
         
    L’attore
    (il protagonista)
      Strategie di presentazione e di costruzione del personaggio, meccanismi di giustificazione, strumenti di riconoscimento e di differenziazione, modelli identitari presenti
         
    I personaggi   Identità e provenienza dei personaggi citati, analisi del loro ruolo nella storia
         
    L’antagonista   Se presente, individuazione della sua identità e del ruolo nei confronti del protagonista
         
    La scena
    (intesa come ambientazione)
      Individuazione e ruolo del contesto per lo svolgimento della trama
         
    Lo strumento
    (qui le sostanze stupefacenti)
      Rapporto fra protagonista e strumento, decisività per lo svolgersi della trama, significato attribuitogli e funzione all’interno del racconto
         
    Lo scopo   Obiettivo dell’azione e della trama nel suo insieme, sviluppo biografico futuro


    3.5 Principali risultati della ricerca

    I soggetti tossicodipendenti al momento dell’intervista si trovavano in una Comunità di recupero da almeno 6 mesi: il presente alla luce del quale si raccontano, e quindi il traguardo della storia, consiste proprio nell’ingresso in Comunità, che rappresenta uno spartiacque fra il passato e il futuro. E’ probabilmente per questo che, da un punto di vista contenutistico, la trama di questi racconti è interamente centrata sulla storia tossicologica: dalle storie raccolte è escluso qualunque elemento non funzionale a spiegare il rapporto del protagonista con la sostanza. Non a caso, il criterio utilizzato per suddividere la trama in capitoli è proprio il tipo di droghe assunto (il periodo dell’avvicinamento alla marijuana, quello della cocaina, quello della stabilizzazione della dipendenza da eroina ecc…).

    Dal punto di vista del protagonista, in questi racconti la costruzione dell’identità sembra essere un processo esclusivamente narrativo. Il soggetto, cioè, non ha esattamente raccontato le intenzioni e le motivazioni del protagonista della storia, ma gliele ha piuttosto attribuite a ‘posteriori’, durante la narrazione. Il racconto, quindi, è stato la maggior parte delle volte l’attribuzione di una spiegazione ad un comportamento, assente nel momento in cui accadeva a causa dello stato di perenne incoscienza del protagonista. Spesso, la causa di certi comportamenti viene attribuita al di fuori di sé, non tanto come ‘colpa’, quanto come ‘origine’. Il protagonista, infatti, non sembra essere il vero ‘autore’ delle vicende che lo riguardano: scelte, decisioni, comportamenti e valori non di rado non si originano all’interno del personaggio, ma all’interno dei personaggi esterni. La narrazione autobiografica sembra in questo caso servire non tanto alla riappropriazione e al riconoscimento di sé, quanto alla creazione di una consapevolezza dell’’assenza di sé che ha caratterizzato il passato. Prendere in mano, nel bene o nel male, la propria vita sembra così essere l’unico strumento che, secondo gli intervistati, può aiutarli a orientare le scelte future.

    Un altro aspetto interessante emerso dalla ricerca sono le strategie narrative di costruzione dell’identità sociale (identità di riconoscimento, definita da Ricoeur,1991, identità idem). La canonicità alla quale gli intervistati fanno riferimento, e nella quale si riconoscono, non è quella dell’altro generalizzato, come solitamente avviene [3], ma quella della tossicodipendenza: la propria vita non rappresenta un’eccezione, non perché sia comune a tutti, ma perché è comune a quella di tutti gli altri tossicodipendenti. ‘Essere un tossico’, sottolinea Grosso (1994), è d’altra parte un importante sostegno nella definizione del proprio sé, per la funzione suppletiva che un’identità negativa svolge in mancanza di altre identità. Non pensarsi più come un ‘tossico’ significa prospettare per sé altre storie possibili, e proprio questo sembra segnare il punto di svolta nelle biografie degli intervistati.

    4. Narrazioni nel contesto famigliare

    4.1 Oggetto della ricerca

    Alle tre blasonate domande esistenziali “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?”, l’uomo cerca di ideare una sua personale risposta al fine di costruirsi una propria identità, di riconoscersi in un essere sociale, ma unico. Per sentirsi parte del mondo in cui vive, per trovare fiducia in sé e confrontarsi con la realtà circostante, l’uomo ha bisogno di costruirsi una storia che gli consenta di identificarsi come parte di una società.

    Ogni gruppo sociale, ogni cultura, ha le sue storie e i suoi miti, che consentono agli individui di riconoscere la propria vita, di spiegare ciò che non è comprensibile, di connettere passato e futuro. Il tema entro cui si muove la ricerca qui presentata è un particolare tipo di narrazione orale che avviene all’interno delle famiglie: ciò che è stata chiamata ‘aneddotica famigliare’ è questo corpus di storie che si raccontano e si ascoltano in famiglia, a volte cariche di ripetizioni di elementi già noti agli interlocutori. Negli aneddoti famigliari e nella loro pratica di racconto, non sono in gioco soltanto la continuità e la coesione della famiglia: lo sono anche l’identità dei singoli membri, la percezione che essi hanno di sé e del proprio mondo, le rappresentazioni del contesto sociale co-costruite insieme agli altri.

    Le storie che gli altri ci raccontano ci re-inventano sempre un po’, facendoci conoscere o riconoscere aspetti di noi di cui non eravamo consapevoli o facevamo finta di non vedere (Jedlowski, 2000). Ogni racconto declina sempre, in proporzioni diverse, l’esigenza di raccontarsi (a sé o agli altri) con quella, più complessa e profonda, di comprendersi: re-interpretare il proprio vissuto in una trama coerente, partendo dal presente (cfr. Smorti 1997; Bruner, 2002) e costruendo attivamente un significato (Batini e Zaccaria, 2000; 2002).

    Non sempre però riusciamo a trovare la trama giusta delle storia di vita di cui siamo i protagonisti: abbiamo spesso bisogno degli altri, di ‘altri sguardi’ che possano aiutarci a riprendere le fila del nostro discorso e a riportare ordine dove sembra regnare il caos (Di Fraia, 2004).

    L’importanza fondativa del racconto altrui è testimoniata in primo luogo dal fatto che è la nostra stessa esperienza di vita ad iniziare con una narrazione altrui. “Ricorrere al racconto degli altri perché la storia comincia da dove è cominciata” (Cavarero, 2001, p. 56).

    L’empowerment avviene attraverso euristiche narrative di cui ognuno di noi è artefice e depositario, che vanno a formare identità personali collocate in un contesto sociale e che, anche attraverso quel contesto, assumono senso e vengono socialmente negoziate (cfr. Batini e Zaccaria, 2000; Smorti, 1997).

    L’interesse della ricerca è nato nel voler indagare quali sono le storie e i racconti narrati nelle famiglie nel corso del tempo. La famiglia è costruita e mantenuta nella quotidianità, ma anche nel corso delle generazioni, attraverso una serie di pratiche discorsive e narrative.

    L’ipotesi sostenuta è che gli aneddoti famigliari seguano i cambiamenti sociali: ogni generazione ha i suoi racconti e lo studio degli aneddoti raccontati in famiglia fornisce una versione della realtà più vicina a quella percepita dai soggetti, lasciando affiorare elementi sia dell’’io’, cioè dell’identità dei narratori, sia dell’’esso’, cioè dell’ambiente sociale in cui i protagonisti hanno vissuto.

    La situazione famigliare, che si è andata delineando nel nostro Paese, ha costituito lo sfondo alla ricerca. Dalla crisi del modello di famiglia tradizionale basata sul principio del ‘sangue’, al modello famigliare della società industriale, fino all’avvento delle diverse identità famigliari, costituitesi in una società complessa. La famiglia è stata qui considerata come sistema mitopoietico, ossia generatore di storie ed aneddoti: la narrazione costituisce quel collante che unisce, nel tempo e nello spazio, la rete famigliare dando ai vari componenti la possibilità di proseguire insieme, capire quello che stanno facendo, pur rimanendo ognuno con le proprie emozioni e motivazioni.

    Le storie di vita famigliari rappresentano quindi sia uno strumento di trasmissione di riferimenti valoriali, stili di comportamento e ruoli famigliari e sociali, sia una spia di dimensioni e pratiche sociali più ampie, connotando lo scorrere del tempo (Olagnero e Saraceno, 1993).

    4.2 Ascoltare delle metastorie: metodologia e risultati della ricerca

    Lo strumento di raccolta delle storie è un’intervista qualitativa, come naturale applicazione di uno stile di ricerca che tende ad entrare il più possibile in sintonia coi soggetti per comprendere meglio i fenomeni sociali di cui sono protagonisti partendo da loro stessi. L’ascolto degli aneddoti famigliari dalla voce degli individui che di essi sono depositari e custodi nella loro memoria, è stato nella pratica l’ascolto di alcune ‘metastorie’: è possibile conoscere delle storie, solo ascoltando altre storie in cui esse sono contenute. La narrazione da parte dei soggetti è stimolata attraverso un processo di consapevolezza, soprattutto narrativa, della co-costruzione della conoscenza e sviluppo delle potenzialità apprese nel mondo famigliare per la costruzione del sé.

    La ricerca si è svolta su 24 soggetti, uomini e donne residenti nelle province di Milano e Varese, suddivisi in tre generazioni [4] di soggetti in base alla loro età anagrafica. La triade generazionale è stata denominata ‘nonni-genitori-figli’ perché i diversi gruppi di soggetti avevano un’età media corrispondente a quella di un anziano-nonno, un adulto-genitore e un giovane-figlio nel momento in cui si è svolta la ricerca.

    Analizzando i temi rilevanti contenuti nelle storie raccontate dalla triade generazionale, si possono individuare alcuni tratti rimasti immutati nel corso del tempo ed evidenziare quello che nel corso delle generazioni è cambiato. Temi che, affiorando in modo più o meno consapevole, segnano sia la fisionomia della famiglia, sia la configurazione dei mondi generazionali.

    Si nota che è un esistente [5] che fa da protagonista e attraversa i racconti come un file rouge: il contesto della seconda guerra mondiale. Questo tema è ricorrente in ognuna delle tre generazioni, ma ciò che cambia è il ruolo degli eventi e dei personaggi protagonisti di questi aneddoti nel corso del tempo. Ai nonni è rimasta un immagine della guerra con un in significato tragico, animato dai propri famigliari, eroi ed eroine, protagonisti di particolari eventi. Gli aneddoti di guerra di cui i genitori intervistati, invece, sono stati ascoltatori hanno due temi ricorrenti: da una parte la poca comprensione delle ragioni per cui si era in guerra ed il non voler combattere contro quelli che dovevano essere dei ‘nemici’, dall’altra parte il grande rifiuto di partire per andare in guerra, tanto grande da portare i famigliari protagonisti degli aneddoti a ledersi fisicamente.

    Nell’immaginario della guerra che invece i figli hanno fatto emergere nelle storie, scompare il dramma e la vena di rifiuto alla guerra, ma emergono dei racconti di guerra che il passare del tempo ha fatto sedimentare più che altro per la loro particolarità o curiosità. E’ da sottolineare che i giovani intervistati nella presente ricerca fanno parte di una generazione che è giunta alla soglia dell’adultità interagendo anche con i nonni in carne ed ossa e non solo con il loro ricordo mediato dai genitori. Tuttavia si può ipotizzare che la rilevanza della seconda guerra mondiale, come spartiacque nella storia del mondo e dei singoli mondi, è stata ritenuta comune memoria dolorosa capace di orientare altrimenti, solo in alcune sedi; almeno da ciò che qui appare sembra aver stentato a esprimersi in quanto coscienza diffusa e condivisa. Nei materiali raccolti, colpisce che in non pochi aneddoti, anche quando gli anziani lasciano ben comprendere l’orrore della guerra e le ferite che essa ha lasciato aperte, l’ultimo anello della catena generazionale si limita a registrare solo episodi molto particolari. La memoria della guerra raggiunge la generazione dei ‘figli’, ma solo in maniera stereotipata e depotenziata della sua drammaticità, faticano a farsi chiave di lettura per il presente.

    Temi molto ricorrenti nella generazione dei nonni ed in quella dei genitori, ma non riscontrati in quella dei figli, sono quelli legati ad alcune vicende famigliari. Ad esempio l’innamoramento di alcuni famigliari, che si sono incontrati e che nonostante un contesto difficile alla fine finiscono per sposarsi, rimane ben saldo: la lotta di un evento, il grande amore, contro un esistente, l’ambiente economico e sociale molto difficile. La vittoria finale è quella del bene sul male.

    Ma anche racconti in cui il valore dell’unità famigliare viene meno, rievocati con molta frequenza e molta enfasi dai primi due anelli della catena generazionale, non presenti in quella dei più giovani. L’ipotesi interpretativa sostenuta è quella che la famiglia, nel corso del tempo, stia sempre più accettando eventi e significati (separazioni, abbandoni, adozioni), che sono invece presenti negli aneddoti ricordati dalle persone meno giovani come straordinari e complessi.

    Altri temi ricorrenti negli aneddoti delle coorti dei nonni e genitori, ma forse meno evidente in quella dei figli, è il contesto di povertà o di vita contadina nel quale agiscono i famigliari ed i grandi viaggi, spesso difficoltosi e avventurosi, di qualche famigliare.

    Ultimo tema che ha mostrato numerose occorrenze è quello degli aneddoti di infanzia o gioventù: sono aneddoti in cui spesso i narratori sono ‘omodiegetici’, cioè sia narratori durante l’intervista che protagonisti di queste storie. Questi aneddoti sono rimasti maggiormente nella memoria dei figli intervistati, rispetto alle altre due generazioni di soggetti.

    Si ritiene che questi aneddoti vadano a sopperire una mancanza di contenuti di altri temi rilevanti e dalle tinte molto forti, come degli eventi di guerra, le storie di povertà e le dinamiche famigliari. Tale lacuna non va solo imputata ai depositari di questi racconti che rievocano solo questo tipo di racconti, ma agli stessi narratori. Tra la generazione degli adulti e quella dei giovani, non sembrano esserci stati momenti forti da trasmettere. Le esperienze vissute dai genitori, in una situazione di migliorato benessere, di mutate aspettative sociali e di una maggiore consapevolezza dell’incertezza accresciuta su scala mondiale, non si ritengono in evidente contrapposizione con quelle dei figli. Alcuni dei genitori intervistati hanno esplicitamente manifestato la mancanza di contenuti e il loro desiderio di raccontare e condividere, senza però sapere che cosa.

    Nonostante sia stato rilevata una grande differenza sul piano della storia delle aneddotiche famigliari raccolte, questo non significa che la pratica del racconto vada ad estinguersi. Sono cambiati i contenuti, ma non l’importanza degli aneddoti famigliari. Nella ricerca si sono analizzate le ‘funzioni’ attribuite dai soggetti alle narrazioni, notando come nel corso delle generazioni si siano attribuiti agli aneddoti di famiglia significati diversi.

    I nonni percepiscono nel racconto di molti aneddoti, soprattutto i racconti di guerra o di povertà, una necessità: sono narrati per sfogo, per comunicare un evento che ha sconvolto la loro quotidianità o le vite dei famigliari, che si ritiene quasi impossibile non raccontare. Si evince quindi una funzione ‘comunitaria’ degli aneddoti famigliari, che è più propriamente connessa alla dimensione relazionale della narrazione, volta ad un senso di condivisione e rielaborazione del significato della storia.

    Le funzioni esplicitate dagli adulti intervistati sono soprattutto di tipo ‘valoriale’ e ‘normativo’. Emerge dunque un’immagine di famiglia che, nella fase di ricostruzione post-bellica (in considerazione dell’età media degli intervistati), cerca di comunicare valori di tipo tradizionale, in un continuo confronto e negoziazione tra valori famigliari e tradizionali e valori emergenti. I genitori appaiono fortemente consapevoli di essere usciti da una cultura della sobrietà, al cui interno il patrimonio famigliare era connotato di principi e insegnamenti, ma nonostante questo sembrano avere accolto a pieno il cambiamento, la modernità, le nuove agenzie di socializzazione e l’evoluzione mediatica.

    La pratica del racconto di aneddoti di famiglia non è più, secondo i più giovani intervistati, volta a trasmettere grandi valori o principi, come se tra il mondo generazionale dei genitori e quello dei figli non si rilevino grosse contrapposizioni. Con la generazione dei figli, emerge maggiormente una funzione poco evidenziata nelle generazioni precedenti: la funzione ‘ludica’.

    Il senso di raccontare molti degli aneddoti famigliari ascoltati nelle famiglie dei giovani intervistati, sta nel gioco creativo che raccontare comporta. I giovani intervistati spiegano che la maggior parte delle storie ascoltate, sembrano narrate per il piacere di raccontare e raccontarsi o perchè siano aneddoti divertenti, che entusiasmano il pubblico dei famigliari ascoltatori.

    Nessun intervistato ha reso esplicita una funzione che è comunque primaria degli aneddoti raccontati in famiglia, che è probabilmente presente, ma che rimane implicita: la funzione ‘mnestica’ della narrazione di questo tipo di storie. Narrare è un tentativo di salvare ciò che è narrato dall’oblio, conservarlo e trasmetterlo. La memoria del narratore, luogo privilegiato di formazione dell’identità personale, si fa memoria famigliare, ma sia colui che narra oralmente, sia chi ascolta, deve far uso della propria memoria per seguire il filo della narrazione e per utilizzare in modo adeguato le proprie conoscenze, al fine di interpretare il racconto e coglierne i tratti che guidino la propria vita.


    NOTE

    1] Pur avendo condiviso tutti i contenuti presenti nel contributo, i paragrafi 1 e 2 sono stati redatti da Alessandra Micalizzi, il paragrafo 3, con i relativi sottoparagrafi, da Valentina Orsucci e il paragrafo 4, con i relativi sottoparagrafi, da Elisabetta Risi.
    2] Per distinguere fra tossicodipendenza e consumo non dipendente abbiamo seguito i criteri riportati nel DSM-VI.
    3] L’identità idem nasce proprio dal bisogno, insito nell’uomo, di attribuire un certo livello di ‘normalità’ alla propria vita.
    4] Per ‘generazione’ si è considerata l’accezione di coorte: questo concetto si regge sull’assunto che i soggetti nati in un certo arco di tempo siano esposti a processi storicamente e socialmente specifici, che influenzano il loro mondo della vita.
    5] Secondo Chatman (1978), nella storia è possibile individuare due componenti: gli eventi, che possono essere le azioni compiute da un agente animato o gli avvenimenti determinati da un fattore ambientale o da un agente non specificato, e gli esistenti, che comprendono i personaggi, cioè gli esseri viventi, e gli ambienti. Quando uno di questi elementi acquisisce particolarità viene più facilmente ricordato, rimane nella memoria ed il racconto, se passa di bocca in bocca all’interno di una famiglia, diviene un aneddoto famigliare.


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