 
 
      La narrazione e l'empowerment
Federico Batini (a cura di)
M@gm@ vol.4 n.3 Luglio-Settembre 2006
FILMICHE STORIE DI MALATI E DI MEDICI: medicina narrativa e uso formativo nel cinema
      Stefano Beccastrini
beccas@val.it
        Stefano Beccastrini è medico 
                    e pedagogista nonché cultore e scrittore di cinema. Dirige 
                    la collana “Comunicazione in sanità” del Centro Scientifico 
                    Editore di Torino e la collana “Viaggio in Italia” dell’editore 
                    Aska di Firenze. È membro del comitato scientifico della sezione 
                    italiana dell’ISDE (International Society of Doctors for Environment) 
                    e coordinatore didattico della Scuola Internazionale Ambiente 
                    Salute e Sostenibilità (SIASS). Relatore a molti convegni 
                    nazionali ed internazionali, impegnato nella cooperazione 
                    internazionale (ha compiuto missioni tecniche e formative 
                    in Cile, Cina, Egitto, Nicaragua), ha pubblicato molti saggi 
                    e articoli su riviste cartacee ed on-line, nonché una ventina 
                    di volumi (sulla pedagogia sociale e della salute, sulla percezione 
                    e la comunicazione del rischio, sull’educazione ambientale, 
                    sulla formazione nelle organizzazioni, sul cinema e sul suo 
        uso educativo).
1. 
                    Lo specchio della vita: introduzione
                    
                    Questo testo tratta dei rapporti tra il cinema e la medicina, 
                    o meglio tra la storia - e le storie - del cinema e la storia 
                    - e le storie - della medicina (nonché delle malattie e dei 
                    malati). È un tema sul quale vado da tempo lavorando, facendone 
                    argomento di seminari formativi per gli operatori sanitari 
                    nonché, più di recente, di un libro intitolato “Lo specchio 
                    della vita” (sottotitolo: “Medici e malati sullo schermo del 
                    cinema”; uscirà entro l’anno 2006 per i tipi dell’Istituto 
                    Change di Torino). Il titolo ricalca quello italiano - l’originale 
                    essendo “Imitation of Life” - di un vecchio ma non invecchiato 
                    film di Douglas Sirk (“Lo specchio della vita”, 1959, con 
                    Lana Turner, John Gavin e Sandra Dee), autore di fiammeggianti 
                    melodrammi capaci di commuovere e far pensare (le finalità 
                    più preziose del cinema assieme all’intelligente divertire). 
                    È una buona definizione del cinema stesso, vero specchio della 
                    nostra vita, capace di rappresentarne più o meno fedelmente 
                    - com’è proprio d’ogni specchio, che soltanto de/formandola 
                    ri/specchia la realtà - i dolori e le gioie, le speranze e 
                    le delusioni. Uno specchio non è lo strumento perfetto per 
                    vedersi qual siamo veramente; resta peraltro l’unico che abbiamo 
                    per comprendere come gli altri ci vedano, e ciò vale anche 
                    per i medici. Se, come ha scritto un illustre storico della 
                    medicina, Giorgio Cosmacini (nel suo “Il mestiere di medico”, 
                    Cortina, 2000), “...per aiutare a nascere senza pericoli e 
                    a morire serenamente, per proteggere i sani e aver cura dei 
                    malati cronici, degli anziani, dei disabili, saranno sempre 
                    più necessari ‘nuovi curanti’ che porteranno la medicina a 
                    potenziare o recuperare…la vocazione antropologica che da 
                    sempre le appartiene…”, tali nuovi curanti dovranno considerare 
                    le cosiddette Medical Humanities quali competenze integranti 
                    della propria professionalità, trovando anche nel cinema una 
                    fonte di conoscenza di sé e dei propri sofferenti interlocutori. 
                    Se è vero, come scrivono Bruna Zani ed Elvira Cicognani (nel 
                    loro “Psicologia della salute”, Il Mulino, Bologna, 2000) 
                    che “…la salute, così come la malattia…, non esistono nel 
                    vuoto sociale ma si inseriscono in contesti relazionali, sociali, 
                    culturali, nelle opinioni dei professionisti e della gente 
                    comune, interagiscono con i valori, le tradizioni, le immagini…,” 
                    quel grande specchio della vita (e della morte) che è lo schermo 
                    cinematografico può aiutare formativamente i medici, e gli 
                    operatori sanitari in genere, a meglio comprendere tali contesti 
                    e tali opinioni, in quanto proprio su tale grande specchio 
                    le persone, tramite la macchina luminosa inventata nel 1895 
                    dai fratelli Lumiére, proiettano giustappunto i loro valori, 
                    le loro tradizioni, le immagini prodotte dalla loro mente 
                    e dal loro cuore.
                    
                    2. La medicina narrativa
                    
                    La medicina contemporanea, ancorché ricca di importanti successi 
                    tecnici e tecnologici, soffre di una crisi epocale che è fatta 
                    d’incertezza sui propri paradigmi epistemologici e sui propri 
                    statuti etici, nonché di perdita crescente della propria dimensione 
                    antropologica, relazionale, umanistica. L’usura ormai nota 
                    e drammatica del rapporto tra medico e paziente, culturalmente 
                    costitutivo dell’arte medica ma sempre più aggredito dal prevalere 
                    di una visione meramente iatrotecnica (tecnologica e commerciale, 
                    specialistica e aziendale) della medicina, ne è evidente testimonianza. 
                    Per rimediare a ciò, occorre che la medicina del futuro riscopra 
                    la sua perduta dimensione narrativa, tornando capace di ascoltare, 
                    sapendola intrecciare proficuamente con le storie dei medici 
                    e le storie dei pazienti non meno che di saperne analizzare 
                    i parametri fisiopatologici. A tal scopo è recentemente nata 
                    in America, sebbene per adesso con scarsa conoscenza e diffusione 
                    tra i medici italiani (ma si veda, meritevolmente, Vincenzo 
                    Masini: “Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed interazione 
                    dinamica nella relazione medico-paziente”, Angeli, Milano, 
                    2005), la cosiddetta Narrative Medicine. Si tratta di un nuovo 
                    paradigma epistemologico della medicina, sorto come reazione 
                    alla sua deriva tecnicistica e teso alla valorizzazione della 
                    matrice antropologica e umanistica della medicina stessa (si 
                    veda, in merito, Rita Charon: “Narrative Medicine. Attention, 
                    Representation, Affiliation”, Oxford University Press, New 
                    York, 2005) nonché orientato alla riscoperta della dimensione 
                    esistenziale, cognitivamente fondata sul pensiero giustappunto 
                    narrativo invece che analitico, dell’arte del guarire. Si 
                    tratta di una dimensione da affiancare, seppur non da contrapporre, 
                    a quella più razionalistica della Evidence Based Medicine, 
                    ovverosia alla medicina fondata su prove sicure e sperimentali 
                    di efficacia. Circa l’auspicabile complementarità dei due 
                    paradigmi epistemologici, ha affermato Milos Jenicek (illustre 
                    epidemiologo canadese: https://www.praticaclinica.it/lineeguida/jenicek): 
                    “I due punti di vista sono complementari e devono convivere. 
                    Per molto tempo abbiamo preso in considerazione soltanto dati 
                    scaturiti da ricerche di tipo quantitativo o, comunque, da 
                    quanto si faceva per quantificare le cose…ma credo che in 
                    questi anni, anche grazie all’impegno di psicologi, sociologi 
                    ed infermieri, la ricerca qualitativa abbia fatto molti passi 
                    in avanti e la Narrative Medicine appartiene proprio a questo 
                    nuovo filone di studio. Il focus di queste ricerche non è 
                    definire verità universali ma contribuire ad una migliore 
                    comprensione della realtà, molto spesso studiando proprio 
                    i casi o meglio le clinical situation…”. L’approccio della 
                    Medicina Narrativa è, quindi, di natura qualitativa e si basa 
                    sulla capacità di ascoltare ed elaborare storie, mentre l’approccio 
                    della medicina cosiddetta basata sull’evidenza è di natura 
                    quantitativa (analitica e statistica). L’una fa capo al pensiero 
                    narrativo - che, almeno dopo le ricerche psicologiche e pedagogiche 
                    di Vigotskij e Luria, è riconoscibile come una forma diversa 
                    ma non meno cognitivamente efficace del pensiero logico-analitico 
                    -, l’altra al pensiero, giustappunto, logico-analitico. Come 
                    ha scritto Vincenzo Masini nel suo libro, uno dei pochissimi 
                    sul tema d’autore italiano: “La narratività compare sulla 
                    scena proprio nel momento in cui la medicina, giunta a straordinari 
                    traguardi di sviluppo tecnologico, sembra perdere la sua efficacia 
                    proprio nel rapporto con il paziente…La medicina narrativa 
                    stimola tre processi: l’anamnesi esistenziale e relazionale 
                    del vissuto del paziente…, la co-costruzione tra medico e 
                    paziente del significato del vissuto di malattia e l’apertura 
                    progressiva della biomedicina ai contributi delle medicine 
                    complementari, naturali e quotidiane, oltre che alla crescita 
                    di un fecondo dialogo con la sociologia, la psicologia e l’antropologia…”. 
                    Io aggiungerei, anche, con la letteratura e, in riferimento 
                    al tema specifico di questo testo, con il cinema. E, aggiungerei 
                    anche, che non si tratta soltanto, per i medici, di apprendere 
                    (o riapprendere) ad ascoltare le storie dei malati, bensì 
                    anche di apprendere a narrare con coraggio agli stessi pazienti 
                    oltre che ai colleghi, le proprie storie, col loro generalmente 
                    celato carico di incertezza e timore dell’errore, di identità 
                    insoddisfatta, di paura della propria malattia e della propria 
                    morte viste nella malattia e nella morte altrui (è l’archetipo 
                    del “guaritore ferito”, che sempre più spesso va narrativamente 
                    emergendo nella letteratura e nel cinema dei nostri giorni: 
                    per esempio, nel volume autobiografico “Un medico, un uomo” 
                    del Dottor Ed Rosenbaum, da cui è tratto l’omonimo film, 1992, 
                    di Randa Haines). Se occorre, e non v’è dubbio che occorra 
                    e persino con urgenza, riscoprire come la medicina sia fatta 
                    anche, e forse soprattutto, di storie (oltre che di numeri, 
                    diagrammi e dati analitici), il cinema può costituire un immenso 
                    archivio, formativamente disponibile e utile, di esse: in 
                    ormai oltre cento anni di esistenza, infatti, esso ha saputo 
                    narrare centinaia e centinaia di storie di malattie e di malati, 
                    di medici e di sanità, cui sarebbe sciocco non attingere per 
                    formare medici di domani che sappiano pensare, lavorare, dialogare 
                    coi propri pazienti anche utilizzando metodologie di natura 
                    qualitativo/narrativa oltre che metodologie di natura quantitativo/analitica, 
                    seppure non in antagonismo con esse.
                    
                    3. La medicina e il cinema
                    
                    Coetanea dell’invenzione, da parte di Sigmund Freud, della 
                    psicoanalisi nonché di quella, da parte di Wilhelm Conrad 
                    Roentgen, dell’apparecchio a raggi X (Roentgen depositò presso 
                    la Physikalisch-Medizinische Gesellschaft di Wurtzburg la 
                    comunicazione, con allegata l’immagine radiografica di una 
                    mano, della sua scoperta lo stesso giorno, il 28 dicembre 
                    1895, in cui avvenne a Parigi, presso il Salon Indién di Boulevard 
                    des Capucines, la prima proiezione dei Lumiére), l’invenzione 
                    del cinema era destinata, come del resto le altre due, ad 
                    apportare significativi cambiamenti nelle conoscenze e nei 
                    costumi degli uomini del secolo che stava nascendo, il Ventesimo. 
                    Psicoanalisi, raggi X, cinema: tre modi innovativi di vedere 
                    cosa stava dentro gli esseri umani, sotto la loro apparenza 
                    più superficiale, nelle profondità del corpo e della mente 
                    (tra l’altro, cinema e raggi X rappresentarono, negli anni 
                    immediatamente successivi alla loro invenzione, due affiancate 
                    e lucrose curiosità da baraccone fieristico, e cinema e psicanalisi, 
                    nonostante il giudizio poco lusinghiero che Freud aveva espresso 
                    sul cinema medesimo, s’incontrarono ben presto: fu nel 1926, 
                    infatti, che un allievo di Freud, Karl Abraham, collaborò 
                    come consulente per il primo psicofilm, “I misteri di un’anima”, 
                    regia di Georg Wilhelm Pabst). Pare che i Lumiére considerassero 
                    il cinematografo un’invenzione priva d’alcun futuro commerciale, 
                    mentre erano invece sicuri dell’interesse scientifico della 
                    loro invenzione. Auguste, in un’intervista del 1954 e dunque 
                    ormai novantenne, ricordò che, disinteressato al cinema come 
                    arte, si era dedicato “…alla biologia, alla fisiologia, alla 
                    patologia, alla medicina…” (si può leggere questa intervista 
                    in Louis e Auguste Lumiére: “Noi inventori del cinema. Interviste 
                    e scritti scelti 1894-1954, Editore Il Castoro, Milano, 1995). 
                    Fautore della medicina umorale, fondatore di cliniche e riviste, 
                    autore di oltre quaranta volumi di argomento medico, comparve 
                    anche, proprio in veste di medico, nel film “Pasteur” del 
                    1922, con la regia di Jean Epstein (un cineasta che aveva 
                    fatto studi medici e fu uno dei primi teorici del cinema come 
                    arte). Logicamente, non soltanto dagli interessi biomedicali 
                    di uno dei due fratelli che lo inventarono nacque “…l’utilizzo 
                    del cinema come strumento di indagine, ricerca, divulgazione, 
                    documentazione o propaganda nell’ambito degli studi medico-scientifici…” 
                    (come scrive Chiara Tartarini nel suo “Anatomie fantastiche. 
                    Indagine sui rapporti tra il cinema, le arti visive e l’iconografia 
                    medica”, Clueb, Bologna, 2003), ma proprio i Lumiére dettero 
                    contributi in tal senso, in quanto “…si dedicarono molto presto 
                    alla microfotografia…(con)…la tecnica dell’autochrome, che 
                    permise le prime immagini a colori di germi e tubercoli…(e)…fin 
                    dal 1896 si occuparono di raggi X e produssero i negativi…grazie 
                    ai quali furono possibili le prime riprese radiocinematografiche…”. 
                    Nei decenni seguenti, le due strade - quella del cinema scientifico/clinico 
                    e quella del cinema artistico/spettacolare - si sono sempre 
                    più e giustamente divaricate, ma la lontana fratellanza d’origine 
                    ha continuato ad esistere tramite un’osmosi di forme, un dialogo 
                    di modelli, un’attenzione reciprocamente profonda. Il rapporto 
                    tra cinema e medicina ha avuto modo di svilupparsi anche in 
                    senso terapeutico, oltre che documentativo: già nel 1917 un 
                    critico americano, Fred W. Philips, in un articolo intitolato 
                    “Il valore terapeutico del film” avanzò l’ipotesi che il cinema 
                    potesse costituire un farmaco di particolare ed economica 
                    efficacia. L’idea, in seguito, fu più combattuta che appoggiata 
                    dai medici, presso i quali prevalse, contro il cinema, uno 
                    spirito di ostile crociata: fu affermato che provocava mille 
                    mali, da quelli alla vista (la cineoftalmia, sindrome oculare 
                    da scintillio della luce di sala) a quelli mentali (il cinema 
                    fu definito come “…un vampiro…succhiatore di cervelli…bevitore 
                    di anime…rapitore di coscienze…”, come racconta Gian Piero 
                    Brunetta nel suo “Buio in sala”. Cent’anni di passione dello 
                    spettatore cinematografico”, Marsilio, Venezia, 1989). Peraltro, 
                    in anni recenti, la vecchia idea di Philips è andata vieppiù 
                    prendendo campo e, prima negli Stati Uniti e poi anche in 
                    Italia, si parla di cinematerapia. Il suo precursore è considerato 
                    il dottor Gary Salomon, autore di “The Motion Picture Prescription: 
                    Watch this Movie and Call Me in the Morning. 200 Movies to 
                    Help You Heal Life’s Problems” (Aslan Pub Publishers, 1995). 
                    Poi la metodologia cinematerapeutica ha travalicato la stretta 
                    competenza medica, per esempio venendo fatta propria dal movimento 
                    femminista e producendo un libro come “Cinematerapia. C’è 
                    un film per ogni stato d’animo” (Feltrinelli, Milano, 1993), 
                    manuale per l’utilizzo autocoscienziale e psicoriparativo 
                    del cinema da parte di donne in crisi, scritto da Nancy Peske 
                    e Beverly West, secondo le quali “Una buona pellicola è come 
                    un ricostituente lenitivo…”. In Italia è da segnalare “Curare 
                    con il cinema” (CSE, Torino, 2001) dello psichiatra napoletano 
                    Ignazio Senatore, peraltro giustamente convinto che “…la visione 
                    di un film non…(ha)…mai potuto eliminare i conflitti, ridurre 
                    le ansie, placare le angosce di uno spettatore…”. Il tema 
                    dell’utilizzo del cinema da parte della medicina resta comunque 
                    aperto e suggestivo. Personalmente, ritengo che esso possa 
                    rivelarsi utile soprattutto quale strumento di formazione, 
                    e counselling, alle competenze della Narrative Medicine e 
                    alle riflessioni delle Medical Humanities: competenze e riflessioni 
                    che abbisognano di ragionare su storie di vario tipo, potendo 
                    trovare in quell’immenso archivio di filmiche storie che è 
                    la storia del cinema, un patrimonio immenso di fonti di meditazione 
                    e discussione (a cominciare dalla storia narrata nella prima 
                    opera cinematografica di fiction avente per protagonista un 
                    medico: “The Country Doctor”, 1909, un breve film muto narrante 
                    la dedizione alla propria missione di un medico di campagna, 
                    realizzato da David Wark Griffith, che del cinema come arte 
                    narrativa può essere considerato il padre).
                    
                    4. Malati e medici sullo schermo
                    
                    E’ costitutivo dell’arte e della scienza medica il poggiarsi 
                    sulla relazione tra due persone. Non è così per alcuna altra 
                    arte o scienza, o quasi: dovrebbe avvenire anche nel campo 
                    dell’educazione. In medicina, il momento relazionale non fa 
                    da vago e facoltativo sfondo al momento tecnico bensì gli 
                    è inestricabilmente legato, tramite una profonda relazione 
                    interna. Di ciò il libro testimonia persino strutturalmente, 
                    essendo distinto, ma tutt’altro che diviso, in due parti tra 
                    loro dialoganti: una prima di cui sono protagonisti i malati 
                    e le malattie, una seconda di cui sono protagonisti i medici 
                    e la sanità. Ciascuna parte è composta da venti capitoli. 
                    Quelli della prima parte sono dedicati al nascere, il crescere, 
                    l’ammalarsi, il diventare un paziente, i vari tipi di malattia 
                    (con particolare attenzione al cancro e all’AIDS), la condizione 
                    femminile, l’handicap, i rapporti tra salute e lavoro, quelli 
                    tra salute e ambiente, la salute mentale, le dipendenze, l’uso 
                    dei farmaci, il rapporto tra cibo e salute, eccetera, fino 
                    all’invecchiare e al morire. Quelli della seconda parte sono 
                    dedicati alla storia della medicina, alle varie tipologie 
                    di medico, al diventare medici, al filone dei Medical Horror 
                    e dei Medical Thriller, alla relazione tra medici e pazienti, 
                    alle situazioni pediatriche, alll’ospedale, al manicomio, 
                    alla psicoanalisi, alla professione infermieristica, all’antropologia 
                    e sociologia medica, alla malasanità, all’epistemologia della 
                    medicina, alla medicina e la guerra, eccetera, fino alla bioetica 
                    ed al rapporto tra la medicina e la morte. In tal senso, le 
                    due parti sono quasi speculari, affrontando sostanzialmente 
                    gli stessi argomenti ma con la differenza che nella prima 
                    parte il punto di vista è quello dei malati (nel senso concreto 
                    che i protagonisti dei film presi in considerazione e illustrati 
                    sono giustappunto persone ammalate), mentre nel secondo il 
                    punto di vista è quello della medicina e della sanità (nel 
                    senso concreto che i protagonisti dei film presi in considerazione 
                    e illustrati sono medici o altri professionisti sanitari). 
                    Ciascun capitolo di entrambe è articolato in tre sottocapitoli: 
                    il primo (“Il tema”) illustra l’argomento del capitolo stesso, 
                    inquadrandolo nella storia, e nella filosofia, della medicina 
                    e del mondo (esso si rivela assai utile, in sede formativa, 
                    per un sintetico inquadramento teorico di seminari o corsi 
                    monotematici); il secondo (“I film”) presenta una sorta di 
                    catalogo, necessariamente non esaustivo ma assai ampio (sono 
                    citati e illustrati oltre quattrocento film, complessivamente), 
                    di opere cinematografiche al tema collegabili (e dunque utilizzabili, 
                    anche proiettandone singoli brani, in occasione dei suddetti 
                    seminari o corsi); il terzo (“Il Film”) sceglie, tra le varie 
                    possibili sul tema, un’opera cinematografica particolarmente 
                    significativa (in tutto sono quaranta, una per capitolo: da 
                    “Film blu” a “Sussurri e grida”, da “Gli anni in tasca” a 
                    “L’impero americano”, da “Le chiavi di casa” a “Caro diario”, 
                    da “Un medico, un uomo” a “La forza della mente”, da “Il grande 
                    cocomero” a “Vivere”, da “Missione in Manciuria” a “La gente 
                    mormora”, da “Al di là della vita” a “Tutto su mia madre”, 
                    da “Il mare dentro” a “Il medico della mutua” e così via), 
                    dedicandogli una peculiare attenzione (si rivela assai utile, 
                    in sede formativa e proiettando il film per intero, come caso 
                    su cui attivare più approfondite discussioni, ricerche d’aula, 
                    braimstorming tra i partecipanti e così via). Insomma, considerando 
                    ogni capitolo una specie di unità didattica, “Il tema” ne 
                    rappresenta l’inquadratura storico/filosofica, “I film” il 
                    repertorio delle fonti e degli esempi, “Il Film” il caso esemplare 
                    da proporre all’approfondimento e alla discussione. Il fine 
                    è quello di promuovere, attraverso l’utilizzo formativo di 
                    filmiche storie, un arricchimento della professionalità dei 
                    futuri medici, e dei futuri professionisti della sanità in 
                    genere, che sappia ridonare loro la padronanza, accanto a 
                    quella tecnico-specialistica e tecnologica, anche della dimensione 
                    antropologica, relazionale, filosofica - in una parola, umanistica 
                    - del loro mestiere, così riuscendo alfine a trovare “…una 
                    cura filosofica per la biomedicina…” (come scrive Franco Voltaggio 
                    nel suo “La medicina come scienza filosofica”, Laterza, Bari, 
                    1998). In quella “…età della fine del V e del IV secolo…(che)…rappresenta 
                    nella storia della professione medica uno dei punti di più 
                    alto prestigio…- scrisse Werner Jaeger (nel suo “Paideia”, 
                    La Nuova Italia, Firenze, 1959) - …il medico appare ad un 
                    tempo come il rappresentante di una dottrina altamente specializzata 
                    e metodicamente raffinata, e come l’incarnazione di un ethos 
                    professionale esemplare…”. Spero che un’età simile possa far 
                    ritorno, facendosi il medico suo prestigioso protagonista 
                    nonché trovando, per imparare a farlo, ausilio anche in quell’umile 
                    ma efficace strumento di pensiero, oltre che di divertimento 
                    e di commozione, che è il cinema: un grande specchio del nostro 
                    tempo e come tale capace di aiutarci a vedere noi stessi come 
                    se guardassimo un altro. Andare al cinema può essere, in tal 
                    senso, come porre la mano dentro una bocca della verità. Ho 
                    sempre pensato che proprio questo sia il vero motivo che ci 
                    spinge ad entrare, curiosi e timorosi, nel buio delle sue 
                    sale.
                    
                    5. Un viaggio dall’uomo all’uomo: conclusioni
                    
                    Giorgio Cosmacini (nel suo “L’arte lunga. Storia della medicina 
                    dall’antichità ad oggi”, Laterza, Bari, 1997) ha scritto che 
                    “…di medicina si scrive moltissimo…(ma)…sulla medicina si 
                    scrive molto meno. La medicina è un’arte-scienza molto sicura 
                    di sé…. Per questo una riflessione critica sulla medicina 
                    viene a latitare dagli studi medici…”. Vorrei che tale riflessione 
                    cessasse di latitare, dando così nuovo spessore culturale 
                    alla professione medica ed al suo rapportarsi con i pazienti, 
                    la società, il mondo. Se davvero la medicina e la sanità contemporanee 
                    soffrono di tre forme di crisi epocale (si veda, in merito, 
                    il volume di Daniel Callahan, “La medicina impossibile”, Baldini&Castoldi, 
                    Milano, 2001), ovverosia una crisi di fiducia (in se stessa 
                    e da parte della popolazione), una crisi di unità (essendo 
                    ormai frammentata in una quantità impressionante di rivoli 
                    specialistici spesso incapaci di dialogare tra loro e ricondurre 
                    ad un approccio globale la cura del paziente/persona e non 
                    soltanto il trattamento dei suoi diversi malesseri) e una 
                    crisi di sostenibilità (dovuta al costo crescente, non soltanto 
                    ma anche economico, della sua ipertecnologizzazione e del 
                    suo espansionismo sociale), e se il modo per affrontarle positivamente 
                    risiede in “…una nuova alleanza tra medici e pazienti…” (come 
                    scrive Roberto Satolli alla voce “Medicina” del “Dizionario 
                    di storia della salute”, Einaudi, Torino, 1996, da lui curato 
                    con Giorgio Cosmacini e Giuseppe Gaudenzi), credo che il cinema 
                    possa rivelarsi uno, tra molti seppur probabilmente non il 
                    più importante, degli strumenti culturali tramite il cui buon 
                    utilizzo, anche formativo, tale nuova alleanza sia saldabile. 
                    Questo l’auspicio de “Lo specchio della vita. Medici e malati 
                    sullo schermo del cinema”, nel suo invitare, appunto tramite 
                    il cinema, “…a vedere la storia della medicina quale viaggio 
                    dall’uomo all’uomo…” (come scrive Franco Voltaggio nel volume 
                    curato da Pino Donghi e Lorena Preta, “In principio era la 
                    cura”, Laterza, Bari, 1995, augurandosi che si possa alfine 
                    “…pensare alla storia dell’arte medica nei termini di una 
                    autobiografia della specie…”).
 
 
      
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