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  • La narrazione e l'empowerment
    Federico Batini (a cura di)

    M@gm@ vol.4 n.3 Luglio-Settembre 2006

    IMMAGINARIO, NARRAZIONE E SCRITTURA DI SÉ: le pratiche narrative come spazio transizionale e luogo dell’immaginario per reincantare se stessi e il mondo


    Orazio Maria Valastro

    valastro@analisiqualitativa.com
    Dottorando di Ricerca all'IRSA-CRI (Institu de Recherches Sociologiques et Anthropologiques - Centre de Recherches sur l'Imaginaire) presso l'Università degli Studi di Montpellier, prepara una tesi su "Narrazione di sé e immaginario sociale: biografia e mito biografia nella creazione auto poietica di sé"; Laureato in Sociologia (Università degli Studi René Descartes, Parigi V, Sorbona); Cultore in Campo Autobiografico (Libera Università degli Studi di Anghiari), Perfezionato in Promozione Sociale e Prevenzione dell'Esclusione (Università degli Studi Carlo Bo, Urbino) e in Teoria e Analisi Qualitativa nella Ricerca Sociale (Università degli Studi La Sapienza, Roma); Specializzato in Mediazione Sociale (Scuola Internazionale di Mediazione Sociale, Società Italiana di Sociologia); Fondatore, Direttore Editoriale e Responsabile della rivista elettronica in scienze umane e sociali "m@gm@"; Collaboratore e Membro del Comitato Scientifico della "Revue Algérienne des Etudes Sociologiques", Université de Jijel-Algeria; Sociologo e Libero Professionista, Studio di Sociologia Professionale (Catania), collabora con Enti Locali, Istituti Professionali di Stato e realtà della Cooperazione Sociale e del Terzo Settore, in attività di ricerca sociale, formazione, progettazione e realizzazione d'interventi in contesti sociali e culturali, nel settore dei servizi alla persona e le politiche di lotta contro l'esclusione sociale; associato AIS (Associazione Italiana di Sociologia), LUA (Libera Univeristà dell'Autobiografia), Associazione Le Stelle in Tasca (Vice Presidente).

    Il valore della sovversione epistemologica nel cammino della scienza tra verità oggettive e soggettive: metodologia semiologica e prospettiva simbolica

    Una storia delle discontinuità concettuali e metodologiche della scienza (Bachelard, 1995) c’invita, in qualità di ricercatori e operatori sociali e culturali, a non trascurare ma alimentare con cura un sentimento d’umiltà (Durand Gilbert, 1995, p. 55) rispetto alla nostra relazione con il mondo e la nostra capacità di produrre e co-costruire delle conoscenze sul mondo. La fisica quantistica ci ha mostrato, mettendo in discussione e trasformando la scienza determinista del diciottesimo secolo, un’intrinseca connessione tra strutture simboliche e sistemi relazionali, introducendo una postura complessa e alternativa a qualsiasi tentativo di semplificazione e neutralizzazione di quella stessa indeterminatezza che caratterizza la produzione dei saperi e delle conoscenze sul mondo. Pensiero scientifico e paradigma della complessità umana (Morin, 1986) diventano un modello che accoglie la nozione d’imprevedibilità, delineando un orizzonte d’incertezze all’interno del quale tutto ciò che prima era separato è alla ricerca di un’intelligenza della complessità (Morin, Le Moine, 1999), un’intelligenza del sociale (Bertin, 1995) in grado di mettere in relazione e riformare in profondità il nostro pensiero ed il nostro agire individuale e collettivo.

    La codifica dell’indeterminazione, il principio o relazione d’indeterminazione di Heisenberg, trasforma l’oggetto della fisica classica e inaspettatamente “l’oggetto positivista si dilata fino a comprendere la dimensione del soggetto umano” (Durand Gilbert, 1995, p. 68), diffondendo una “sovversione del consenso epistemologico” (Durand Gilbert, 1995, p. 53) che avvia verso una “filosofia della sovversione epistemologica” (Durand Gilbert, 1995, p. 53). Una sovversione che acquista una sua valenza peculiare, sostenuta non dalla confutazione del determinismo scientifico né tanto meno dal paradosso quantico promosso da una micro-fisica in grado di ricusare l’indeterminismo [1]. “Esiste un paradosso quantico ancora più stupefacente” (Durand Gilbert, 1995, p. 56) che colloca la prospettiva simbolica in rottura con una metodologia puramente semiologica, predominante nell’epistemologia in seno alle scienze umane e sociali [2]. La crisi del determinismo non impedisce, tuttavia, e non contrasta una spiegazione causalista dei fenomeni (Boudon, 1971), instaurando una divergenza tra semiologia e simbolismo laddove mette in “opera una statica intellettuale di queste dottrine” che al contrario noi possiamo fare corrispondere in una dinamica riflessiva, quando questi metodi “si congiungono sulla via della complementarietà” (Cullati, 2000, p. 14). Il pensiero semiologico, concepito a discapito della semantica, si trasforma in un ostacolo alla simbolizzazione (Bertin, 1995): l’ambito concettuale, semiologico, favorisce una mentalità tecnicistica e scientista che avanza per riduzione concettuale del significato invece d’invocare il risorgere delle immagini; lo spirito dell’Occidente procede discreditando il simbolo e privilegiando i fatti materiali e oggettivi. La semantica delle immagini, rinvigorite dai significati e dal realismo sensoriale, ci rivela la capacità umana di evocare immagini accompagnandoci verso una presentificazione del significato e preconizzando “che non ci sono solo verità oggettive (…) ci sono altresì delle verità soggettive fondamentali soprattutto al funzionamento costitutivo del pensiero piuttosto che ai fenomeni” (Durand Gilbert, 1992, p. 457).

    Una semantica che si sviluppa in quanto teoria generale di valutazione non-elementare ed associata ad una logica-sistema non-aristotelico (Bulla de Villaret, 1973), considera la complessità d’ogni movimento d’acquisizione e produzione di conoscenze, finalizzato ad uno studio dei fattori o degli elementi in relazione, ala ricerca di strutture e d’elementi in presenza. La svolta epistemologica, insita nella relazione tra osservatore e osservato e nella loro reciproca non-identificazione, nella concezione dello spazio e del tempo situati in una prospettiva della probabilità o dell’incertezza rapportata a delle strutture, confluisce nella capacità di simbolizzazione in quanto possibilità umana auto-riflessiva. La formulazione di una visione quantica congiuntamente ad una semantica, in seno ai primi tentativi prodotti dalle scienze al margine del movimento filosofico contemporaneo (Nicolescu, 1985), mette in luce l’unificazione di differenti livelli di conoscenza: il livello biologico e fisiologico, psicologico e semantico, strutturale e spirituale. I postulati di una relazione tra il corpo e le rappresentazioni trovano in questo modo il proprio fondamento, concependo una struttura dinamica dell’immaginario in seno alla quale “lo schema è una generalizzazione dinamica e affettiva dell’immagine, costituisce la fattività e non substantività generale dell’immaginario (…) facendo da collegamento (...) tra gesti inconsci della sensori-motricità, dominanti riflesse e rappresentazioni” (Durand Gilbert, 1992, p. 61).

    Dal dominio del rimosso, ambito della ricerca oggettiva, verso una metafisica dell’immaginazione

    La rivalutazione e la riabilitazione del pensiero simbolico, posto ai margini da una concezione della conoscenza aristotelica e cartesiana, si contrappongono all’esclusione dell’immaginazione e dell’immaginario in quanto irreali, impedimenti all’acquisizione di un simbolico messo in risalto nel riconoscimento d’altri elementi oltre ai segni convenzionali del linguaggio nel funzionamento dell’immaginario (Nicolescu, 1985), sottolineando il valore e la realtà di un pensiero senza parole e mostrando il ruolo di rinnovamento di un pensiero delle immagini (Christin, 2000). Il pensiero simbolico emerge grazie ad un pensiero non verbale svelandosi nella struttura del linguaggio, a costo di disfarsi delle costrizioni sociali e culturali. La concezione classica della psicanalisi rispetto all’attività simbolica del pensiero, concepisce questa stessa attività in quanto rimosso simbolizzato. L’attività fantastica è viceversa l’impossibilità della coscienza semiologia, rinchiusa nel segno, di rivelare l’immagine simbolica, il simbolo è così concepito nella sua funzione d’allontanamento e di dissimulazione alla coscienza del suo significato. L’immagine simbolica, “lontano dall’essere semiologia nella quale il significato, o la materia, è dissociato dalla forma (…) è semantica: vale a dire che la sua sintassi non si separa dal suo contenuto, dal suo messaggio”(Durand Gilbert, 1992, p. 457). Una concezione simbolica dell’immaginazione che sollecita un semantismo delle immagini, individua una “identità semantica” raffigurando una “cinematica del simbolo” (Durand Gilbert, 1996). Il simbolismo è in questo modo assimilato riducendo qualsiasi spaccatura tra significante e significato, abbiamo una dissimulazione dello spirito simbolico in uno scarto che non è una vera spaccatura del sensibile, immaginato e raffigurato, con la qualità simbolica di evocare, suggerire ed epifanare una figurazione attraverso una presenza figurata della trascendenza nel significato resistente. L’immaginario umano caratterizzato da un pensiero simbolico svela un pensiero per immagini, un pensiero indiretto generante “un hiatus di significati tra significante dato e significato richiamato al senso” (Durand Gilbert, 1996, p. 143), rivisitando la concezione di una realtà oggettiva distante e separata della comprensione che la pensa quando la “funzione fantastica oltrepassa il rimosso e la semiologia (…) ogni ricerca oggettiva si fa attorno e contro la funzione fantastica (…) poiché il dominio della ricerca oggettiva è per eccellenza il dominio del rimosso” (Durand Gilbert, 1992, p. 459-460).

    I periodi più significanti dello sviluppo dell’epistemologia contemporanea (Xiberras, 2002), la metodologia totalitaria della scienza positivista e la sua implosione dall’interno mentre il romanticismo apriva la strada ad altre conoscenze, elaborate sul potere dell’immaginazione e sul funzionamento della ragione fondato su altri dati che non le forme a priori della sensibilità, sono galvanizzate nei fondamenti di una teoria filosofica dell’indeterminazione in seno alla quale ciò che può divenire oggetto di conoscenza è sempre indeterminato. Il principio d’indeterminazione rappresenta così il terzo momento marcante dello sviluppo dell’epistemologia, una svolta epistemologica fondante una metafisica dell’immaginazione, un’antropologia simbolica consolidata attraverso una concettualizzazione della simmetria temporale e dello statuto dell’altrove (Durand Gilbert, 1995). L’ipotesi di una simmetria tra passato e futuro, la concezione newtoniana fissandoli una relazione d’asimmetria, colgono il tempo nell’ordine della successione, nella concezione einsteiniana la relatività nega unicamente un ordine unico ed assoluto, si traduce in una refutazione del principio di causalità efficiente. La meccanica quantistica, differenziandosi della meccanica classica, sostituisce la dicotomia passato / futuro con una tricotomia passato / futuro / altrove, “l’esistenza di una regione dell’altrove (…) un’intuizione che è difesa da molto tempo dai mistici (…) adesso è avanzata dai fisici. Questo non è senza conseguenze sul nostro modo di vedere la struttura del tempo” (Talbot, 1984, p. 124). Possiamo così distinguere l’altrove, una regione dello spazio e del tempo differenziata dal passato e dal futuro assoluto in relazione ad un evento (Hawking, 1989), e attraverso questa rappresentazione scientifica del tempo e del mondo il presente non ha uno statuto privilegiato, essendo un istante in relazione con il futuro ed il passato e facendo sussiste un rapporto analogo tra il presente con il qui e l’altrove (Pupolizio, 2002).

    Il risorgere del simbolico attraverso una semantica dell’altrove, caratterizza una scienza che non costituisce più il suo progetto sulla conoscenza della cause, è un determinismo condizionale e la teorizzazione del concetto di probabilità condizionale, con la teoria del simbolo, “colloca per così dire la causalità del simbolizzante in un simbolizzato spesso inaccessibile, altrove ma determinante la pluralità degli impatti simbolici (Durand Gilbert, 1995, p. 58). La “non-separabilità” e “l’altrove” caratterizzano in questo modo l’essenza del fenomeno attraverso una dislocazione e “questa dislocazione del fenomeno, come la sua stessa coesistenza di non-separabilità, il suo radicarsi per simmetria nell’altrove incita a pensare la nozione d’identità, questo principio d’identità che è il dogma di tutta l’epistemologia e della filosofia classica” (Durand Gilbert, 1995, p. 60). Il rigetto dei principi aristotelici d’identità, di contraddizione e del terzo escluso, ha generato una semantica (Bulla de Villaret, 1973) che si allontana da una visione statica del mondo, da possibilità fisse e opposte, ipotizzando un’infinità di possibilità, una nuove visione dell’Umanità e del mondo basate sui dati della fisica moderna. L’immaginazione simbolica, insieme alla fondazione di una metafisica simbolica, si è così opposta ad una rigida concezione semiologia del mondo fondata sul “trionfo dell’iconoclasticismo, il trionfo del segno sul simbolismo” dove “l’immaginazione, come la sensazione dell’altrove, è rigettata (…) in quanto padrona dell’errore” (Durand Gilbert, 2003, p. 24).

    L’ermeneutica dell’altrove come accesso al mito ed all’immaginario

    Il trionfo della spiegazione semiologica positivista è stato scosso dall’immaginazione comprendente in seno alla quale l’immagine simbolica e il simbolo sono la “trasfigurazione di una rappresentazione concreta attraverso un significato mai astratto”, e una “rappresentazione che fa apparire un significato segreto, l’epifania di un mistero” (Durand Gilbert, 2003, p. 12-13). Il carattere epifanico del mito, ad esempio, svelandoci la rivelazione di un’assenza situata nella regione dell’altrove, si dà una forma immaginaria e attraverso l’immagine ed il simbolo dispiega la sua capacità ed il suo potere motivante, generante e implicante dell’immaginario, consolidando la potenza della figurazione umana e concependo l’immaginario come principio organizzatore della vita sociale (Durand Gilbert, 1992). Il mito si definisce quindi come “sistema dinamico di simboli, d’archetipi e di schemi, sistema dinamico che, sotto l’impulso di uno schema, tende a comporsi in un racconto” (Durand Gilbert, 1992, p. 64), “fatto della pregnanza simbolica dei simboli che dispiega nel racconto” (Durand Gilbert, 1996, p. 77).

    La forma narrativa del mito (Westerhoff, 2005), il racconto né è la sua proprietà principale, è stata valorizzata rispetto al registro del discorso, quello del logos, ed in questo modo la spiegazione oggettiva ha cercato di padroneggiare il discorso mitico. Possiamo pervenire così ad una vera sovversione epistemologica quando “la famosa spaccatura tra logos e mythos, fra trivium e quadrivium, tra scienze dure e pure e saperi empirici, estetici, mistici, poetici, è contenuta in seno ad un’epistemologia generale rinnovata, unitaria nella sua diversità, sistemica e olistica” (Durand Gilbert, 1995, p. 49). Un approccio comprendente simbolico, “la rappresentazione comprendente che legifera e attribuisce significato alla cosa analizzabile” (Durand Gilbert, 1996, p. 62), si allontana sia da un approccio assoggettando dei processi attivi come i simboli o i miti alle pulsioni o alle inibizioni elementari, sia da un approccio d’interpretazione analizzante unicamente un sistema interiore agli individui come la società o l’ambiente socioculturale. Quest’approccio valorizza, in rottura con i metodi classici nelle scienze sociali, la dinamica dell’immaginario umano e la sua tendenza a non lasciarsi rinchiudere in una lettura interpretativa e lineare della vita, aggirando il movimento diacronico dell’esistenza sociale attraverso le profondità dei simboli e dei miti ed il loro agire simultaneo. I miti si definisco attraverso “il processo generatore di passaggio, di reversibilità semantica dal biologico (riflessologia) al culturale (sociologia)” (Durand Yves, 1988, p. 39), gli schemi e gli archetipi naturali che strutturano i miti, e il loro racconto, “il discorso razionalizzante” (Durand Yves, 1988, p. 39). Il mito e il logos possono in questo modo incrociarsi e riconciliarsi riunendo e riavvicinando l’unicità degli esseri e la pluralità delle rappresentazioni del mondo, collegando la doppia evoluzione del carattere simbolico del racconto mitico (Westerhoff, 2005): il movimento nel quale il discorso logico prevale sulla dimensione dell’immagine e del simbolo, e il movimento opposto di riduzione progressiva del mito che lascia il suo statuto narrativo per trasformarsi in simbolo.

    Il “sermo mythicus” diventa la matrice di ogni discorso (Durand Gilbert, 1996, p. 141), una matrice generatrice di significati, e “qualsiasi racconto (…) ha una profonda relazione con il sermo mythicus, il mito (…) modello e matrice di qualsiasi racconto” Durand Gilbert, 1996, p. 230). Il pensiero mitologico, l’idea che gli Dei dimorino nei nostri racconti, c’induce a credere al mito che dà forma all’intrigo (Hillman, 1984) ed alla trama della nostra esistenza, concependo l’identità degli esseri attraverso la storia o le storie della nostra vita. La partecipazione degli Dei a queste storie le fanno divenire dei miti, conferendo alla nostra biografia un carattere mitico [3] che c’introduce in un viaggio ed un’ermeneutica dell’altrove come accesso al mito ed all’immaginario. La funzione essenziale della mitologia conferisce una forma ed un significato al disordine dell’esperienza e del mondo (Eco, 1994), pervenendo ad unire insieme simbolismo, immaginario e reale attraverso la natura inseparabile del mito dal logos in questa relazione tra pensiero simbolico e mitologico (Morin, 1986). Il “sermo mythicus” si traduce in un racconto attraverso la sacralità del discorso che rende presente una memoria in grado di attualizzare dei valori fondanti, una coscienza attenta al sacro che ci costituisce. Il mito nella forma del racconto raggiunge le sorgenti di un orientamento epistemologico in grado di riunificate le scienze umani e sociali attorno ad una “mythodologie” della narrazione del mito (Durand Gilbert, 1996): una “mythocritique” dei racconti manifestati attraverso differenti linguaggi, un’analisi dei miti fondamentali e delle loro trasformazioni significative, ed una “mythanalyse” applicata all’insieme del discorso sociale di ogni società, in grado di tracciare una topica spazio-temporale dell’immaginario presente nelle produzioni culturali rispetto ad un’epoca specifica.

    L’epifania instaurativa e costitutiva dell’essere e della coscienza: l’antropologia del profondo rinnova la riflessione sulla svolta narrativa e valorizza la postura mitopoetica nella terapia del sé

    L’accento posto da un’ermeneutica instaurativa (Durand Gilbert, 2003) raffrontata con un’ermeneutica riduttiva, dove l’interpretazione del simbolismo ricerca una sua spiegazione in una cosmogonia pre-scientifica o riduce la comprensione del simbolo all’azione delle forze affettive oppure ai modelli culturali, postula al contrario una questione epistemologica critica nella quale “l’immaginazione simbolica ritrova una piena autonomia rispetto all’impero della logica e dell’identità” (Durand Gilbert, 2003 p. 65): in questa prospettiva il “simbolo ci svela un mondo e la simbolica fenomenologia esplicita questo mondo” (Durand Gilbert, 2003, p. 78). Due percorsi antagonisti di un’ermeneutica dell’immaginazione simbolica che tuttavia confluiscono in una teoria dell’immaginario (Durand Gilbert, 1992) la quale presuppone una loro convergenza, dopo averne “ripudiato i metodi puramente riduttivi che interessano unicamente l’epidermide semiologica del simbolo” (Durand Gilbert, 1996, p. 86), metodi che ricercano unicamente “una continuità con il privilegio razionalista” (Durand Gilbert, 1996, p. 86). Il concetto di tragitto antropologico (Durand Gilbert, 1992) mette quindi in relazione l’immaginario e la capacità di produrre delle immagini con la dimensione neuro-biologica e culturale connaturata all’homo sapiens, facendo risaltare una struttura figurativa specifica all’homo symbolicus e rendendo “intelligibili le configurazioni d’immagini, proprie di creatori individuali, d’agenti sociali o categorie culturali, individuando le figure mitiche dominanti, identificandone la loro tipologia e ricercando delle fasi di trasformazione dell’immaginario” (Wunenburger , 2003, p. 22-23).

    Un’antropologia del profondo ci permette in questo senso di desumere una logica dinamica e narrativa dell’immaginario, collegandoci alla prospettiva di un’ontologia simbolica (Bachelard, 1968) che riesca tuttavia a recuperare, e al tempo stesso, rovesciare e far convergere, le linee direttrici della scienza e dell’immaginazione: “bisogna penetrare nel magma dei deliri e dei sogni ed allontanarsi dalle vie rettilinee della ragione” (Durand Gilbert, 1996, p. 33). I collegamenti con la psicologia del profondo di Jung e le sue influenze nella nozione di storia clinica (Hillman, 1984), espressione dell’anima e possibilità di penetrare nella nostra storia interiore innescando l’immaginazione attiva nel racconto, nella costruzione della trama e del mito della nostra storia, recuperano altresì l’idea di una molteplicità degli archetipi che “costituiscono le matrici delle funzioni della coscienza, le strutture dominanti della psiche” (Durand Gilbert, 1988, p. 34). L’antropologia simbolica consente, infine, di rinnovare una riflessione sul ruolo della svolta narrativa, contraddistinta dall’esercizio dell’immaginario che assume una valenza terapeutica nella narrazione clinica, considerando la valenza poetica della narrazione (Wunenburger , 2003) che attraverso la costruzione della trama, la messa in scena di un mito, la mimesis, permette di generare e comprendere il significato dell’agire umano. La costruzione di una storia (Bruner, 2002) struttura la nostra visione del mondo nella narrazione e nel racconto di sé, dando forma alla nostra esperienza delle relazioni con noi stessi, gli altri e le cose del mondo. Le storie diventano narrazioni dove coesiste il passato ed il possibile in un divenire nel quale l’identità narrativa, la nostra ipseità (Ricoeur, 1985), si concepisce come processo di costruzione nella temporalità, permettendo di identificare un modello dinamico dell’identità generato dalle potenzialità poetiche della narrazione.

    Il processo relazionale nell’approccio clinico e l’incontro nella sua immediatezza, la presenza all’altro, l’istante presente come fondamento di un approccio fondato sulla centralità della persona, stimola un ascolto sensibile potenziando la libertà della persona nella relazione (Rogers, 1972). L’ascolto sensibile, prima ancora di situare una persona rispetto al suo ruolo e al suo statuto sociale, invita a riconoscere la persona in quanto “essere, nella sua qualità di persona complessa dotata di una libertà e di un’immaginazione creatrice” (Barbier, 1997, p. 293). L’ascolto sensibile dell’altro consente di sostenere la libertà e la creazione, rapportandosi ad un approccio clinico e terapeutico incentrato sulla persona, rifiutando al tempo stesso la violenza simbolica esercitata dalla figura del terapeuta. Nella terapia incentrata sulla persona si è manifestato questo fondamentale cambiamento del paradigma antropologico e terapeutico, concependo l’essere umano come persona. L’approccio transversale ci permette di riconoscere la dimensione mitopoetica del soggetto, “gli psicoterapeuti hanno riconosciuto poco alla volta il valore e la valenza mitopoetica nella cura” (Barbier, 1997, p. 198), come possibilità di un soggetto nuovo in grado di riequilibrare la visione della società, di se stesso e del mondo, e questo significa riconoscere e integrare l’immaginario come funzione psichica e della creatività simbolica (Durand Yves, 1988), dinamismo prospettico che attraverso le stesse strutture del progetto immaginario tenta di migliorare la situazione dell’uomo nel mondo.

    Come ascoltare questo immaginario? Rendendo operanti tre tipi d’ascolto (Barbier, 1997): scientifico-clinico, caratterizzato dal suo approccio centrato sul soggetto attraverso la metodologia della ricerca azione esistenziale e comunitaria; poetico-esistenziale, un’ermeneutica instaurativa che concepisce la persona dotata d’immaginazione e il suo modo di essere, creare, immaginare, inventare; spirituale-filosofico, ascolto dei valori e del significato della vita negli individui, nei gruppi e nelle comunità. Un ascolto mitopoetico si delinea infine attraverso questi tipi d’ascolto che si aprono verso altrettante forme dell’immaginario che devono essere messe in relazione (Barbier, 1997): un immaginario personale-pulsionale, come origine, processo e risultato che si fonda sulle pulsioni dell’essere umano; un immaginario sociale-istituzionale, creazione di significazioni sociali e dinamica dei rapporti di forza e significati; un immaginario-sacrale, impatto delle forze ed energie che ci attraversano senza poterle controllare.

    Attività auto-poietica e appropriazione o ri-appropriazione del proprio potere e del futuro come capacità creativa dell’immaginario

    Possiamo considerare le collettività e le persone collocate in un contesto sociale-storico (Poirier, 2004) e concepirle come esseri sociali-storici, forme ontologiche irriducibili all’agire individuale. Il sociale non è di conseguenza una somma di soggetti né un’intensa intersoggettività, poiché solo nel sociale sono possibili un soggetto ed un’intersoggettività anche trascendentali in quanto il sociale “è collettivo anonimo sempre istituito, nel e per il quale i soggetti possono manifestarsi, che li travalica indefinitamente (essi sono sempre rimpiazzabili e rimpiazzati) e che contiene in se stesso una potenza creatrice irriducibile alla co-operazione dei soggetti o agli effetti d’intersoggettività” (Castoriadis, 1990, p. 83). Il sociale e la società non sono riducibili ad un’epistemologia intersoggettiva e non possono essere ridotti ad un’opposizione semplificatrice e schematica, separando l’individuo e la società. Il legame tra clinica e storica che Castoriadis perviene a sintetizzare, esaminando l’attività della comunicazione e l’intercomprensione nella pratica pedagogica e psicanalitica, stabilisce il senso e la finalità dell’attività intersoggettiva nella possibilità di promuovere l’accesso dell’individuo alla sua autonomia, sostenendo “la sua capacità di mettersi in causa e di trasformarsi lucidamente” (Castoriadis, 1990, p. 83).

    L’autonomia, finalità di quest’attività intersoggettiva, caratterizza l’essere in quanto essere nella sua volontà di trasformazione nel dominio dell’esistenza individuale e collettiva, dandosi una forma sociale che comprende in ultima analisi anche una dimensione politica. E’ nel progetto d’autonomia individuale e sociale che noi possiamo cogliere come la collettività può esistere in quanto società istituita con i suoi significati immaginari, riconoscendo al tempo stesso e recuperando il suo carattere istituente. Il sociale-storico travalica qualsiasi intersoggettività, permettendoci di considerare le istituzioni che incarnano il sociale, l’istituito investito da un processo d’auto alterazione temporale, uno spazio d’istanze che si aprono ad una “auto-alterazione dell’istituzione sociale, opera dell’immaginario istituente” (Castoriadis, 1990, p. 163), uno spazio che consente di rimettere in questione le istituzioni sociali. La portata filosofica del concetto di sociale-storico, ignorato dalla stessa filosofia (Castoriadis, 1990, p. 311), sconvolge la classica spaccatura tra soggetto ed oggetto, fondamento di un pensiero che polarizza un soggetto o ego, e l’oggetto o mondo e “ciò che in questo modo resta occultato (…) è il sociale-storico che è sempre (…) il co-soggetto ed il co-oggetto del pensiero” (Castoriadis, 1990, p. 163).

    L’immaginazione concepita come potenza creatrice e forza emergente individua in Castoriadis il concetto dell’essere come magma di significati e significazioni immaginarie (Poirier, 2004), sviluppando l’idea di un legame fondamentale tra l’immaginario ed il pensiero (Barbier, 1997) dove l’immaginazione è creazione (Castoriadis, 1975), sia come immaginazione radicale, flusso rappresentativo affettivo intenzionale per la psiche-soma, sia come immaginazione sociale, flusso aperto collettivo anonimo per il sociale-storico o società istituente. Le finalità della pratica narrativa in ambito clinico sostengono la persona nell’elaborazione di attività poietiche e creatrici poiché la soggettività, concepita in quanto processo, una soggettività riflessiva e deliberante alla ricerca del suo divenire, è lontana da una visione statica dell’essere e dell’identità del soggetto. Il concetto di soggettività descrive essenzialmente un processo ed è possibilità di darsi un progetto d’autonomia, un’autonomia che si qualifica come quella “trasformazione del soggetto in modo tale che possa accedere a questo processo” (Castoriadis, 1990, p. 178). Progettare autonomie consapevoli e concepire il nostro divenire sono le stesse finalità della pedagogia che sostiene il divenire di un essere umano, “progetto necessariamente sociale, e non semplicemente individuale” (Castoriadis, 1990, p. 181) poiché una sociétà è autonoma se è consapevole del fatto “che si è istituita in modo tale da liberare il suo immaginario radicale ed essere in grado di alterare le sue istituzioni per mezzo della propria attività collettiva, riflessiva e deliberativa” (Castoriadis, 1990, p. 183). Il legame che la svolta narrativa ha plasmato con il costruttivismo, ricorrendo “a matrici interpretative di carattere generativo, relazionale, dinamico” (Formenti, 1998, p. 108), fondano una logica del divenire costitutiva del linguaggio che ci permette di non trascurare la dimensione politica dell’autonomia del soggetto e della società, concependo un’integrazione della riflessività, delle temporalità e del divenire incorporando elementi “etici, estetici, pragmatici e politici della nostra poetica” (Pakman, 2006, p. 71) e del nostro immaginario radicale e sociale.

    La centralità delle persone considerata attraverso una sociologia del profondo: la narrazione e la scrittura di sé come luogo della memoria e dell’immaginario per una poetica dell’esistenza

    La pretesa scientifica del razionalismo di cogliere gli aspetti simbolici dell’esperienza vissuta è inadeguata nel rendere conto dell’energia creatrice nelle sue molteplici manifestazioni della vita (Maffesoli, 2005), esaltando la rigidità dell’istituito a discapito della dinamica dell’istituente. Possiamo riflettere in questo senso, incoraggiati da una sociologia del profondo, sui molteplici significati che alcune figure mitiche ci suggeriscono sulla relazione tra logos e immaginazione poetica, un’estetica dell’esistenza raffigurata nella tensione che le Dee Mnemosine ed Hestia rivelano e fanno convergere nell’accezione del termine greco “epimeleia heautou”, cura di sé, mettendo in relazione l’immaginazione rispettivamente con la riflessività e la volontà, ed in modo transustanziale l’ambito della politica con quello dell’anima. Mnemosine, personificazione della memoria, Dea della mitologia greca, figlia di Gaia e d’Urano, diede vita insieme con Zeus alle nove Muse dell’Olimpo, cantatrici divine che presiedono il pensiero in tutte le sue espressioni. Madre della storicità e della meditazione è l’archetipo dell’anima nella storia clinica (Hillman, 1984), meditazione del sé che in una prospettiva terapeutica può riuscire a dare impulso ad un progetto d’autonomia.

    L’attività poietica e creativa della memoria e del pensiero, è un’attività ascritta alla dimensione politica dove la questione dell’autonomia, non solo individuale ma anche sociale, sposta l’attenzione dal “monopolio della violenza legittima” al “monopolio della parola legittima”, collocando la presa di parola nel giogo del “monopolio del significato valido” (Castoriadis, 1990, p. 150). Un’ermeneutica dell’ ‘altrove’ potrebbe non riuscire a far emergere le significazioni del pensiero simbolico e il desiderio dell’immaginario dal magma della psiche-soma e del sociale-storico, confrontandosi con la “credenza nella legittimità” che il monopolio della parola legittima e del significato valido suscitano e alimentano in una radicata “fede nella propria legittimità”? (Weber, 1995, p. 208) Il concetto dell’uso legittimo ed esclusivo della violenza, da parte di diversi tipi di potere, mette in rilievo la “pretesa della legittimità” (Weber, 1995, p. 208) nella quale possiamo riconoscere una forma di monoteismo, fondato sul triplice monopolio di violenza-parola-significato contro il quale si erge il silenzio di un'altra figura del pensiero mitologico greco: la figura di Hestia (Humeau, 2006, p. 43). Dea dell’intimità e dell’interiorità, Dea silenziosa e immobile il cui mito “parla senza parlare (…). Hestia è silenziosa come tutte le statue (…), il silenzio parla il linguaggio delle pietre, della scatola nera e della morte (…); le statue sono il riferimento dell’erranza, il punto fisso attorno al quale si fondono e si raccolgono i sentieri” (Humeau, 2006, p. 43). Il silenzio di Hestia, contrapposto al mito di Edipo nel quale quest’ultimo prende coscienza attraverso la parola, rivela una Dea silenziosa e immobile, presente attraverso un linguaggio del silenzio dal quale non emerge la parola, il logos. Nell’assenza della parola e nella trasgressione dell’immaginario della permanenza, dove Hestia è la Dea del focolare domestico e della polis greca, di una Terra immobile al centro del cosmo, il mito di Hestia esalta la ricchezza dell’interiorità, narrazione silenziosa del profondo che si erge contro il monoteismo della parola. La figura femminile della Dea rappresenta i silenzi attraverso i quali essa si rende presente ed in questa presenza-assenza esprime, attraverso l’ascolto sensibile dell’anima, tutto ciò che non può essere evocato o rivelato con un discorso ragionato. Le due Dee, Mnemosine ed Hestia, ci collegano alla cura verso se stessi e gli altri dove la narrazione e la scrittura di sé diventano arte dell’esistenza, attività auto-poietica in grado di attualizzare un immaginario creatore e trasformatore dell’esistenza, sostenendo dei progetti d’autonomia e trasformazione di sé.

    Le conseguenze prodotte dalla svolta narrativa, le nuove prospettive che autorizzano le stesse pratiche narrative a valorizzare la nostra storia e la storia dell’altro, quell’altro che è in noi e al di fuori di noi, ci permettono di rivelare una coscienza costituita da ciò che è anche estraneo a noi stessi facendoci scoprire il diritto all’estraneità dell’altro e valorizzando l’alterità nell’accompagnamento alla narrazione e alla scrittura di sé. Nella predisposizione delle condizioni che permettono di “prendere la parola per costruire un discorso su di sé” si delinea il concetto di empowerment inteso come quell’ “emancipazione che avviene attraverso l’arte e il progetto di esistere” o “attraverso la revisione critica delle condizioni materiali di vita e la ricerca di una pratica collettiva” (Formenti, 1998, p. 132). Nella scrittura autobiografica “è l’immaginario autobiografico che facilita, per un verso, la scrittura personale” (Demetrio, 1996, p. 53), e il fatto di dedicarsi “al lavoro di scrittura in senso proprio della nostra storia” (Demetrio, 1996, p. 52), l’autobiografia come cura di sé, rafforza l’identità e l’autostima attraverso uno spazio di riflessione che si caratterizza come momento d’auto-formazione esperienziale. Momento al tempo stesso generativo e trasformativo che rende possibile uno slancio vitale come bisogno di rinascita, dove la dimensione della parola e della scrittura diventano opera di riparazione, poiché “l’autobiografia è quanto di meglio sia in grado di testimoniare la nostra libertà di parola, di opinione, di visione - assolutamente personale - dei drammi e delle situazioni esistenziali della vita: connessi alla crescita, all’amore, alle responsabilità, al diritto, al benessere se non proprio alla felicità, al dolore e alla morte” (Demetrio, 2006, p. 27).

    I dispositivi autobiografici, la presa di parola che si trasforma nella scrittura personale, stimolano percorsi riflessivi di significazione e ri-significazione, d’auto-consapevolezza orientati al sé e dischiusi verso nuove possibilità, verso un altro esistente possibile. Laddove la centralità della persona diventa una sorta di nuovo paradigma della nostra era, è necessario il riconoscimento della cittadinanza alla parola, non espropriando i soggetti e gli attori sociali della loro storia e valorizzando il patrimonio della memoria e delle memorie dei nostri territori. Prendersi cura della nostra storia, della nostra persona, attraverso un’attività auto-poietica, una rappresentazione della condizione esistenziale che recupera l’immaginario, riavvicina l’universo simbolico e le sue capacità creatrici collocandole in una tricotomia che mette in relazione il passato, il futuro e l’altrove. Radicati in una dinamica sociale (Maffesoli, 2005) che sollecita una rappresentazione comprendente, assicurando il legame tra il passato ed il futuro e assegnando un posto di primo piano alla passione ed all’emozione insieme alla ragione, possiamo verosimilmente valutare una retroazione del futuro sul passato (Durand Gilbert, 1995) dove il richiamare alla memoria ci consente di ricordarci del futuro (Batini e Zaccaria, 2002), costruire e scrivere il futuro. La nozione di empowerment come opportunità e condizioni adeguate alla diffusione del potere, il potere di essere se stessi attraverso un’appropriazione o ri-approriazione di sé in una dimensione transizionale, facilita l’acquisizione di una maggiore consapevolezza della propria storia di vita e sostiene la capacità di progettarsi nel mondo e nella relazione con gli altri e le cose del mondo. La pratica autobiografica emerge quindi come spazio transizionale (Wieder, 2005) che possiamo concepire in quanto estetica dell’esistenza (Harrer, 2001-2002), dove la narrazione e la scrittura della nostra storia operano un effetto di transustanziazione che trasforma la vita in opera d’arte, definendo uno spazio dell’immaginario capace di reincantare se stessi ed il mondo.


    NOTE

    1] Non è difficile comprendere le resistenze di Popper quando ci mostra il dispiegarsi di differenti rappresentazioni e di posture epistemologiche delle scienze: «Il n’y a point dans la mécanique quantique d’argument spécifique contre le déterminisme (…) rien dans le domaine de la mécanique quantique ne justifie la thèse selon laquelle le déterminisme est réfuté, parce que incompatible avec la mécanique quantique» (Popper, 1991, p. 127-128).
    2] Boudon (1991), citato da Cullati (2000), presenta i metodi quantitativi e qualitativi, ripartiti tra storicismo, strutturalismo e funzionalismo, come esempio di metodi semiologici o classici.
    3] Hillman cita B. Simon et H. Weiner.


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