Comunità e relazioni sociali su internet
Nicola Cavalli - Oscar Ricci - Elisabetta Risi (a cura di)
M@gm@ vol.4 n.1 Gennaio-Marzo 2006
OPERA APERTA: WKIPEDIA E L’ORALITÀ SECONDARIA
     Tommaso Venturini
tommaso.venturini@unimib.it
        Università degli Studi di Milano.
Chi studia la 
                    comunicazione è spesso preso tra due pericoli opposti: da 
                    un lato, il rischio di sottovalutare l’influenza dei media, 
                    riducendoli a condutture asettiche lungo le quali i messaggi 
                    scorrono incontaminati; dall’altro lato, il rischio di sopravvalutare 
                    il ruolo dei media, attribuendogli il potere di determinare 
                    il corso della comunicazione e in ultima istanza dell’intera 
                    società. Da un lato, il pericolo di disconoscere gli effetti 
                    degli schermi mediatici; dall’altro, il pericolo di nascondere 
                    la complessità dei fenomeni comunicativi sotto la coperta 
                    dell’influenza mediale [1]. Chi studia la 
                    comunicazione si trova nell’imbarazzo in cui dovette trovarsi 
                    Bertoldo, protagonista di una celebre opera della tradizione 
                    ciarlatanesca italiana. Ne Le sottilissime astuzie di Bertoldo 
                    (1606) di Giulio Cesare Croce, Re Alboino ordina a Bertoldo 
                    di presentarsi l’indomani “né nudo né vestito”. Per obbedire 
                    al comando, Bertoldo ritorna il giorno seguente “involto in 
                    una rete da pescare". Vedendolo così abbigliato il Re lo incalza:
                    Re: Perché sei tu comparso così alla presenza mia?
                    Bertoldo: Non dicesti tu ch'io tornassi a te questa mane e 
                    che io non fosse né nudo né vestito?
                    Re: Sì, dissi.
                    Bertoldo: Ed eccomi involto in questa rete, con la quale parte 
                    copro delle membra, e parte restano scoperte.
                    Txell Miras, giovane stilista spagnola, ha trovato una soluzione 
                    più elegante al paradosso di Re Alboino. Nell’edizione 2006 
                    della Pasarela Gaudi di Barcellona, la Miras ha presentato 
                    l’abito ritratto in figura 1. Con più efficacia di un trattato 
                    di semiotica, questo vestito ci ricorda che la relazione tra 
                    segno e referente non è una semplice relazione d’identità. 
                    Per quanto si assomiglino, per quanto siano contigui, la fotografia 
                    e il corpo della modella non sono la stessa cosa. Anzi, almeno 
                    in questo caso, la funzione dell’immagine è esattamente quella 
                    di sottrarre il referente all’osservazione diretta. Il segno 
                    vela il suo riferimento proprio quando lo indica più chiaramente. 
                    Coperte dal quadro della fotografia, le forme della modella 
                    non sono immediatamente accessibili allo sguardo. Allo stesso 
                    tempo, tuttavia, è evidente che l’abito non è ideato per nascondere 
                    il fisico dell’indossatrice. Al contrario, la mise ha il compito 
                    di incorniciare e mettere in risalto la bellezza della ragazza. 
                    Come in ogni defilé, infatti, il vero oggetto dell’esposizione 
                    non sono le indossatrici, ma gli abiti che indossano. Inscrivere 
                    il corpo della modella nella materia del vestito è dunque 
                    l’unico modo per trasformare quel corpo da semplice supporto 
                    o manichino in oggetto dell’attenzione. Né il gioco di specchi 
                    tra segno e referente finisce qui. Per noi (come per tutti 
                    coloro che non erano presenti alla sfilata) è assolutamente 
                    indifferente che l’immagine schermi il corpo della modella, 
                    giacché, in ogni caso, vestito e indossatrice ci si presentano 
                    attraverso la mediazione fotografica.
![]()  | 
                    
| Fig. 1 – Abito di Txell Miras (fotografia di Kshoot per Vogue.es) | 
Txell Miras non è ovviamente la 
                    prima ad aver affrontato il paradosso dell’ostensione/occultamento 
                    implicito nei processi semiotici. Il quadro di René Magritte 
                    riportato in figura 2 è dedicato al medesimo tema. Les Deux 
                    Mystères è l’ultima versione di una serie di opere in cui 
                    il pittore belga riflette sul problema della relazione-distinzione 
                    semiotica. L’accostamento dei due disegni di pipa e della 
                    scritta “ceci n’est pas un pipe” produce l’effetto straniante 
                    di separare l’immagine dall’oggetto che rappresenta. Esattamente 
                    come l’abito della Miras, il dipinto di Magritte mette in 
                    discussione la continuità tra segno e referente. Il senso 
                    dell’operazione non è sfuggito a Michel Foucault che a questo 
                    quadro ha dedicato un saggio molto brillante, di cui riportiamo 
                    un estratto.
                    
                    Tutto è solidamente ormeggiato all’interno di uno spazio scolastico: 
                    una lavagna «mostra» un disegno che «mostra» la forma di una 
                    pipa; e un testo scritto da un maestro zelante «mostra» che 
                    si tratta davvero di una pipa. L’indice del maestro non si 
                    vede, ma regna dovunque, come la sua voce, che sta articolando 
                    molto chiaramente: «Questo è una pipa». Dalla lavagna all’immagine, 
                    dall’immagine al testo, dal testo alla voce, una sorta di 
                    dito indice generale è puntato, mostra, fissa, segnala, impone 
                    un sistema di rimandi, tenta di stabilizzare uno spazio unico. 
                    Ma perché ho introdotto anche la voce del maestro? Perché 
                    non appena essa ha detto «Questo è una pipa», ha dovuto correggersi 
                    e balbettare: «Questo non è una pipa, ma il disegno di una 
                    pipa», «Questo non è una pipa, ma una frase che dice che è 
                    una pipa», «La frase: “Questo non è una pipa” non è una pipa 
                    »; «Nella frase: “Questo non è una pipa”, questo non è una 
                    pipa: il quadro, la frase scritta, il disegno di una pipa, 
                    tutto questo non è una pipa».
                    
                    Le negazioni si moltiplicano, la voce si imbroglia e soffoca; 
                    il maestro, confuso, abbassa l’indice teso, volta le spalle 
                    alla lavagna, osserva gli alunni che si torcono dalle risate 
                    e non si rende conto che essi ridono così forte perché sopra 
                    la lavagna e sopra il maestro che farfuglia le sue smentite 
                    si è appena alzato un vapore che ha preso forma a poco a poco, 
                    e che ora disegna con molta precisione una pipa. « E una pipa, 
                    è una pipa » gridano gli alunni battendo i piedi, mentre il 
                    maestro, a voce sempre più bassa, ma sempre con la stessa 
                    ostinazione, mormora senza che ormai nessuno lo ascolti: «Eppure 
                    questo non è una pipa». Non ha torto: perché la pipa che fluttua 
                    così visibilmente sopra la scena, al pari della cosa cui si 
                    riferisce il disegno della lavagna, e in nome di cui il testo 
                    può dire a ragione che il disegno non è veramente una pipa, 
                    anche quella pipa non è che un disegno (Foucault,1973, pp. 
                    38-40 trad. it.) 
                  
![]()  | 
                    
| Fig. 2 – Les Deux Mystères (René Magritte, 1966) | 
Il lettore ci scuserà se ci soffermiamo 
                    un poco sulla distinzione-relazione semiotica. È necessario, 
                    prima di affrontare la questione della mediazione comunicativa, 
                    mettere in chiaro il paradosso per cui segno e referente non 
                    sono la medesima cosa e, contemporaneamente, non sono cose 
                    del tutto diverse. Per definizione, un segno è un qualcosa 
                    che rimanda ad altro, un indice che punta verso un referente 
                    [2]. Sciolto dal legame con il proprio referente, 
                    un segno non è più tale. Eppure, come giustamente osserva 
                    Umberto Eco (1984), la strada che va dal segno al referente 
                    non passa mai per un rapporto d’identità, ma sempre per un 
                    rapporto d’inferenza:
                    Si vede come fosse discutibile la condanna del segno impostata 
                    sull’imputazione di uguaglianza, similitudine, riduzione delle 
                    differenze. Questa condanna dipendeva dal ricatto del segno 
                    linguistico ‘piatto’ inteso come correlazione fondato sulla 
                    equivalenza senza sbocchi, sostituzione di identico a identico. 
                    Invece il segno è sempre ciò che mi apre a qualcosa d’altro. 
                    Non c’è interpretante che nell’adeguare il segno che interpreta, 
                    non ne sposti sia pure di poco i confini (p. 52).
                    Un segno, dunque, non è mai la copia esatta del suo referente, 
                    né è correlato ad esso tramite un legame naturale. La connessione 
                    tra segno e referente è sempre il risultato di un’operazione 
                    (distinzione-relazione) di interpretazione. Tale operazione 
                    è appunto la comunicazione. 
                    
                    Il mezzo è il messaggio
                    
                    Come ci accingiamo a mostrare, la definizione di comunicazione 
                    che abbiamo suggerito ci mette al riparo dal primo dei pericoli 
                    di cui abbiamo detto all’inizio. L’equivoco che riduce i media 
                    a semplici dispositivi per il trasporto di messaggi indipendenti, 
                    non è infatti compatibile con l’idea di comunicazione come 
                    processo inferenziale che distingue e collega segni e referenti. 
                    Tale equivoco deriva direttamente dalla tentazione di confondere 
                    il problema della comunicazione, con la questione (assai più 
                    lineare) del mero trasferimento di segnali.
                    
                    Nella moderna riflessione sui media, tale tentazione ha trovato 
                    la sua più influente manifestazione nell’infelice scelta di 
                    Claude Shannon di titolare il suo più celebre articolo “A 
                    Mathematical Theory of Communication” (1948). In effetti, 
                    fin dalle prime righe dell’articolo, l’ingegnere americano 
                    ammette - molto onestamente - che egli intende occuparsi esclusivamente 
                    della dislocazione dei messaggi, non della loro interpretazione:
                    Il problema fondamentale della comunicazione è quello di riprodurre 
                    in un punto, in modo esatto o quasi, un messaggio che è stato 
                    selezionato in un altro punto. Spesso questi messaggi hanno 
                    un significato, vale a dire che essi si riferiscono, o sono 
                    correlati secondo un sistema, a certe entità fisiche o concettuali. 
                    Questi aspetti semantici sono irrilevanti dal punto di vista 
                    dell’ingegneria (p. 379, traduzione mia). 
                  
![]()  | 
                    
| Fig. 3 – Struttura di un sistema di trasmissione di messaggi secondo Shannon (schema originale) | 
Dopo questa doverosa premessa, 
                    Shannon passa a schematizzare la struttura tipo della trasmissione 
                    di segnali e osserva che essa è costituita molto semplicemente 
                    da un emittente che invia un messaggio a un ricevente attraverso 
                    un canale. Talora, può accadere che il messaggio non giunga 
                    invariato al ricevente. Lungo il canale, infatti, possono 
                    verificarsi delle alterazioni dovute alla presenza di rumore. 
                    Il problema dell’ingegneria della comunicazione diviene allora 
                    quello di codificare i messaggi in modo da trasformarli in 
                    segnali che possano essere trasferiti con la minor corruzione 
                    possibile.
                    
                    Dal punto di vista tecnico, la semplificazione di Shannon 
                    si è dimostrata straordinariamente fertile. Senza di essa 
                    la rivoluzione digitale e telematica non sarebbe stata possibile 
                    e oggi non saremmo qui a parlare di Wikipedia. Purtroppo però 
                    la seducente linearità dello schema presentato in figura 3 
                    ha convinto alcuni autori a ritenere che la teoria di Shannon 
                    potesse essere usata per rappresentare l’intero processo della 
                    comunicazione umana. Tale forzatura ha generato alcuni gravi 
                    equivoci, tra cui l’idea che tutte le trasformazioni prodotte 
                    sui messaggi nel corso della comunicazione possano essere 
                    ridotte a mero rumore. Ecco, allora, che anche l’influenza 
                    dei media può essere (ingiustamente, ma coerentemente) liquidata 
                    come un’interferenza accidentale ed evitabile.
                    
                    Se, invece, come abbiamo cercato di fare in questo articolo, 
                    abbandoniamo la nozione di comunicazione come trasmissione, 
                    a favore di una nozione più realistica di comunicazione come 
                    interpretazione, allora ci si rivelerà chiaramente come l’alterazione 
                    dei segni nel corso del processo di mediazione non sia una 
                    fonte d’imprecisione, ma il processo stesso attraverso cui 
                    si costituisce la relazione tra segno e referente. Ci avviciniamo 
                    dunque al senso del celebre slogan di Marshall McLuhan “the 
                    medium is the message”. Il mezzo è il messaggio, sostiene 
                    lo studioso canadese, giacché la natura del mezzo influenza 
                    l’interazione ancor più del suo stesso contenuto, come dimostra 
                    l’osservazione che la comunicazione non è priva di senso nemmeno 
                    quando è priva di contenuto.
                    
                    La luce elettrica sfugge all’attenzione come mezzo di comunicazione 
                    esattamente per il fatto di non avere “contenuto”. E ciò la 
                    rende un esempio inestimabile di come le persone sbaglino 
                    completamente nell’analisi dei media. Infatti, la luce elettrica 
                    non viene notata come medium fino a quando non viene usata 
                    per scrivere il nome di qualche marca. E anche allora non 
                    è la luce, ma il “contenuto” a essere notato. Come il messaggio 
                    dell’energia elettrica nell’industria, il messaggio della 
                    luce elettrica è totalmente radicale, pervasivo e decentralizzato. 
                    La luce e l’energia elettrica sono separati dai loro usi e 
                    tuttavia eliminano lo spazio e il tempo nelle associazioni 
                    umane creando un coinvolgimento profondo, esattamente come 
                    la radio, il telegrafo, il telefono e la televisione (1964, 
                    p. 9, traduzione mia).
                    
                    L’osservazione di McLuhan è ripresa nell’installazione di 
                    Bruce Nauman riportata in figura 4. “None Sing–Neon Sign” 
                    riassume molto bene l’argomentazione che abbiamo sviluppato. 
                    L’accostamento degli anagrammi è infatti inteso a rivelare 
                    l’arbitrarietà del legame tra segno e referente, che, lungi 
                    dall’essere naturale, si costituisce attraverso le convenzioni 
                    linguistiche e il contesto dell’a interpretazione. Tale è 
                    l’influenza dei linguaggi e dei canali che mediano i processi 
                    comunicativi. Nell’installazione, questa influenza è rappresentata 
                    dall’imporsi visivo dei tubi al neon. Così come nella riflessione 
                    di McLuhan, il vero protagonista è qui il medium elettrico, 
                    la luce che disegna nel buio le lettere degli anagrammi: il 
                    mezzo è il messaggio.
                    
                  
![]()  | 
                    
| Fig. 4 – Bruce Nauman, None Sing–Neon Sign | 
Un’evoluzione verso 
                    il passato
                    
                    Per quanto brillante, l’intuizione di McLuhan contiene, nondimeno, 
                    una tentazione dalla quale dovremo guardarci: il rischio di 
                    sconfinare nella seconda semplificazione di cui abbiamo detto, 
                    finendo per sopravvalutare l’influenza dei mezzi di comunicazione. 
                    In particolare, occorre evitare di applicare alla comunicazione 
                    la logica del determinismo tecnologico, vale a dire di quella 
                    concezione che attribuisce alla tecnologia un ruolo dominante 
                    ed esclusivo nel determinare i fenomeni sociali. Questo genere 
                    di sopravvalutazione riguarda tutte le tecnologie[3] 
                    e, tuttavia, risulta particolarmente accentuato nel caso delle 
                    tecnologie mediatiche. Se è ingenuo credere che i mezzi di 
                    comunicazione siano mediatori neutrali di messaggi autonomi, 
                    è altrettanto ingenuo pensare che un’innovazione nel campo 
                    dei media, per quanto rivoluzionaria, possa dare inizio a 
                    una nuova era del vivere sociale. Eppure questo è esattamente 
                    quello che, più o meno esplicitamente, sostengono molti studiosi 
                    dei media.
                    
                    Un esempio particolarmente radicale di questa tesi si può 
                    far risalire allo stesso McLuhan e alla sua nozione di ‘“villaggio 
                    globale’”. Secondo McLuhan, la diffusione dei media elettronici 
                    ha innescato, nell’Ooccidente moderno, un irreversibile processo 
                    di ‘“retribalizzazione’”. Tale processo consiste nel ritorno 
                    a uno stile di vita e di pensiero, simile a quello delle comunità 
                    tradizionali. Superando la frammentazione e la specializzazione 
                    generate dalle tecnologie della scrittura e della stampa, 
                    l’uomo moderno si ritrova immerso nel contesto immediato e 
                    coinvolgente dei media elettronici: “as electrically contracted, 
                    the globe is no more than a village” (una volta contratto 
                    dall’elettricità il globo non è più che un villaggio). Non 
                    si tratta soltanto dell’accorciamento delle distanze dovuto 
                    alla velocità dei nuovi media[4], ma del 
                    ritorno a forme di percezione e organizzazione olistiche e 
                    tribali.
                    
                    Una gerarchia feudale di tipo tradizionale collassa rapidamente 
                    quando incontra un media caldo di tipo meccanico uniforme 
                    e ripetitivo. Il mezzo del denaro, della ruota, della scrittura 
                    ovvero di ogni altra forma specializzata nel velocizzare lo 
                    scambio di informazioni servirà a frammentare una struttura 
                    tribale. Analogamente, una velocità molto più elevata, come 
                    quella che accompagna l’elettricità, può servire a restaurare 
                    un tessuto tribale di inteso coinvolgimento. Così è successo 
                    in Europa con l’introduzione della radio e così tende a succedere 
                    ora in America come conseguenza della televisione. Le tecnologie 
                    specialistiche detribalizzano. La tecnologia non-specialistica 
                    dell’elettricità ritribalizza (McLuhan, 1964, p. 24, traduzione 
                    mia).
                    
                    La nozione di villaggio globale è interessante perché introduce 
                    nella storia dei media una sorta di evoluzione verso il passato. 
                    In implicita polemica con il mito occidentale di un progresso 
                    tecnologico lineare e continuo[5], McLuhan 
                    (1964) propone l’idea di un’evoluzione mediale fatta di rotture 
                    ricorrenti e rovesciamenti radicali. Secondo il pensatore 
                    canadese, il percorso della tecnologia è costellato da periodici 
                    punti di svolta, soglie d’intensità oltre le quali lo sviluppo 
                    di una tecnica si trasforma nel suo opposto.
                    
                    Oggi con i microfilm e le micro-schede, per non menzionare 
                    i dispositivi di memorizzazione elettronica, la parola stampata 
                    assume di nuovo molto del carattere artigianale del manoscritto. 
                    D’altra parte, la stampa a caratteri mobili è stata essa stessa 
                    un fondamentale momento di rottura nella storia della scrittura 
                    fonetica, esattamente come l’alfabeto fonetico era stato un 
                    momento di rottura tra l’uomo tribale e quello individualistico 
                    (p. 39, traduzione mia).
                    
                    Come molta parte della riflessione di McLuhan, l’idea del 
                    “reversal of the overheated medium” (rovesciamento dei media 
                    surriscaldati) rimane una suggestione interessante, ma vagamente 
                    definita. Forse proprio per questo, la tesi di un’evoluzione 
                    verso il passato, della ricomparsa nella modernità di schemi 
                    caratteristici delle comunità tradizionali, si è prestata 
                    a essere ripresa e sviluppata da tanti studiosi successivi. 
                    Tra le numerose teorie ispirate alla nozione di villaggio 
                    globale, è particolarmente degna d’attenzione quella sviluppata 
                    da Walter Ong. In “Orality and Literacy, the Technologizing 
                    of the Word” (1982), Ong riprende esplicitamente la tesi di 
                    McLuhan e afferma:
                    
                    Con il telefono, la radio, la televisione e i vari tipi di 
                    nastri da registrare, la tecnologia elettronica ci ha condotti 
                    in un era di ‘oralità secondaria’. Questa nuova oralità ha 
                    sorprendenti somiglianze con quella più antica per la sua 
                    mistica partecipatoria, per il senso della comunità, per la 
                    concentrazione sul momento presente e persino per la sua utilizzazione 
                    delle formule… L’oralità secondaria è molto simile, ma anche 
                    molto diversa da quella primaria. Come quest’ultima, anche 
                    la prima ha generato un forte senso comunitario, perché chi 
                    ascolta le parole parlate si sente un gruppo, un vero e proprio 
                    pubblico di ascoltatori, mentre la lettura di un testo scritto 
                    o stampato fa ripiegare gli individui su di sé. Ma l’oralità 
                    secondaria genera il senso di appartenenza a gruppi incommensurabilmente 
                    più ampi di quelli delle culture ad oralità primaria, genera 
                    cioè il ‘«villaggio universale’» di McLuhan (p. 191, trad. 
                    it.)
                    
                    Va subito rilevato che, a differenza di McLuhan, Ong è interessato 
                    solo tangenzialmente agli sviluppi moderni delle tecnologie 
                    della comunicazione. L’opera del pensatore gesuita è dedicata 
                    principalmente allo studio delle trasformazioni dovute alla 
                    diffusione della scrittura e della stampa. Egli accenna infatti 
                    solo di sfuggita alla possibilità di un ritorno a forme di 
                    oralità secondaria, mentre analizza in dettaglio le innovazioni 
                    tecnologiche che hanno portato al superamento dell’oralità 
                    primaria. Proprio per questo, però, le tesi sviluppate in 
                    “Oralità e scrittura” offrono un’esemplificazione più precisa 
                    del determinismo tecnologico e mediale. Concentrandosi su 
                    un problema più ristretto, Ong distingue con maggior chiarezza 
                    le caratteristiche delle culture orali e di quelle chirografiche 
                    ed è più netto nel ricondurle alla natura dei mezzi di comunicazione 
                    disponibili. Rispetto alle suggestioni del villaggio globale, 
                    dunque, l’ipotesi dell’oralità secondaria suggerisce uno schema 
                    più definito per indagare i più recenti sviluppi della modernità 
                    mediatica.
                  
Tribù telematiche
                    
                    Come abbiamo detto, Ong non ha mai davvero approfondito l’ipotesi 
                    dell’oralità secondaria. Tuttavia non sono mancati gli autori 
                    che, riprendendo tale ipotesi, hanno cercato di evidenziare 
                    gli effetti retribalizzanti dei nuovi media. Curiosamente, 
                    agli occhi dei successivi studiosi dei media, è parso che 
                    fossero soprattutto le tecnologie telematiche a realizzare 
                    le previsioni che Ong e McLuhan avevano sviluppato con riferimento 
                    ai mezzi di ‘broadcasting’ (tipicamente la radio e la televisione). 
                    Ciò è tanto più curioso nel caso dell’oralità secondaria, 
                    giacché Ong stesso (1982) aveva esplicitamente sostenuto che 
                    le tecnologie informatiche andassero piuttosto nella direzione 
                    di rafforzare gli effetti dell’alfabetizzazione.
                    
                    L’elaborazione e la spazializzazione sequenziali delle parole 
                    infine, iniziate con la scrittura e intensificate dalla stampa, 
                    hanno ricevuto infine ulteriore impulso dal computer, che 
                    massimizza l’affidamento della parola allo spazio e al movimento 
                    (elettronico) locale e ottimizza la sequenza analitica, rendendola 
                    praticamente istantanea (p. 191 trad. it.).
                    
                    Occorre però rilevare che Ong scriveva agli esordi della rivoluzione 
                    informatica e di essa aveva potuto osservare soltanto l’impiego 
                    nell’elaborazione dei dati. Sono, invece, le potenzialità 
                    ipertestuali e connettive di Internet ad aver colpito gli 
                    autori successivi[6].
                    
                    Discuteremo ora le teorie di alcuni autori che hanno cercato 
                    di applicare la nozione di oralità secondaria alla comunicazione 
                    in Internet. Non potendo, in questo breve articolo, citare 
                    tutti i contributi all’idea di ritribalizzazione telematica, 
                    abbiamo deciso di limitarci a quelli che sono stati pubblicati 
                    originariamente sulla Rete. Ciò non perché questi interventi 
                    siano i migliori, ma perché riteniamo interessante mostrare 
                    la riflessione che i gruppi telematici hanno sviluppato riflessivamente 
                    circa le proprie modalità di comunicazione.
                    
                    Uno dei primi utenti della Rete ad aver notato che la diffusione 
                    della comunicazione mediata dal computer costituiva una sostanziale 
                    rivoluzione nel panorama mediale è Steven Harnad (1991). Pur 
                    senza riferirsi esplicitamente alla nozione di oralità secondaria, 
                    Harnad rileva come l’accelerazione della mediazione telematica 
                    sia destinata a condurre la società occidentale verso una 
                    ‘“galassia post-gutemberghiana’”, riportando lo scambio intellettuale 
                    alla velocità tipica della discussione orale:
                    
                    Mentre il linguaggio parlato si adatta facilmente alla capacità 
                    d’emissione e ricezione del pensiero umano – e ciò forse per 
                    riflesso del fatto di poter contare su un hardware neurologico 
                    dedicato – la scrittura è in un certo senso fuori sincronia 
                    con il pensiero. È lenta … Il fatto è che il medium della 
                    scrittura è, senza rimedio, fuori sincronia con il meccanismo 
                    del pensiero umano e con la velocità d’interazione che esso 
                    avrebbe se solo ci fosse un medium che potesse supportare 
                    il necessario feedback di ritorno, in tempo giusto![7] 
                    Senza rimedio, fino all’avvento della quarta rivoluzione cognitiva 
                    che ha reso possibile riportare la comunicazione accademica 
                    ad un tempo molto più vicino al potenziale naturale del cervello 
                    (traduzione mia).
                    
                    Un paio d’anni dopo l’articolo di Harnad, nel 1993, Howard 
                    Rheingold pubblica online e su carta un testo destinato a 
                    influenzare enormemente la cultura della Rete. In “The Virtual 
                    Community”, il giornalista americano racconta e analizza la 
                    sua esperienza di comunicazione nella comunità del WELL (Whole 
                    Earth 'Lectronic Link). La tesi avanzata da Rheingold, e in 
                    seguito ripresa da moltissimi autori, è che le tecnologie 
                    della comunicazione mediata dal computer (CMC) favoriscano 
                    l’aggregazione e offrano la possibilità di un’esperienza di 
                    socialità comunitaria sempre più rara nelle società contemporanee.
                    
                    Ormai conosciamo qualcosa circa il modo in cui le precedenti 
                    generazioni di tecnologie della comunicazione hanno cambiato 
                    il modo di vivere delle persone. Dobbiamo capire come e perché 
                    così tanti esperimenti sociali sono oggi in coevoluzione con 
                    i prototipi delle più nuove tecnologie della comunicazione. 
                    L’osservazione diretta, in tutto il mondo e per gli ultimi 
                    dieci anni, dei comportamenti online mi ha condotto a concludere 
                    che ogni volta che la tecnologia della CMC è messa a disposizione 
                    delle persone, ovunque esse inevitabilmente finiscono per 
                    costruire con esse comunità virtuali, esattamente come i microrganismi 
                    inevitabilmente formano colonie (traduzione mia).
                    
                    Pur enfatizzando il potenziale della Rete nel promuovere forme 
                    d’interazione comunitaria, Rheingold non attribuisce esplicitamente 
                    tale potenziale al carattere orale della comunicazione telematica. 
                    Questo passaggio è invece compiuto da John December (1993), 
                    un altro pensatore molto influente nei primi anni della diffusione 
                    di Internet. Secondo December, la comunicazione telematica 
                    può essere ricondotta alla nozione di oralità secondaria proprio 
                    per la sua capacità di creare un ambiente comunicativo ‘caldo’, 
                    aperto alla partecipazione e al coinvolgimento:
                    
                    La CMC crea un mondo, basato sul testo, che manifesta caratteristiche 
                    proprie delle culture a oralità primaria. La differenza tra 
                    la CMC e la comunicazione basata su testi cartacei non è semplicemente 
                    analoga alla differenza tra la comunicazione scritta e quella 
                    parlata o alla differenza tra scrittura e oralità. Le tecnologie 
                    della CMC trasformano il pensiero e la cultura favorendo la 
                    creazione di comunità in cui i partecipanti, proprio come 
                    i membri delle culture a oralità primaria, possono prendere 
                    parte ad una comunicazione emozionale, espressiva e coinvolgente 
                    (traduzione mia).
                    
                    Si deve comunque a Robert Fowler (1994) il tentativo più approfondito 
                    di applicare l’ipotesi dell’oralità secondaria alla comunicazione 
                    in Rete. In un articolo intitolato alla ‘“secondary orality 
                    of the electronic age’”, Fowler passa in rassegna tutte le 
                    caratteristiche attribuite da Ong alle culture orali, cercando 
                    di mostrare come esse siano comuni anche alle interazioni 
                    telematiche. Secondo l’autore, esattamente come quella orale, 
                    la comunicazione mediata dal computer tende a essere:
                    – evanescente piuttosto che permanente (per la possibilità 
                    dei testi elettronici di essere e rimanere costantemente modificabili 
                    e dislocabili);
                    – aggregativa piuttosto che analitica (per la tendenza dei 
                    testi ipertestuali a strutturarsi secondo logiche associative, 
                    non-lineari e non-gerarchiche);
                    – vicina alla vita umana (per l’inclinazione a generare interazioni 
                    immediate e personali);
                    – agonistica (per la facilità con cui si manifestano fenomeni 
                    di flaming);
                    – enfatica e partecipativa piuttosto che distanziata ed oggettiva 
                    (per il modo in cui favorisce l’aggregarsi di comunità virtuali);
                    Fowler annuncia quindi con entusiasmo l’avvento dell’oralità 
                    secondaria profetizzata da Ong.
                    
                    Attraverso i nostri computer, telefoni, televisioni, videoregistratori, 
                    lettori CD e registratori a nastro, gli ipertesti irrompono 
                    nelle nostre accoglienti case, ci prendono per illa colletto 
                    e ci tuffano nell’avventura dell’oralità secondaria. Sorprendentemente, 
                    gli ipertesti incarnano e attuano molti aspetti lontani ed 
                    esotici dell’oralità primaria, immergendoci profondamente 
                    nel cyberspazio. L’oralità non è più un’area di studio bizzarra 
                    e antiquaria – è una descrizione calzante della realtà nella 
                    quale noi tutti stiamo precipitando ogni giorno sempre più 
                    a fondo (traduzione mia).
                    
                    I limiti del determinismo telematico
                    
                    Per quanto suggestive ed in parte condivisibili, le teorie 
                    che abbiamo discusso tendono a sconfinare nell’equivoco determinismo 
                    tecnologico. Più in generale, tutte le concezioni secondo 
                    cui i media telematici sono destinati a trasformare le società 
                    occidentali in comunità di “cacciatori e raccoglitori cyber-tribali” 
                    (Barlow, 1994) commettono almeno tre errori:
                    1) non considerano la natura composita e differenziata dei 
                    media telematici;
                    2) sottovalutano la complessità del sistema mediale moderno;
                    3) sopravvalutano l’influenza dei media sulla vita sociale.
                    
                    Occorre anzitutto notare che le possibilità mediatiche aperte 
                    dalla telematica sono molto più ampie e variegate di quelle 
                    generate da qualunque tecnologia precedente. Lungi dall’avere 
                    una natura uniforme e indifferenziata, le tecnologie telematiche 
                    si caratterizzano soprattutto per la multimedialità, vale 
                    a dire per la capacità di supportare molti media diversi. 
                    Sulla Rete circolano e-mail, ipertesti, newsgroup, newsletter, 
                    mailing-list, basi di dati, instant message, chat, mud, scambi 
                    peer-to-peer e molto altro ancora. Ognuna di queste forme 
                    di comunicazione è dotata di caratteristiche ed effetti peculiari 
                    che non è possibile ridurre ad un unico movimento verso l’oralità. 
                    Se è vero che alcune di queste forme manifestano aspetti decisamente 
                    orali (ad es. gli istant-message, i mud e i newsgroup), è 
                    altrettanto vero che altre sembrano piuttosto orientate verso 
                    una sorta di alfabetizzazione secondaria (ad es. le basi di 
                    dati e le newsletter)[8].
                    
                    In secondo luogo, credere che Internet trasporti l’intera 
                    modernità occidentale verso una nuova era di oralità secondaria 
                    vuol dire trascurare il fatto che la telematica non è né l’unica 
                    né la principale tecnologia mediale a disposizione delle società 
                    contemporanee. Se c’è una legge che la storia dei media non 
                    ha mai falsificato è che i nuovi media non sostituiscono, 
                    ma si affiancano ai vecchi: l’alfabetizzazione non ha cancellato 
                    la parola parlata; la stampa non ha estinto la scrittura manuale; 
                    la radio non ha eliminato la stampa e non è stata eliminata 
                    dalla televisione. È dunque inverosimile che l’avvento dei 
                    nuovi media telematici produca l’accantonamento dei vecchi. 
                    Al contrario, per le risorse multimediali di cui abbiamo detto, 
                    le tecnologie telematiche si prestano piuttosto a farsi veicolo 
                    di forme comunicative originarie di altri canali come dimostrano 
                    gli esperimenti di voice-over-ip, editoria elettronica e web-casting.
                    
                    Infine anche ammettendo che Internet sia un mezzo prevalentemente 
                    orale e che esso riesca a prendere il sopravvento su tutti 
                    gli altri media, questo non vuole automaticamente dire che 
                    le società moderne acquisiranno caratteristiche simili a quelle 
                    delle comunità tradizionali. Il sistema dei media non è che 
                    uno dei molti sotto-sistemi che compongono le nostre società. 
                    Differenze economiche, politiche, giuridiche, artistiche e 
                    religiose ci separano dalle comunità tradizionali e non è 
                    ragionevole ritenere che tali differenze scompaiano semplicemente 
                    perché si evidenziano alcune somiglianze nel campo dei media.
                    
                    Si dovranno dunque guardare con sospetto tutte quelle concezioni 
                    che, come la teoria del villaggio globale di McLuhan e l’ipotesi 
                    dell’oralità secondaria di Ong, usano lo sviluppo dei media 
                    per annunciare un generalizzato ritorno al passato. Sarà invece 
                    più utile concentrarsi su una singola innovazione mediale 
                    e analizzarne nel dettaglio le caratteristiche e le conseguenze 
                    peculiari. Ciò è esattamente quello che ci accingiamo a fare 
                    nell’ultima parte di questo articolo. Nelle prossime pagine 
                    prenderemo in considerazione un modello comunicativo introdotto 
                    recentemente nel panorama mediatico della Rete e detto ‘wiki’ 
                    o ‘ipertesto a scrittura collaborativa’. Analizzando tale 
                    modello speriamo di mostrare non solo come la nozione di oralità 
                    secondaria, ma la stessa distinzione oralità/scrittura sia 
                    ormai da superare o, quantomeno, da ripensare radicalmente.
                    
                    L’origine dei wiki
                    
                    Il modello comunicativo ‘wiki’ nasce nel 1995 con l’implementazione, 
                    ad opera di Ward Cunningham, di ‘WikiWikiWeb’. Inizialmente 
                    destinato a servire da documentazione per il progetto Portland 
                    Pattern Repository[9], WikiWikiWeb fu sviluppato 
                    con l’obiettivo di facilitare lo scambio di idee tra i programmatori, 
                    favorendo la collaborazione in linea. Da questa esigenza, 
                    nacque l’idea di creare un ipertesto in cui gli utenti potessero 
                    non solo aggiungere nuovi contenuti (come già avveniva nei 
                    forum), ma anche modificare i contenuti esistenti. In sostanza, 
                    si trattava di mettere in pratica l’idea di “intelligenza 
                    collettiva” di Pierre Léevy (1994), costruendo una rete i 
                    cui nodi e legami potessero essere modificati liberamente 
                    da qualunque utente e per un qualunque numero di volte.
                    
                    Quattro erano le caratteristiche di questo primo prototipo 
                    che furono ereditate da tutti i successivi esperimenti di 
                    wiki. Primo, le pagine che costituivano WikiWikiWeb potevano 
                    essere editate molto rapidamente[10] e utilizzando 
                    un semplice browser web, vale a dire lo stesso applicativo 
                    utilizzato per leggerle. Secondo, le pagine potevano essere 
                    collegate le une alle altre via hyperlink con la medesima 
                    facilità. Terzo, non era presente alcuna moderazione ex-ante, 
                    vale a dire che non era prevista alcuna revisione prima che 
                    le modifiche alle pagine fossero pubblicate. Quarto, dal 1996 
                    fu implementata la possibilità di cancellare rapidamente l’ultima 
                    modifica operata su una pagina.
                    
                  
![]()  | 
                    
| Fig. 5 – Il logo di Wikipedia | 
Fu presto chiaro che l’idea di 
                    Cunningham era straordinariamente brillante e destinata ad 
                    applicazioni che andavano ben oltre il suo impiego originario. 
                    Tuttavia, perché le potenzialità del concetto di wiki trovassero 
                    piena espressione si dovette attendere il 15 gennaio 2001 
                    quando Jimmy Wales and Larry Ranger lanciarono il progetto 
                    ‘Wikipedia’. Oltre ad alcuni perfezionamenti riguardanti l’aspetto 
                    grafico, il motore di ricerca e la gestione dei contenuti 
                    multimediali, il progetto Wikipedia ha introdotto nel modello 
                    di wiki due innovazioni fondamentali. In primo luogo, il software 
                    su cui si basa Wikipedia permette di conservare l’intera storia 
                    della modifiche a una pagina (e in seguito mostreremo quanto 
                    ciò sia fondamentale). In secondo luogo, a differenza di WikiWikiWeb, 
                    Wikipedia non pone alcuna limitazione al tipo di contenuti 
                    trattabili, orientandosi verso il modello dell’enciclopedia 
                    generalista.
                    
                    L’introduzione di queste due innovazioni apparentemente minori 
                    ha segnato una svolta nella diffusione dell’idea di wiki. 
                    Negli ultimi cinque anni, Wikipedia ha conosciuto un successo 
                    inaspettato ed una crescita esponenziale. Oggi, Wikipedia 
                    raccoglie oltre due milioni e mezzo di pagine e può contare 
                    su 100.000 collaboratori regolari di cui 30.000 attivi nell’ultimo 
                    mese. Da sola, l’edizione inglese [11] di 
                    Wikipedia sfiora il milione di pagine (vedi figura 6) ed è 
                    stata editata da oltre 50.000 collaboratori. Inoltre, in questi 
                    cinque anni, Wikipedia ha ottenuto un ottimo posizionamento 
                    online, comparendo fra i primi risultati di molti motori di 
                    ricerca per un numero crescente di ricerche e posizionandosi 
                    al trentesimo posto tra i siti più visitati della Rete (secondo 
                    Alexa.com).
                    
                  
![]()  | 
                    
| Fig. 6 – La crescita delle pagine dell’edizione inglese di Wikipedia | 
Fino ad oggi il dibattito sul 
                    successo di Wikipedia è stato monopolizzato dalla questione 
                    dell’affidabilità delle sue voci. Interminabili discussioni 
                    si sono consumate sulla possibilità che un’enciclopedia compilata 
                    anonimamente e senza alcun processo di revisione possa produrre 
                    articoli di qualità comparabile a quelli delle enciclopedie 
                    tradizionali. Da un lato, molti autori hanno criticato il 
                    progetto per la completa mancanza di filtri contro errori 
                    e vandalismo; dall’altro lato, i sostenitori di Wikipedia 
                    hanno replicato che la logica wiki è tende facilitare le correzioni 
                    piuttosto che ad impedire gli errori. Si tratta, naturalmente, 
                    di una controversia appassionante[12], ma 
                    un eccesso d’interesse per questo tema rischia di celare la 
                    vera innovazione comunicativa dei wiki. Come abbiamo detto 
                    fin dall’inizio, i segni, per definizione, non coincidono 
                    con i referenti. Di conseguenza, per lo studio della comunicazione, 
                    il dibattito circa l’attendibilità delle definizioni è, tutto 
                    sommato, secondario. Molto più interessante è invece la questione 
                    del modello di comunicazione di Wikipedia: che tipo di media 
                    sono i wiki? Sono assimilabili ai media orali o a quelli chirografici?
                    
                    Wikipedia oltre la distinzione oralità/scrittura
                    
                    La caratteristica comunicativamente più saliente di Wikipedia 
                    (e, in generale, dei wiki), è il fatto di non poter essere 
                    ricondotta semplicemente alla distinzione oralità/scrittura, 
                    almeno non alla versione che di tale distinzione dà Ong (1982)[13]. 
                    Sebbene ad un primo sguardo Wikipedia possa apparire come 
                    un media prevalentemente chirografico, ci sono buone ragioni 
                    per sospendere tale giudizio. La superficiale somiglianza 
                    con un’enciclopedia tradizionale non deve trarre in inganno. 
                    Wikipedia differisce dalla scrittura e dalla stampa secondo 
                    svariate dimensioni.
                    
                    Innanzi tutto, i messaggi di Wikipedia, a differenza di quelli 
                    inscritti in un qualsiasi medium chirografico, non esistono 
                    in una forma definita. Poiché non vi sono ostacoli alla trasformazione 
                    continua, le pagine sono costantemente aperte alla mutazione 
                    e, conseguentemente, non esiste una versione stabile cui fare 
                    riferimento. La logica di apertura del sistema impedisce, 
                    inoltre, che qualcuno detenga il controllo definitivo dei 
                    messaggi. In altre parole, per definizione, non esiste alcun 
                    autore delle pagine di Wikipedia, nessuno può arrogarsene 
                    la paternità e nessuno può ottenere di stabilizzare la propria 
                    versione di una definizione. A ben vedere, non si possono 
                    individuare nemmeno autori collettivi. Neppure l’insieme di 
                    tutti coloro che hanno editato un articolo può essere chiamato 
                    a ragione il suo autore, giacché esiste sempre la possibilità 
                    che qualcun altro operi ulteriori modifiche. Ne consegue, 
                    che a differenza dei messaggi inscritti su un supporto durevole 
                    (la pietra, la pergamena, la carta), i messaggi dei wiki, 
                    per conservarsi invariati, devono essere continuamente ripetuti, 
                    esattamente nello stesso modo in cui miti e leggende sono 
                    costantemente ripetuti nelle comunità orali. E come nelle 
                    comunità orali, il risultato delle continue ripetizioni tende 
                    ad essere orientato al consenso e perciò al conformismo. Poiché 
                    le tesi controverse tendono a divenire rapidamente illeggibili, 
                    esiste una precisa regola dell’etichetta di Wikipedia che 
                    sconsiglia di riportare nelle definizioni ‘“ricerche originali’”, 
                    vale a dire informazioni incerte o semplicemente innovative. 
                    Infine, la comunicazione wiki è per sua natura orizzontale 
                    e non lineare. I wiki sono orizzontali perché non esiste una 
                    chiara gerarchia tra autori e lettori. Poiché lo strumento 
                    utilizzato per leggere le pagine (il browser) è lo stesso 
                    strumento impiegato per modificarle, non è possibile distinguere 
                    nettamente emittenti e riceventi. Come nella comunicazione 
                    faccia a faccia o in quella telefonica, tutti i partecipanti 
                    sono allo stesso tempo oratori e ascoltatori. In ultimo, i 
                    wiki non sono lineari perché hanno una struttura ipertestuale 
                    e perché le modificazioni possono essere inserite in qualsiasi 
                    punto degli articoli e in qualsiasi articolo, senza alcun 
                    ordine predefinito.
                    
                    Le caratteristiche di cui abbiamo parlato potrebbero portare 
                    a ritenere che Wikipedia si configuri come la più prototipica 
                    delle comunità virtuali e che essa veicoli una forma di comunicazione 
                    di stampo decisamente orale. Non è così. Anzi, i wiki manifestano 
                    proprietà che sono del tutto incompatibili con lo stile comunicativo 
                    orale. Innanzi tutto, già a prima vista è evidente che Wikipedia 
                    è costituita soprattutto di testo. Sebbene Wikimedia (il software 
                    su cui si basa Wikipedia) consenta la gestione di contenuti 
                    multimediali, i partecipanti tendono a sfruttare poco questa 
                    potenzialità. Di conseguenza, le pagine di Wikipedia finiscono 
                    per essere composte principalmente di testo e per essere formalizzate 
                    in modo decisamente esplicito. Mentre le interazioni orali 
                    tendono ad affidare a canali impliciti come la prossemica 
                    ed il linguaggio non-verbale gran parte del loro significato, 
                    Wikipedia, aspirando ad essere un’enciclopedia, è votata alla 
                    più netta formalizzazione linguistica. Quasi tutte le pagine 
                    di Wwikipedia cominciano come ‘stub’, vale a dire come bozze 
                    di definizione, e quasi tutte procedono più o meno velocemente 
                    verso una precisione sempre maggiore. D’altra parte, è evidente 
                    che Wikipedia partecipa di quel processo di estroflessione 
                    cognitiva che secondo Giuseppe Longo (2003) è la caratteristica 
                    distintiva di tutti i media chirografici. Le definizioni di 
                    Wikipedia non sono conservate nel sistema cognitivo (nella 
                    memoria) dei partecipanti, ma sono inscritte nelle memorie 
                    elettroniche degli elaboratori su cui i wiki si basano. Tale 
                    proprietà fa sì che i messaggi dei wiki non siano dipendenti 
                    dal contesto come quelli orali: la partecipazione a Wikipedia 
                    non necessità la compresenza spazio-temporale. Chiunque può 
                    leggere e scrivere quando vuole e dove vuole. Questo fa di 
                    Wikipedia un mezzo di broadcasting (come la radio e la televisione) 
                    e permette che il numero dei suoi partecipanti sia virtualmente 
                    indefinito[14]. Inoltre, il fatto che i 
                    messaggi di Wikipedia siano salvati su memorie espandibili, 
                    fa sì che Wikipedia cresca (in termini di lunghezza e numero 
                    delle definizioni) a differenza delle culture orali che, come 
                    insegna Ong (1982), tendono ad essere omeostatiche. Infine, 
                    sebbene sia orizzontale, la comunicazione di Wikipedia non 
                    è dialogica. I partecipanti alla comunicazione di Wikipedia, 
                    editano articoli in modo collaborativo ma non dialogano come 
                    nei forum o nellea mailing list.
                    
                    Ad un’osservazione attenta Wikipedia non sembra dunque lasciarsi 
                    ridurre a nessuna delle due parti della distinzione oralità/scrittura. 
                    Per comodità del lettore, sintetizziamo in un breve schema 
                    le caratteristiche che differenziano Wikipedia dai media chirografici 
                    e dai media orali.
                    
                    Wikipedia non è un media chirografico:
                    non ci sono ostacoli alla trasformazione dei messaggi;
                    i messaggi non esistono in una forma definita;
                    nessuno ha il definitivo controllo dei messaggi;
                    i messaggi devono essere ripetuti per conservarsi;
                    la trasformazione dei messaggi è orientata al consenso;
                    la comunicazione è orizzontale e interattiva;
                    la comunicazione non è lineare.
                    
                    Wikipedia non è un media orale:
                    i messaggio sono costituiti da testo (poca multimedialità);
                    i messaggi sono espliciti ed estroflessi;
                    la memoria non è l’unico supporto;
                    i messaggi sono indipendenti dal contesto;
                    il numero dei partecipanti è virtualmente indefinito;
                    Wikipedia cresce (non è omeostatica);
                    la comunicazione non è dialogica.
                    
                    Media aperti e media chiusi
                    
                    Altrove[15], abbiamo usato la distinzione 
                    oralità/scrittura per giustificare le diverse forme di innovazione 
                    culturale tipiche delle comunità tradizionali e dei network 
                    moderni. In quella sede ci siamo serviti dell’opera di Jack 
                    Goody e Ian Watt (1968) per ricondurre le differenze tra culture 
                    orali e culture chirografiche alla distinzione tra media incorporati 
                    e media inscritti. Per mezzi incorporati intendiamo quei media 
                    che sono inscindibilmente legati all’interazione diretta (faccia 
                    a faccia, corpo a corpo) dei partecipanti. Con l’invenzione 
                    dell’inscrizione (e in seguito della scrittura alfabetica, 
                    della stampa e dei mezzi di broadcasting) la comunicazione 
                    si svincola dalla necessità della compresenza spazio-temporale: 
                    inscritti su supporti durevoli e autonomi dal contesto dell’interazione, 
                    i messaggi possono conservarsi nel tempo e viaggiare a grande 
                    distanza. L’utilizzo di media inscritti comporta tuttavia 
                    un costo: la necessità di convertire i discorsi aperti in 
                    testi chiusi. Una volta inscritti su un supporti durevoli, 
                    i messaggi perdono la fluidità e l’apertura caratteristiche 
                    dei discorsi orali. L’inevitabile chiusura dei testi inscritti 
                    produce conseguenze che si manifestano soprattutto nel diverso 
                    stile d’innovazione caratteristico dei network chirografici 
                    rispetto alle comunità orali.
                    
                    Da un lato, le culture orali, custodite nella memoria individuale 
                    e trasmesse attraverso l’interazione faccia a faccia, si caratterizzano 
                    per l’apertura ad un processo continuo di trasformazione e 
                    d’innovazione lineare.
                    
                    Il linguaggio è sviluppato in intima associazione con l’esperienza 
                    della comunità ed è appreso dagli individui attraverso il 
                    contatto faccia a faccia con gli altri membri. Ciò che continua 
                    a essere socialmente rilevante è immagazzinato nella memoria 
                    mentre il resto è di solito dimenticato: ed il linguaggio 
                    è il mezzo efficace di questo processo cruciale di digestione 
                    ed eliminazione sociale analogo all’organizzazione omeostatica 
                    del corpo umano (Goody e Watt, 1968, pp. 30, 31, traduzione 
                    mia).
                    
                    Dall’altro lato, le culture alfabetizzate, vincolate a documentazioni 
                    più stabili, tendono ad irrigidirsi e a mutare in modo più 
                    consapevole, discontinuo e radicale.
                    
                    Invece del discreto adattamento delle tradizioni passate ai 
                    bisogni attuali, molti individui trovano nei documenti scritti, 
                    che danno forma permanente a larga parte del loro repertorio 
                    culturale, così tante incoerenze nelle credenze e nelle categorie 
                    del pensiero che hanno ereditateo che sono costretti a un 
                    atteggiamento molto più consapevole, comparativo e critico 
                    verso la visione collettiva del mondo (Goody e Watt, 1968, 
                    p. 48, traduzione mia).
                    
                    L’impiego di media inscritti impone di affrontare un problema 
                    simile, ma opposto, a quello del Dorian Gray di Oscar Wilde 
                    (1980). Inscrivendo la propria cultura su supporti indipendenti, 
                    le società moderne rischiano di provare l’alienazione di colui 
                    che, cercando di fissare la propria immagine all’esterno, 
                    è continuamente costretto a confrontarsi con la mancanza di 
                    corrispondenza tra essenza e immagine. Mentre le culture orali 
                    sono, dunque, culture intrinsecamente aperte ad un cambiamento 
                    lineare, le culture chirografiche sono invece destinate ad 
                    evolvere attraverso il susseguirsi di stasi e rivoluzioni. 
                    Nell’articolo citato, concludevamo, dunque quindi, ipotizzando 
                    l’esistenza di un ‘“effetto di discontinuità’” proprio dei 
                    media inscritti.
                    
                    Ora, tuttavia, l’analisi di Wikipedia ci costringe a rimettere 
                    in discussione la distinzione che avevamo proposto tra media 
                    incorporati e media inscritti. È, infatti, evidente che i 
                    wiki sono media inscritti, dal momento che i messaggi che 
                    veicolano sono conservati su un supporto indipendente dal 
                    contesto, dalla memoria individuale e dall’interazione diretta. 
                    D’altra parte, è altrettanto evidente che i messaggi di Wikipedia 
                    non sono chiusi nella maniera tipica dei messaggi inscritti, 
                    giacché essi non esistono in una forma definitiva e sono invece 
                    caratterizzati dall’evoluzione fluida caratteristica dei media 
                    incorporati.
                    
                    Cominciamo ad avvicinarci alla ragione dell’imbarazzo che 
                    abbiamo incontrato nell’attribuire Wikipedia a uno dei lati 
                    della distinzione oralità/scrittura. Tale imbarazzo deriva, 
                    in gran parte, da un equivoco in cui è facile cadere considerando 
                    le differenze tra oralità e cultura: quando parliamo di oralità, 
                    tendiamo a guardare al processo della comunicazione, all’interazione 
                    orale; quando ci riferiamo alla scrittura, siamo invece portati 
                    a considerare il prodotto della comunicazione, cioè i testi 
                    scritti. Per capire la natura dei wiki, dovremo invece sforzarci 
                    di guardare contemporaneamente al processo e al prodotto. 
                    Ci accorgeremo, allora, che i media incorporati generano un 
                    prodotto più aperto (perché più flessibile) attraverso un 
                    processo più chiuso (perché limitato dal contesto spazio-temporale); 
                    mentre i media inscritti generano un prodotto più chiuso (perché 
                    cristallizzato in una forma definita), attraverso un processo 
                    più aperto (perché svincolato dalla compresenza dei partecipanti). 
                    Per quanto riguarda i wiki, infine, essi sono caratterizzati 
                    da una significativa apertura sia per quanto riguarda il processo, 
                    sia che per quanto riguarda il prodotto.
                    
                    Questa è la vera innovazione mediatica di Wikipedia:, il superamento 
                    della distinzione tra testo e discorso a favore di una forma 
                    di comunicazione che, pur essendo autonoma dal contesto spazio-temporale, 
                    non richiede la cristallizzazione dei messaggi. Non si tratta 
                    di un’innovazione limitata ai wiki. Prima dei wiki, la medesima 
                    logica aveva assicurato la diffusione e il successo del movimento 
                    del software open-source. Con Wikipedia, però, l’apertura 
                    radicale dei nuovi media compie un significativo balzo in 
                    avanti, perché esce dalla cerchia relativamente ristretta 
                    dei programmatori per offrirsi come mezzo di comunicazione 
                    tutto sommato generalista.
                    
                    Wikipedia porta alle estreme conseguenze la nozione di ‘opera 
                    aperta’ (cfr. Eco, 1962). Anticipata dalla critica letteraria 
                    post-moderna e parzialmente realizzata dalla diffusione degli 
                    ipertesti, la nozione di ‘opera aperta’ si riferisce alla 
                    capacità dei testi di offrirsi ad interpretazioni multiple 
                    da parte del lettore. Con i wiki la medesima logica di apertura 
                    si estende dal piano dall’interpretazione al segno stesso. 
                    La comunicazione è ormai irrimediabilmente aperta, in ogni 
                    sua componente, dal processo al prodotto, dal significante 
                    al significato.
                    
                    Resta, in conclusione, da chiedersi cosa consenta a Wikipedia 
                    di mantenere un’apertura così radicale pur senza trasformarsi 
                    in un caleidoscopio caotico di discorsi sconclusionati. Per 
                    rispondere a questa domanda, occorre richiamare l’attenzione 
                    del lettore su una caratteristica apparentemente minore di 
                    Wikipedia. Abbiamo rilevato, di sfuggita, che una delle innovazioni 
                    apportate dal progetto Wikipedia al concetto e alla pratica 
                    della scrittura collaborativa è la possibilità di richiamare 
                    l’intera storia delle modifiche subite da un articolo. Non 
                    solo, ma il software su cui si basa Wikipedia è anche in grado 
                    di evidenziare automaticamente le differenze tra due o più 
                    versioni del medesimo articolo. Lungi dall’essere una proprietà 
                    secondaria, la conservazione della storia della comunicazione 
                    è esattamente ciò che permette alle pagine di Wikipedia di 
                    mantenere unità e senso. Senza la possibilità di consultare 
                    in modo rapido e preciso la storia di ogni messaggio, di confrontare 
                    versione versioni diverse e di ritornare indietro ove opportuno, 
                    il destino della comunicazione wiki sarebbe inevitabilmente 
                    il disordine, il rumore ed infine il silenzio. Ed è questo 
                    che fa di Wikipedia un mezzo autenticamente post-moderno. 
                    Come scrive Umberto Eco nelle “Postille al Nome della Rosa” 
                    (1983):
                    
                    La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere 
                    che il passato, visto che non può essere distrutto, perché 
                    la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: 
                    con ironia, in modo non innocente. Penso all’atteggiamento 
                    post-moderno come a quello di chi ami una donna molto colta, 
                    e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, perché 
                    lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi 
                    le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà 
                    dire: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. A questo 
                    punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente 
                    che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà 
                    però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma 
                    che la ama in un’epoca di innocenza perduta. Se la donna sta 
                    al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d’amore, ugualmente. 
                    Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi 
                    avranno accettato la sfida del passato, del già detto che 
                    non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente 
                    e con piacere al gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti 
                    ancora una volta a parlare d’amore.
                    
                    
                    NOTE
                    
                    1] La difficoltà di destreggiarsi 
                    tra questi opposti errori ha generato, nel campo della ricerca 
                    mediatica, un’interminabile disputa tra sostenitori del determinismo 
                    sociologico e sostenitori del determinismo tecnologico. Di 
                    questa disputa Peppino Ortoleva (1995) osserva giustamente 
                    che “nonostante l’alternarsi, in diverse epoche, di concezioni 
                    dominanti differenti, una caratteristica di questa discussione 
                    che non può sorprendere chi la studi da vicino è la sua inconcludenza… 
                    [i sostenitori delle due tesi] si affrontano, da decenni, 
                    sempre con gli stessi argomenti, e sembrano ricominciare ogni 
                    volta a discuter daccapo, a testimonianza del fatto che non 
                    di un vero dibattito si tratta, ma di una lacerazione tra 
                    due opposte «evidenze» (p. 173).
                    2] Si noterà che, in questo 
                    articolo, abbiamo preferito impiegare la coppia segno-referente, 
                    piuttosto di quella significante-significato. Per non scendere 
                    in disquisizioni semiotiche, diremo soltanto che tale preferenza 
                    è dovuta al desiderio di evitare la connotazione, spesso implicita 
                    nella coppia significante-significato, per cui la relazione-distinzione 
                    semiotica sarebbe composta da una parte relativamente più 
                    concreta (il significante) ed una relativamente più astratta 
                    (il significato).
                    3] Sul determinismo tecnologico 
                    si veda, tra gli altri, Wiebe Bijker e John Law (1992).
                    4] Cfr. Joshua Meyrowitz 
                    (1985).
                    5] Sul mito occidentale del 
                    progresso tecnologico si veda Serge Latouche (1994), soprattutto 
                    alle pp. 137-181.
                    6] È comunque interessante 
                    notare che l’idea di applicare l’ipotesi dell’oralità secondaria 
                    ai media informatici si è sviluppata relativamente presto 
                    nella storia della telematica. Gli autori che citeremo non 
                    fanno riferimento alle applicazioni più avanzate di multimedialità, 
                    grafica 3D, realtà virtuale. Al contrario, paradossalmente, 
                    quasi tutti i sostenitori dell’oralità del computer si riferiscono 
                    ad applicazioni sostanzialmente testuali della galassia Internet.
                    7] In Italiano nel testo.
                    8] Cfr. Stuart Moulthrop 
                    (1991) per una delle prime riflessioni su come alcune forme 
                    di comunicazione telematica possano essere concettualizzate 
                    in termini di alfabetizzazione secondaria.
                    9] L’obiettivo dei fondatori 
                    del Portland Pattern Repository era quello di costituire un 
                    luogo di raccolta e scambio di pattern di programmazione. 
                    Nel lessico informatico un pattern è un blocco di codice che 
                    offre una soluzione riutilizzabile ad un problema ricorrente 
                    di programmazione.
                    10] Il termine ‘wiki’ deriva 
                    da una parola hawaiana che significa, appunto, ‘veloce’.
                    11] Wikipedia è oggi disponibile 
                    in 211 lingue. Ciascuna edizione è largamente indipendente, 
                    anche se alcuni articoli possono essere parzialmente o interamente 
                    tradotti da un’edizione all’altra.
                    12] Per chi fosse comunque 
                    interessato ad approfondire questo argomento, segnaliamo un’inchiesta 
                    curata da Jim Jiles (2005) per Nature. In essa i revisori 
                    della prestigiosa rivista scientifica hanno esaminato 42 articoli 
                    estratti da Wikipedia e dall’Enciclopedia Britannica. Inaspettatamente 
                    per gli stessi autori, i risultati della inchiesta hanno suggerito 
                    che non esistono sostanziali differenze di attendibilità tra 
                    le due enciclopedie.
                    13] La distinzione oralità/scrittura 
                    come distinzione tra mezzi di comunicazione incorporati nell’interazione 
                    faccia a faccia tra i partecipanti e mezzi di comunicazione 
                    inscritti in supporti durevoli e mobili, si inserisce in un 
                    filone di storia dei media cui appartengono, oltre ad Ong, 
                    anche altri importanti studiosi quali Jack Goody e Ian Watt 
                    (1968) ed Elisabeth Eisenstein (1983).
                    14] Dico virtualmente perché, 
                    evidentemente, ci sono limiti informatici (soprattutto di 
                    banda) al numero di persone che possono essere connesse contemporaneamente 
                    ai database di Wikipedia. La crescita esponenziale degli utenti 
                    negli ultimi anni ha infatti messo a dura prova l’hardware 
                    di Wikipedia che necessità di un costante aggiornamento ed 
                    ampliamento.
                    15] Nell’articolo “Verba 
                    Volant, Scripta Manent: The Discontinuity Effect of Explicit 
                    Media” in corso di revisione presso la rivista American Behavioral 
                    Scientist.
                    
                    
                    BIBLIOGRAFIA
                    
                    Barlow, John Perry (1994), "The Economy of Ideas”, in Wired 
                    vol. 2, n. 3:
                    (https://www.wired.com/wired/archive/2.03/economy.ideas.html).
                    Bijker, Wiebe E. e Law, John (1992), General Introduction, 
                    in Bijker, Wiebe E. e Law, John (a cura di) Shaping Technology, 
                    Buiding Society, Cambridge, Massachussetts: MIT Press, pp. 
                    1-14.
                    December, John (1993), "Characteristics of Oral Culture in 
                    Discourse on the Net", paper presentato alla Penn State Conference 
                    on Rhetoric and Composition:
                    (disponibile all’indirizzo: https://www.rpi.edu/Internet/Guides/decemj/papers/orality-literacy.txt).
                    Eco, Umberto (1962), Opera Aperta, Bompiani, Milano.
                    Eco, Umberto (1983), “Postille al Nome della Rosa”, in Alfabeta 
                    n. 49.
                    Eco, Umberto (1984), Semiotica e filosofia del linguaggio, 
                    Torino, Einaudi.
                    Eisenstein, Elisabeth (1983), The Printing Revolution in Early 
                    Modern Europe, Cambridge: Cambridge University Press.
                    Fowler, R. (1994), "How the Secondary Orality of the Electronic 
                    Age Can Awaken Us to the Primary Orality of Antiquity", in 
                    Interpersonal Computing and Technology, vol. 2, n. 3:
                    (disponibile online all’indirizzo: https://homepages.bw.edu/~rfowler/pubs/secondoral/).
                    Foucault, Michel (1973), Ceci n’est pas une pipe, Saint Clément, 
                    Editions Fata Morgana (trad. it. Questo non è una pipa, Milano, 
                    SE, 1988).
                    Goody, Jack e Watt, Ian (1968), “The Consequences of Literacy”, 
                    In Goody, J. (ed.), Literacy in Traditional Societies, Cambridge, 
                    Cambridge University Press.
                    Harnad, Steven (1991), “Post-Gutenberg Galaxy: The Fourth 
                    Revolution in the Means of Production of Knowledge”, in Public-Access 
                    Computer Systems Review 2 (1):
                    (disponibile all’indirizzo: https://www.ecs.soton.ac.uk/~harnad/Papers/Harnad/harnad91.postgutenberg.html).
                    Jiles, Jim (2005), “Internet encyclopaedias go head to head”, 
                    in Nature n. 438.
                    Jakobson, Roman (1960), Closing Statements: Linguistics and 
                    Poetics, in Sebeok, Thomas (a cura di) Style in Language, 
                    New York, MIT Press, pp. 350-377.
                    Lévy, P. (1994), L'intelligence collective, pour une anthropologie 
                    du cyberspace, Parigi, La Découverte.
                    Giuseppe Longo (2003), Il simbionte, Roma, Meltemi.
                    McLuhan, Marshall (1964), Understanding Media: The Extensions 
                    of Man, New York, McGraw-Hill.
                    Meyrowitz, Joshua (1985), No Sense of Place : The Impact of 
                    Electronic Media on Social Behavior, Oxford, University Press 
                    (trad . it. Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media 
                    elettronici sul comportamento sociale, Bologna, Baskerville, 
                    1995).
                    Moulthrop, Stuart (1991), "You Say You Want a Revolution? 
                    Hypertext and the Laws of Media", in Postmodern Culture 1,3:
                    (disponibile all’indirizzo: https://www3.iath.virginia.edu/pmc/text-only/issue.591/moulthro.591).
                    Latouche, Serge (1994), La Megamachine. Raison techno-scientifique, 
                    raison économique et le mythe du Progrès, Parigi, La Découverte 
                    (trad. it. La megamacchina. Torino: Bollati Boringhieri, 1995).
                    Ong, Walter (1982), Orality and Literacy, the Technologizing 
                    of the Word, Londra and New York, Methuen (trad. it. Oralità 
                    e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986).
                    Ortoleva Peppino (1995), Mediastoria, Parma, Nuova Pratiche.
                    Rheingold, H. (1993), The Virtual Community: Homesteading 
                    on the Electronic Frontier, Boston, Addison-Wesley:(disponibile 
                    online all’indirizzo: https://www.rheingold.com/vc/book/).
                    Shannon, Claude E. (1948), “A Mathematical Theory of Communication”, 
                    in The Bell System Technical Journal, Vol. 27, pp. 379–423, 
                    623–656, July, October.
 
      






DOAJ 
          Content
newsletter subscription
www.analisiqualitativa.com