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  • Il corpo come soggetto e oggetto di un'ermeneutica dell'educazione
    Magali Humeau (a cura di)

    M@gm@ vol.2 n.3 Luglio-Settembre 2004

    APPROCCIO DEL CORPO E DELLO SPAZIO FENOMENOLOGICO


    (Traduzione Fabiola Della Strada)

    Magali Humeau

    magali.humeau@wanadoo.fr
    Dottoranda in Scienze dell'Educazione all'Università degli Studi di Pau - Pays de l'Adour, sotto la direzione di Frédérique Lerbet Séréni; Formatrice e consulente al Cafoc di Poitiers, Francia; Membro del Grepcea (Gruppo di Ricerca sui Fenomeni Complessi dell'Insegnamento e dell'Apprendimento); Membro del CRAI (Circolo di Ricerca in Antropologia dell'Immaginario), Angers, Francia.

    Introduzione

    Questo approccio nasce dal resoconto di un evento recente e banale della mia vita, evento che ha avuto, tuttavia, un senso particolare per me e che entrerà, spero, in risonanza con i contributi teorici di questo testo. Recentemente, sono andata per la prima volta a Cognac. Ho cercato l'itinerario non su una guida turistica, come si fa di solito, ma con l'aiuto di un sito Internet. Sulla pagina web, il tragitto da Poitiers a Cognac era presentato sottoforma di una lista che elencava successivamente le vie e le biforcazioni da intraprendere. Senza alcuno schema, nessun disegno, nessuna cartina. Durante il viaggio ero disorientata: con questo tipo d'itinerario non avevo modo di anticipare il tragitto, di compierlo mentalmente prima di farlo effettivamente. Mi sono accorta, allora, che con una cartina sperimentavo interiormente più volte il cammino prima di intraprenderlo veramente. In questo nuovo contesto, queste esperienze preliminari erano limitate. C'erano diversi modi d'immaginare le strade a partire dal loro tracciato, dalla loro orientazione. Lo spazio, così descritto sottoforma di una lista, non aveva altro senso se non quello di un qualunque inventario. Alla fine non mi sono persa, ho trovato la città di Cognac. Infatti, ciascun nome della lista acquisiva un senso sul luogo stesso, di pari passo col tragitto. Ma senza nessuna visione globale del tragitto per percorrerlo mentalmente, con poche possibilità di sperimentarlo prima di esserci.

    Sembra, dunque, che lo sperimentare a priori mentalmente corrisponda ad un'interazione del corpo con l'ambiente, alla possibilità di far riferimento al proprio corpo come agli oggetti esteriori. Prendere in considerazione il corpo, allorquando si pone la questione della spazialità, può, in prima istanza, sembrare un'evidenza, nella misura in cui è proprio attraverso questa figura singolare che noi siamo continuamente immersi nello spazio. Detto ciò, ci chiediamo: in che misura il corpo interviene nel pensiero dello spazio? Dietro a questo quesito, si trova quello relativo alla separazione del corpo e dello spirito, delle azioni effettive e del pensiero. Siamo di fronte a termini comunemente considerati opposti, cioè mutuamente escludentesi. Ora, possiamo renderci conto che considerare il corpo all'interno di una concezione del pensiero dello spazio porta a congiungere ciò che il pensiero logico-razionale separa. Il corpo è contenuto nello spirito e/o è lo spirito che abita il corpo? Le relazioni d'inclusione non hanno qui alcun senso, nella misura in cui il corpo abita lo spirito così come lo spirito abita il corpo. Questo habitat singolare possiede questa capacità di ritornare a sé, così come avviene per certe figure topologiche. [1]

    La fenomenologia considera lo spazio secondo questo asse di complessità, in cui non si può più decidere tra ciò che è interno e ciò che è esterno. Essa contribuisce a ripensare al concetto di spazio. Questa scuola di pensiero adotta un approccio fortemente "faccia a faccia" del mondo. Lavorare a proposito dello spazio, del suo pensiero e del suo vissuto, pone, in prima istanza, la questione della realtà: è data dall'esterno, oppure è costruita in ciascuno di noi? Gli spazi in seno a quelli che noi viviamo, il nostro alloggio, la nostra città, ci appaiono con evidenza. E' questa solidità percepita che noi interroghiamo in primo luogo. Come posizionarci in quanto ricercatori "faccia a faccia" della realtà spaziale per essere in grado di lavorarla? Senza dubbio non si tratta di trovare uno spazio confortevole, dove questo quesito non si genera più. Si tratta innanzitutto di assumere una posizione per vedere ciò che da questa si genera. Questo asse di complessità sarà seguito da una descrizione dello spazio dei vissuti e dello spazio interiore del pittore. Aggiungeremo a questa riflessione i concetti di "ambiente" e di "non-azione" pertinenti per interrogare lo spazio, vissuto sia mentalmente sia concretamente.

    I Nel mondo fenomenologico

    Questa prima parte espone la posizione fenomenologica "faccia a faccia" del reale. Come considerare il suo posto in rapporto "al mondo" e "nel mondo "per essere in grado di parlare di questo mondo? Nella sua premessa a "La fenomenologia della percezione", Maurice Merleau-Ponty sviluppa ciò che è la fenomenologia, ivi compresa la riduzione eidetica, appoggiandosi sul lavoro di Edmund Husserl. "La fenomenologia, è lo studio delle essenze" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 1), filosofia che pone le essenze nel contingente, nell'esistenza. Tenta di rinvenire i fatti, considerando che il mondo è sempre già dato. E' precisamente questo contatto perduto col mondo che intende rinnovare [2]. Nella misura in cui i phenomenologues considerano che il mondo è già dato, non si tratta per loro di ricostruire il reale per conoscerlo. La fenomenologia consiste nel risvegliare l'esperienza del mondo, esperienza che precede la conoscenza. Il suo obiettivo non consiste nel ricostruire il mondo per conoscerlo, ma nel prendere coscienza dei legami primi che ci legano al nostro mondo. Ci sembra, dunque, che la posizione fenomenologia differisca dalla prospettiva costruttivista. Il costruttivismo cerca di afferrare la conoscenza e la cerca non nel mondo, ma nel pensiero di colui che cerca. Conoscere è fare, costruire, creare. La conoscenza si genera nel pensiero del ricercatore. Secondo Paul Ricoeur la fenomenologia si consacra a costituire la realtà e "costituire non è costruire, ancor meno creare, ma dispiega le intenzioni della coscienza confuse nei sequestri naturali, irriflessivi, ingenui delle cose" (Ricoeur, 1986, pagina 15). Tenta di ritrovare le essenze nell'esperienza del mondo. Secondo questa la conoscenza scientifica è secondaria. Quanto al sapere, quello che è evidentemente condiviso, è principale, ed è fondato sull'esperienza nel mondo. Non c'è il pensiero da una parte e il mondo dall'altra, ma coesistenza di uno e dell'altro.

    Il metodo fenomenologico consiste, dunque, in una descrizione di questa esperienza ritrovata, e non in un'analisi riflessiva. Ci sembra che la fenomenologia non spieghi ma implichi. Bisogna a questo punto rinvenire alle etimologie presupposte da questi due contrari: entrambi derivano da "plicare" [3] che significa piegare. Il significato primo di "spiegare" sarà "dispiegare", "sciogliere", "mettere sul piatto", e il significato primo di "implicare" sarà "piegare all'interno di", "avvolgere". La visione fenomenologica implicherebbe il restare all'interno del mondo piuttosto che allontanarsene, dunque di vivere le esperienze di questo mondo per essere in grado di descriverle. Ma questa topografia suppone al tempo stesso una "distanzazione" "faccia a faccia" dell'esperienza. Questi due contrari, implicarsi e distanziarsi, si vanno dunque a ricollegare con quello che Husserl ha chiamato "la riduzione eidetica", riduzione che prende corpo all'origine di questa impostazione filosofica. Bisogna rinvenire l'esperienza del mondo perché il mondo è sempre già dato. Ora, per prendere coscienza del primato di questo rapporto col mondo, bisogna sottrarsene, rompere col mondo stesso: "La riflessione radicale è coscienza della propria dipendenza riguardo ad una vita irriflessiva che è la situazione iniziale, costante e finale" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 9). Dunque, rinvenire al mondo necessita di separarsene, di uscire dal nodo senza disfarlo, prendendo coscienza che non potremo mai uscirne perché noi siamo sempre in rapporto al mondo. E la riduzione è la soluzione che fa apparire il mondo così com'è, e non come noi lo pensiamo o come lo ricostruiamo attraverso la conoscenza. "Il mondo è quello che noi percepiamo" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 11). "Il mondo non è ciò che penso, ma ciò che vivo" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 12). Ciò significa che il mondo è quello che noi proviamo, che percepiamo, che sperimentiamo. Non siamo degli spettatori, ma degli attori. E adottiamo questa posizione emblematica dal momento in cui viviamo. Ma per il fatto di constatare che ne possiamo uscire, ci posizioniamo al di fuori del mondo, e ciò ha per effetto immediato il re-immergerci subito nel mondo [4]. Ci sembra che il mondo fenomenologico realizzi la congiunzione tra oggettività e soggettività: è un mondo reale, nella misura in cui è vissuto, ed è sempre vissuto secondo il punto di vista singolare della persona.

    Merleau-Ponty riprende il pensiero di Husserl, il quale concepisce "la coscienza stessa come progetto del mondo, destinata ad un mondo che essa non abbraccia né possiede, ma verso il quale essa non cessa di dirigersi, - e [riconosce] il mondo come questo individuo pre-oggettivo in cui l'unità imperante prescrive alla coscienza il suo scopo" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 13). Si tratta di un'intenzionalità operante che fa sì che il mondo e la nostra vita siano Uno, e che precede l'intenzionalità propria della conoscenza. Si tratta di un rapporto col mondo permanente, mai esaurito, e che la filosofia ci mette innanzi poiché questo rapporto, essendo evidente, l'abbiamo dimenticato. Comprendere, per la fenomenologia, "è riprovare l'intenzione totale" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 13), ritrovare "una certa maniera di dare una forma al mondo" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 13) incrociando tutte le prospettive attraverso le quali il fenomeno può essere percepito. Secondo Merleau-Ponty, l'intenzionalità rinvia alla questione del senso. E il senso è totale nella misura in cui risulta dalle relazioni tra le differenti prospettive. Non si può comprendere un elemento isolandolo, poiché il mondo è Uno, ed è Uno in quanto inesauribile. La razionalità perviene da queste relazioni tra un punto di vista ed un altro, dai legami tra avvenimenti. Il mondo, allo steso modo, il senso emergente dalle intersezioni, non è quindi uno spirito assoluto a parte, separato da chi l'ha fondato. L'oggettività arriva attraverso gli incroci tra le mie tante soggettività e tra queste e quelle altrui. "Il mondo fenomenologico, non è l'esplicazione di un essere preliminare, ma la fondazione dell'essere, la filosofia non è il riflesso di una verità pre-esistente, ma come l'arte la realizzazione di una verità" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 15). Noi siamo ed anche il mondo è un nodo di relazioni da cui emerge l'essere oggetto e l'essere soggetto. Il pensiero del mondo non può fare altro che realizzare a sua volta il mondo. Non si danno azioni sul mondo, da una parte, e pensiero sul mondo, dall'altra. Pensare il mondo è vivere e provare il mondo per pensare. Ciò ci porta a concludere che il mondo stesso sia paradossale nella misura in cui non possiamo dire del mondo senza essere nel mondo. Il logos e il mondo corrispondono ad una sola ed unica cosa in cui la filosofia sarebbe una parte integrante.

    Per riassumere questo approccio filosofico sul mondo, il ricercatore, che sia filosofo o scienziato, fa parte del mondo. Estraniarsene per osservarlo, non può essere che un'illusione. Non si può guardare senza farne parte, dunque senza guardare se stessi. I suoi modelli (del ricercatore) devono integrare questo atteggiamento fondamentale. Rilevando l'esperienza del mondo, il ricercatore rende conto del posto singolare ed irriducibile del corpo per questo suo essere-nel-mondo.

    II Lo spazio come luogo possibile di azione

    Che dire di questo approccio fenomenologico per quanto riguarda la categoria dello spazio? Riflettiamo sull'importanza del corpo e dello spazio in quanto secondo Merleau-Ponty lo spazio è, prima di tutto, luogo possibile d'azione. Ritornando all'esperienza, Merleau-Ponty descrive uno spazio che rifugge all'alternativa dello spazio fisico, costituito dalla molteplicità delle cose, e lo spazio geometrico, luogo comune a tutte le cose, che mantiene quelli che sarebbero gli spostamenti. Quello che chiama spazio geometrico ci sembra coincidere con lo spazio infralogico di Piaget [5] (Piaget e Inhelder, 1947), schema unico che organizza gli oggetti. Partendo dalla nostra esperienza di soggetti incarnati, Merleau-Ponty dimostra che lo spazio fondamentale è relativo al vissuto del corpo. Secondo lui, parole come "dentro" o "rinchiuso" non hanno senso se non relativamente alla nostra esperienza corporea. "Uno spazio è rinchiuso dentro i lati di un cubo come noi siamo rinchiusi tra i muri di una stanza" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 236). Il significato del cubo proviene dalla facoltà di abitare questo cubo, di penetrarne lo spessore attraverso l'esperienza percettiva, di camminare sui suoi confini. I lati del cubo sono, per Piaget, proiezioni e, " per Merleau-Ponty, dei lati ai quali possiamo "sfregarci. Lo spazio che quest'ultimo considera è uno spazio sentito, percepito, visitato, investito (di significato). Ma scrive, ancora, che uno "spazio che non fosse oggettivo e che non fosse unico non sarebbe uno spazio: non è essenziale allo spazio di essere "l'esterno" assoluto, correlativo, ma anche negazione della soggettività, e non gli è essenziale abbracciare tutto l'essere che è possibile rappresentare, giacché ciò che si vorrebbe posare fuori di questo sarebbe in rapporto con questo, dunque dentro questo?" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 333-334). Secondo questi, perciò, lo spazio vissuto non è la negazione dello spazio oggettivo. Semplicemente, lo precede e lo fonda.

    Fondandosi su alcune esperienze sulla visione, Merleau-Ponty sviluppa il concetto di livello spaziale. Perché uno spazio sia coerente, è necessario che noi possiamo investirlo. Per esempio, una visione che rispecchia (con l'aiuto di uno specchio o di occhiali che rispecchiano l'immagine della retina) i rapporti spaziali abituali (destra/sinistra; sopra/sotto) non permettono in un primo tempo la presa del mondo come percepito dal corpo, poiché lo spazio rispecchiato sembra incoerente. Ma il soggetto ha la facoltà di abituarsi a questo spazio e di cambiare anche improvvisamente livello spaziale per investire il mondo presentato. Un livello spaziale è un nuovo ordine d'azione, "una certa possessione del mondo attraverso il mio corpo, una certa presa del mio corpo sul mondo" (Merleau-Ponty, 1945, pagina 289). Tutto il livello spaziale si stabilisce sulla base di un livello già dato. Dal momento che c'è il corpo, c'è lo spazio e il livello spaziale. Addirittura, la questione dell'origine dello spazio non si pone poiché l'origine dello spazio è l'origine dell'essere.

    E' la nozione stessa di spazio che Merleau-Ponty precisa: secondo questi, non c'è spazio se non si ha possibilità d'azione per il corpo. Bisogna precisare che cosa egli intenda per possibilità d'azione. Questa non significa che lo spazio percepito o rappresentato sia realmente vivibile. Un guscio di noce non è realmente vivibile e pertanto, può diventare un luogo possibile delle nostre azioni, possiamo alloggiarci in sogno. Possiamo rappresentarlo come uno spazio coerente, cioè sul quale possiamo avere presa, dove l'esperienza è possibile. Con la lista di vie da intraprendere per portarmi a Cognac [6], avevo la presa sullo spazio del mio tragitto, e questo era poco spazializzato. Ciò che ci sembra opportuno sottolineare alla fine di questo paragrafo, è la posizione d'intermezzo dello spazio fenomenologico, situato nel riscontro tra il soggetto e il suo mondo. Ugualmente, reperiamo ciò che tra i due c'è e che è anzitutto una potenzialità, nella misura in cui si tratta di un luogo "possibile" delle nostre azioni. Questa questione dell'indeterminato rimanda ai lavori di Georges Lerbet ed il suo concetto di ambiente.

    III L'ambiente, luogo di interazione persona/circostanza

    Nel modello del sistema persona sviluppato da Georges Lerbet, il concetto di "ambiente" ci richiama in modo particolare. Abbiamo l'intuizione che ci possa aiutare a sviscerare la questione del pensiero dello spazio, sebbene non sappiamo ancora come. Questo paragrafo è quindi un inizio di riflessione destinata, speriamo, ad arricchirsi verso la fine. La posizione spaziale del corpo nella sua circostanza è a priori chiara: figura in grado di spostarsi, con un esteriore (visibile e tangibile), un interiore (l'altra parte della pelle) e la frontiera tra i due che può essere l'epidermide o i vestiti. Ora, il concetto di Mondo e di Ambiente scontrano questa mappa e rendono considerevolmente opache queste relazioni topologiche tra il corpo e ciò che lo circonda.

    I due concetti di ambiente e di mondo sono da ricollegare nella misura in cui entrambi si situano su di un'"interfaccia". Da parte sua, il mondo fenomenologico è insieme soggettivo, perché appartiene al soggetto, e oggettivo, nella misura in cui è sufficientemente stabile e condiviso. Quanto all'ambiente, "corrisponde a quello che un sistema vivente prende in conto dalla circostanza, ne trattiene, secondo un costruttivismo auto-poietico" (Lerbet, 1995, pagina 100). Si tratta dunque di un luogo di scambio tra la persona e la sua circostanza, ma anche di uno spazio di creazione. Il concetto di autopoiesi (Varela, 1989) rinvia in effetti ad una catena di processi allacciata, processi che producono i componenti che la producono. L'ambiente sarebbe, dunque, il punto d'incontro tra l'eteroreferenzialità e l'autoreferenzialità, cioè la moltiplicazione della referenzialità a ciò che non è in sé per la referenza in sé. L'ambiente è dunque allo stesso tempo interno ed esterno, luogo di incontro tra soggetto e le sue circostanze, è situato tra i due. La costruzione dello spazio di un soggetto si realizza in quell'ambiente che è allo stesso tempo interno ed esterno al soggetto.

    Questa nozione di ambiente pone il problema di capire ciò che Lerbet chiama circostanza. A priori, quest'ultima può essere concepita come ciò che circonda il soggetto. Ci sarebbe, dunque, una relazione spaziale di vicinato e di sviluppo tra ambiente e circostanza. Ma, secondo Lerbet, dal momento in cui l'Ego e la circostanza si differenziano l'uno dall'altro, una sorta di pelle spessa emerge e allo stesso tempo li lega e li separa: l'ambiente. Questa tensione, che mantiene in opposizione queste due nozioni, può essere lavorata a partire dalla relatività dei punti di vista. Infatti, non posso scappare dal mio ambiente. Quando credo di percepire l'ambiente di un altro, non faccio altro che estendere o restringere il mio ambiente. Allo stesso modo, non mi posso estraniare dal mondo fenomenologico. "il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali di uno stesso essere" (Merleau-Ponty, 1964, pagina 17) che io percepisco e vedo attraverso l'esperienza. Non potrò mai accedere all'ambiente altrui. Lo spazio all'interno del quale l'altro vive, agisce e pensa, appartiene al suo ambiente. E' lo spazio dell'altro, che non è il mio, ma che può interagire col mio.

    IV L'orizzonte del mondo

    Questa distinzione tra circostanza e ambiente è dunque ambigua: seguendo il punto di vista adottato, che sia l'uno o che sia l'altro a dominare. Per la persona, solo ciò che compone il suo ambiente è percepibile poiché la circostanza distinta del suo ambiente corrisponde a ciò che elude. Per definizione, non può scorgerlo. Ma se mi posiziono da un punto di vista esteriore alla persona, non posso distinguere l'ambiente che le è proprio, non vedrei che la sua circostanza, ciò che le è esteriore. Ma non potendo vedere ciò che appartiene al mio ambiente, non percepirei prima la circostanza. Sottolineiamo che la nozione di "frontiera" non è pertinente per comprendere la separazione tra l'ambiente e la circostanza. Non c'è una zona di "ambiente" circondata da uno zona di "circostanza" attraverso una relazione topologica di sviluppo. Secondo Lerbet, la circostanza è costituita da tutto ciò che non è integrato al centro della persona. Pensiamo che corrisponda a tutto quello che si troverebbe al di là di una linea d'orizzonte dinamica. Ora, quest'ultima non ha niente di una frontiera topologica, poiché malgrado tutto i posizionamenti possibili ed inimmaginabili della persona, questa non potrà mai superare tale linea. Non potrà altro che respingerla, trasferendo se stessa. L'ambiente non è, dunque,riducibile alla circostanza, sarebbe a dire che non è una delle sue parti.

    La questione legata all'ambiente, pone una questione epistemologica rilevante: in quanto ricercatore, ho accesso agli spazi vissuti e pensati dagli altri? Nel quadro di questo modello, cosa significa condividere con altri l'esperienza o scambiare idee? Non svilupperemo questo problema poiché non è al centro del nostro articolo, anche se ci ricollega alla problematica relativa alla soggettività dello spazio. Di contro, andremo ora a sviluppare la questione seguente, quella teorica: in questo quadro, quali sono le relazioni tra il corpo e l'ambiente? Troviamo un chiarimento nella breve e pregevole opera di Merleau-Ponty, "L'occhio e lo spirito", che descrive lo spazio del pittore. Si tratta innanzitutto di una spazio complesso, che descrive una doppia concatenazione tra il corpo e il mondo (o ambiente).

    V Lo spazio del "di dentro" e del "di fuori"

    Merleau-Ponty ha descritto lo spazio del pittore ne "L'occhio e lo spirito", piccola opera ma contributo capitale per ciò che contiene quanto a complessità e profondità. Per una traduzione di ciò che è (nel senso più forte dell'Essere) lo spazio del pittore, Merleau-Ponty perviene ad indicare quell'indicibile spazialità, la sua essenza estratta dall'esperienza vissuta. Cosa guarda Cézanne di fronte alla montagna di Santa Vittoria? Il paesaggio stesso, o i due allo stesso tempo, cioè il paesaggio e sé stesso? Interrogando l'occhio del pittore, Merleau-Ponty interroga l'occhio umano, vedente e visibile, e allo stesso modo, l'Essere. Rinviene al vissuto e al corpo, allo spirito immerso nel corporale. Ricollega la questione posta dopo l'autonomia (Lerbet, 1998) e della chiusura (Varela, 1989) con l'idea che il pittore, vedente, si vede vedente [7]. Dando accesso a quello che non è "sé", la visione permette di rinvenire al sé. La proprietà dell'Essere è percepire il mondo da un punto di vista di questo stesso mondo, di vederci la propria assenza e dunque di rinvenire a sé. Merleau-Ponty posiziona il suo punto di vista richiamando una critica alla scienza, compresa la psicologia, che intende occupare uno spazio esteriore al mondo. Manipola gli oggetti, opera su di loro sbarazzandosi di tutta la loro storicità e di tutta la loro cultura. Ha l'ambizione di posizionarsi al di fuori del mondo. Merleau-Ponty parte da questa costante per liberare, in negativo in un primo tempo, il lavoro dell'artista che agisce all'interno del mondo, e, più precisamente, del pittore che interroga il fondamento della visione e rinvia alla sorgente delle sensazioni e dell'essere.

    A parte questo impossibile ritratto del mondo, la mappa del visibile e la mappa dei posizionamenti possibili del soggetto sono mescolati: non vedo che quello che posso raggiungere [8] e, di ritorno, non posso raggiungere quello che posso vedere. "Il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali di uno stesso essere" (Merleau-Ponty, 1964, pagina 17). Questa concezione delle interazioni tra la percezione e la motricità rinvia oggi ai lavori di Francisco Varela secondo il quale le attività sensoriali e le attività motrici si provocano reciprocamente (Varela, 1989, pagina 27). "La percezione e l'azione, il percettivo e il motore sono legati in quanto motivi emergenti che si selezionano mutuamente" (Varela, 1993, pagina 220). Non c'è percezione al di fuori dell'azione. Lo spazio non può essere visto e compreso come una distesa coerente senza essere allo stesso tempo agito, abitato dal nostro corpo. "E nella misura in cui le azioni cambiano, la percezione del mondo fa lo stesso" (Varela, 1993, pagina 222-223). La visione è dunque molto di più che un'operazione del pensiero: è un approccio, un'apertura "sul mondo" e "nel mondo". Vediamo al centro del mondo, ne facciamo parte integrante. Alla reciprocità precedente, ne possiamo aggiungere un'altra che Merleau-Ponty sviluppa in questi termini: il nostro corpo si rapporta al numero delle cose visibili; vede, ed è lui stesso visto da ciò che lo circonda. Vede e si vede vedente. Vediamo dal centro delle cose perché ne siamo parte. E' dentro questo enigma del "vedente-visibile" che Merleau-Ponty ricerca i problemi legati alla pittura. La visione manifesta si sdoppia in una visione "segreta". A parte questo "nodo" di corpo vedente e visibile, la visione fa ben altro che mostrare davanti a noi un quadro del mondo.

    La pittura permette di accedere a questa interiorità dell'essere, contiene questa duplicità del sentire. Permette di vedere quello che è visibile: il tessuto dell'essere, la visione interiore del pittore che non è univoca, ma che si riconferma su se stessa, che riversa il "di dentro"e il "di fuori", il pittore che vede le cose vederlo. Merleau-Ponty si rifà alla filosofia di Cartesio. Idealizzando lo spazio, quest'ultimo l'ha liberato. Infatti, in seguito al Rinascimento, ne ha fatto un essere malleabile ed omogeneo. Per Merleau-Ponty, sarebbe necessario passare da qui per poi essere un grado di capire che lo spazio è ancora altra cosa che un sentire totalmente pensabile. A fianco di questo pensiero razionale, Cartesio riconobbe uno spazio corporeo, matrice del primo ma oscuro e, dunque, psicologico tentativo di "lavorare" questo contatto con se stesso e col mondo, ma, in quanto accecato dall'Essere abissale, non pensabile, e che Cartesio ha intravisto. La filosofia d Merleau-Ponty intende far parlare lo spazio, non quello che è totalmente pensabile e al di fuori del corpo, ma quello esistente per lo spirito diffuso nel suo corpo, spirito che non è puro sentire. E ciò si ricollega alla ricerca della profondità attraverso il pittore.

    Ma di cosa si tratta? Non è né la terza dimensione che si aggiunge al piano, né la dimensione prima che mi separa dagli altri e dalle cose. Non può essere tradotta da una qualunque tecnica pittorica. E' piuttosto da ricercare nel rapporto del pittore con le cose. Si tratta di "questa animazione interna, questa irradiazione del visibile che il pittore cerca sottoforma di profondità, di spazio, di colore" (Merleau-Ponty, 1964, pagina 71). La visione dà accesso a ciò che è diverso da sé e, allo stesso tempo, ritornando al pittore, gli permette di ritornare a sé stesso: insegna a distinguere e ad unire. Il visibile contiene l'invisibile che lo concretizza come un'assenza. La profondità è, dunque, questa presenza dell'invisibile nel visibile. Tutta la forza di quest'opera sta nel fatto che Merleau-Ponty perviene a scrivere su una cosa che è indicibile: lo spazio pittorico, spazio dell'interno, del vissuto, indissociabile dal corpo e dalla visione. Qui ritroviamo quello che abbiamo identificato in negativo nel lavoro di Jean Piaget: uno spazio non esclusivamente razionale, che non può essere concepito attraverso un sistema di regole predefinite e stabili, allo stesso modo di quelle della prospettiva artificialis [9]. E' la questione del senso e della coesione dello spazio che qui ritorna con enfasi. Questa coesione lega insieme il corpo con l'ambiente, secondo una figura che descrive un cerchio infernale (Dupuy, 1979, pagina 55) o virtuoso (Varela, 1989, pagina 19) e in cui il corpo e l'ambiente non possono staccarsi l'uno dall'altro senza sparire l'uno nell'altro.

    VI Lo spazio incarnato

    Ricordiamoci che Varela riprende la sua teoria dell'enaction (Varela, 1993) dal pensiero operativo di Piaget e dalla fenomenologia di Merleau-Ponty. Come Piaget, mette in relazione stretta le azioni sensorio-motrici e la cognizione. Ma, mentre Piaget pensa che il sistema cognitivo si sviluppi dopo il sistema biologico, Varela li concepisce come coestensivi. E così, come Merleau-Ponty, propone che "l'organismo dia forma alla sua circostanza allo stesso modo in cui è forgiato da questa" (Varela, 1993, pagina 236). Ritroviamo qui l'idea dell'essere al mondo a dell'impossibilità di ritrovare un'origine, qualunque essa sia. Possiamo ugualmente ricollegare il pensiero di Merleau-Ponty e di Varela a partire dalla nozione di "incarnazione" [10]. Entrambi considerano i soggetti come soggetti di carne, innanzitutto, sarebbe a dire, aventi un corpo concreto, sensibile. Secondo Merleau-Ponty, lo spazio è indispensabile a tutto l'essere, dal momento che l'essere è essere situato. Nel modello di Varela, dal momento in cui c'è vita, c'è cognizione; dal momento in cui c'è il corpo, c'è conoscenza. Varela concepisce il pensiero come incarnato, indissociabile dalla carne che abita il corpo. Sviluppando una corporeità della conoscenza, tenta di collegare l'approccio fenomenologico della conoscenza ai modelli delle scienze cognitive. Il suo progetto sarebbe quello di "costruire un ponte tra lo spirito secondo la scienza e lo spirito secondo l'esperienza vissuta" (Varela, 1993, pagina 21). Col concetto di enaction, Varela sviluppa questo approccio della cognizione compresa come comprensione incarnata.

    Varela si riferisce ai lavori sulla percezione del colore per sviluppare il concetto di enaction (Varela, 1993). La percezione è funzione dell'esperienza sensorio-motrice del soggetto nell'ambiente. Ci sono interazioni permanenti tra questa percezione e altre, e anche tra l'azione del soggetto e ciò che percepisce. I sotto-reticoli neurali corrispondenti cooperano ed entrano in contatto per formare schemi sensorio-motori. La percezione del mondo non è una semplice copia ma piuttosto un sistema s'interfaccia complesso. Ciò che va detto a proposito del colore può essere facilmente trasferito allo spazio. Le percezioni dello spazio sono in interposizione permanente con altre percezioni (luce, colore) ma anche con le azioni motrici. I miei spostamenti modificano senza sosta la mia visione dei luoghi che agiscono sui miei spostamenti ... e come questi senza sosta. Lo spazio e la nostra comprensione spaziale non hanno fondamento al di fuori dell'esperienza sensorio-motrice.

    Questo modello dell'enaction mostra che lo spazio è indissociabile dall'esperienza corporale. Non è in alcun caso una categoria concepita dal solo pensiero. Al contrario, tutto lo spazio pensato è anche abitato, tutto lo spazio concepito è luogo di motricità. Per comprendere il cammino che devo intraprendere per raggiungere Cognac [11], ho bisogno di vederlo, per esempio su una carta, al fine di sperimentarlo prima di percorrerlo effettivamente. Quando leggo sulla cartina che dopo aver percorso cinque chilometri su questa piccola strada di campagna, devo girare a destra, è tutto il mio corpo che compie il tragitto; i miei occhi che immaginano la strada sinuosa, il mio braccio destro che indica la parte della biforcazione, il mio corpo che segue il movimento della mia macchina. Si tratta di un'assimilazione di luoghi attraverso il corpo e il pensiero prima di arrivarci davvero. Pensiamo che un modello della cognizione incarnata sia più dell'addizione del corpo e del pensiero. Si tratterrebbe di una moltiplicazione, che comprende insieme il corpo ed il pensiero. La conoscenza dello spazio è doppiamente legata al corpo: per la spazialità legata al corpo e per la corporeità propria della cognizione.

    Conclusione

    Lo spazio è indivisibile dall'esperienza corporea, dalla motricità. Attraverso l'approccio fenomenologico, concepiamo lo spazio come appartenente alla totalità Ego-mondo, totalità che non può essere ridotta. Lo spazio risiede nell'essere, l'essere che è insieme soggetto ed oggetto, essere incarnato attraverso l'essenza dello spazio. Si tratta di un essere-nel-mondo e non di un essere-al-di-fuori-del-mondo. Lo spazio che partecipa alla costituzione di questo essere è, dunque, insieme interiore ed esteriore al soggetto. E' soggettivo ma è, anche, oggettivo poiché permette di riordinare, di definire lo spazio di tutte le cose.

    La postura fenomenologia è, innanzi tutto accettazione del mondo, dell'apparire fenomenico. Questa riduzione permette di sorpassare la questione delle origini (il soggetto o l'oggetto) per render conto dell'esperienza che mette in gioco insieme oggetto e soggetto. Nel quadro del pensiero dello spazio, è precisamente questa consapevolezza che cerchiamo di ottenere. Secondo Merleau-Ponty (Merleau-Ponty, 1945), uno spazio esiste a condizione che noi ne facciamo esperienza, a condizione che il corpo abbia presa su di esso. Ma questa condizione può esse capovolta: il corpo non può agire in uno spazio che esiste preliminarmente in quanto spazio. Queste due proposizioni sembrano vere rinviando l'una all'altra. La loro congiunzione forma una proposizione bi-condizionale contenente, secondo Lerbet (Lerbet, 1988), una parte d'indeterminazione. Non possiamo decidere da dove cominci, dall'esperienza dello spazio o dall'esistenza di questo spazio.

    In che modo uno spazio pensato da un soggetto accade in quanto spazio? Nel quadro del viaggio da Poitiers a Cognac [11], questo pensiero si realizzava a misura del tragitto, quando le strade e le biforcazioni nominate nella lista si concretizzavano. Avevo l'impressione di girare alla cieca, mi era difficile vedere i luoghi prima. "Vedere" rinvia qui ad una capacità di esplorare lo spazio, di vedere con gli occhi e soprattutto col corpo. In che modo questa visione sensorio-motrice si realizza nel pensiero? In quello che concerne il pensiero dello spazio e precisamente la comprensione dei disegni tecnici, c'è un momento in cui il foglio di carta si scava per lasciar vedere uno spazio in profondità che diventa abitabile. Senza dubbio, l'immaginario gioca un ruolo all'interno di quest'emergenza della spazialità.

    In precedenza, abbiamo opposto lo spazio vissuto, compreso quello pensato, allo spazio razionale e assoluto modellato da Piaget a partire dalle operazioni infralogiche. Oggi, ci sembra che lo spazio cosiddetto razionale, costituito da punti di vista distinti e coordinati, è anche uno spazio sperimentato, laddove le azioni su questo spazio sono fra le altre le operazioni infralogiche. La distinzione intravista tra spazio vissuto e spazio razionale non è più così chiara. Diventa poco a poco ambigua ed è questa ambiguità che cerchiamo di afferrare, come "un composto che non si tratta di eliminare come se fosse un parassita ma di addomesticare scientificamente" (Lerbet, 1988, pagina 63).

    Nel frattempo, l'approccio dello spazio fenomenologico porta anche ad un'opposizione tra il disegno secondo le regole della prospettiva ed il vissuto dello spazio. Una differenza importante sembra separare lo spazio fenomenologico vissuto dallo spazio disegnato su un foglio di carta, differenza bene espressa da questa frase di Varela, Thomson e Rosh: "Il mondo della condotta non si ferma ad un certo punto. La sua struttura consiste in un livello di dettaglio che indietreggia all'infinito e che si fonda in un retro-piano non scientifico" (Varela, Thomson e Rosh, 1993, pagina 208). Il vissuto è continuo e multiplo tanto che il disegno che posso fare di questa stessa realtà è ben delimitato da parti chiaramente individuate e secondo una scala fissa. I confronti tra la didattica del disegno tecnico, i contributi della geometria descrittiva e ancora meglio della prospettiva, e i modelli filosofici e psicologici, contribuiranno alla costruzione di un'antropologia dello spazio di cui una delle caratteristiche individuate è l'ambiguità.


    NOTE

    1] Anello di Moebius o bottiglia di Klein, in cui non si conosce differenza tra interno ed esterno.
    2] E' necessario spiegare la figura del nodo nella fenomenologia e nella costruzione dello spazi . Il nodo come figura topologica può chiarire il concetto di spazio corporeo: questi intrecci che non si possono sciogliere, poiché non si può decidere dove sono le estremità, dove inizia e dove finisce, come in una figura di Escher.
    3] Dal dizionario "Petit Robert", 1991.
    4] Bisogna paragonare quello che descrive Husserl con ciò che Dupuy definisce "double bind", vale a dire un doppio vincolo.
    5] E' necessario approfondire la definizione di infralogico utilizzata da Piaget, questa si distingue dalla logica nella misura in cui verte su oggetti situati in un continuum spazio temporale. Esiste una problematica sottostante alla questione della continuità, dellaa rottura e del pensiero logico.
    6] Cfr. Introduzione.
    7] Questa concezione riporta ai testi di Proust dove il narratore protagonista si trova regolarmente nella posizione squilibrata, perversa, del vedente non visto. Quello che comunemente è detto voyeur. Lo squilibrio e la malattia provocati da questa situazione mostrano l'importanza della reciprocità dello sguardo.
    8] La potenza delle stelle della volta celeste sulla nostra percezione può essere data dal fatto che noi tentiamo di raggiungerle mentalmente pur sapendo che non potremo mai farlo.
    9] Sarebbe a dire la prospettiva in cui le regole sono state costruite, nel Rinascimento, in opposizione alla prospettiva naturalis che non è altro che l'ottica greca; la prima è stata costruita a partire dalla seconda.
    10] Nella sua opera del 1993, Varela si riferisce a Merleau-Ponty.
    11] Cfr. Introduzione.


    BIBLIOGRAFIA

    Dupuy Jean-Pierre, L'enfer des choses, René Girard et la logique de l'économie, Paris, Editions du Seuil, 1979, pp. 9-134.
    Lerbet Georges, L'insolite développement, éditions Universitaires UNMFREO, 1988, 207 p.
    Lerbet Georges, Bio-cognition, formation et alternance, Paris, L'Harmattan, 1995, 181 p.
    Lerbet Georges, L'autonomie masquée, Paris, L'Harmattan, 1998, 162 p.
    Merleau-Ponty Maurice (1945), Phénoménologie de la perception, Paris, Edition Gallimard, 1998, 531 p.
    Merleau-Ponty Maurice (1964), L'œil et l'esprit, Paris, Edition Gallimard, 1985, 92 p.
    Piaget Jean et Inhelder Bärbel, La représentation de l'espace chez l'enfant, Paris, Presses Universitaires de France, 1947, 581 p.
    Ricoeur Paul (1986), A l'école de la phénoménologie, Paris, Librairie philosophique Jean Vrin, 1998, 295 p.
    Varela Francisco J., Autonomie et connaissance, Paris, Seuil, 1989, 254 p.
    Varela Francisco J., Thomson Evan, Rosch Eleanor, L'inscription corporelle de l'esprit, Paris, Seuil, 1993, 377 p.


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