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  • Internati militari italiani
    Maria Immacolata Macioti (a cura di)

    M@gm@ vol.16 n.1 Gennaio-Aprile 2018





    I REDUCI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE E IL RUOLO DELL’ANRP

    Enzo Orlanducci

    info@anrp.it
    Nato a Roma nel 1943, orfano di guerra, docente in pensione. Autore di numerosi saggi, tra i quali: “Resistenza e Libertà a Roma” (1995), “Fotostoria della Repubblica” (1997), “Tra storia e memoria” (1998), “Cefalonia 1941-1944 un triennio di occupazione” (2004), “Prigionieri senza tutela – Con occhi di figli racconti di padri internati” (3 volumi – 2005), “Secondo Coscienza” (2007), “Percorsi Politici e Civili” (2011), “La funzione della Sardegna a favore dei paesi candidati U.E.” (2011). È insignito di onorificenze italiane ed estere, fra le quali: Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana; Ufficiale dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; Cavaliere dell’Ordine Nazionale de la Republique de Côte d’Ivoire. Dal 2013 ricopre la carica di Presidente Nazionale dell’ANRP-Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari.


    Grafico dei prigionieri italiani nel mondo nella Seconda guerra mondiale(Archivio storico MAEC)

    Nella storia dell’uomo, lo scontro armato fra tribù, popoli e stati ha portato a vincitori e vinti. Infatti quella della guerra è sempre una memoria differenziata e conflittuale, che premia i primi e oscura i secondi, celebra gli eroi e confina nell’anonimato le vittime. A questo destino non poteva sottrarsi l’Italia e a maggior ragione i suoi reduci dalla Seconda guerra mondiale che dovettero fare i conti con una delle questioni più delicate che ogni dopoguerra porta con sé: la smobilitazione e il reinserimento.

     

    Il ritorno dalla seconda guerra mondiale

     

    Il ritorno dalla guerra fu per molti caratterizzato dall’indeterminatezza materiale e psicologica, da una continua altalena di sentimenti, doveri, sensi di colpa, ricerca di significato per la propria e l’altrui esperienza, da una condizione, cioè, di continua “liminalità”. Fu una condizione non omogenea per le diverse categorie di reduci, che, in ogni caso, segnò i caratteri, le forme, i modi, le relazioni dell’esistenza successiva. Forse per tutti fu la condizione-paura di essere un “Reduce a vita”.

     

    L’estate del 1945 trovava l’Italia stremata per le dure traversie subite e per i danni causati alle persone e alle cose. Il numero dei militari morti erano di circa 325 mila e quasi altrettanti tra mutilati e invalidi, mentre i civili caduti nei bombardamenti o comunque in conseguenza di eventi bellici ammontava a oltre 130 mila morti e 150 mila feriti.

     

    Alla fine della Secondo conflitto mondiale, nel territorio nazionale, i danni alle cose superavano di molto nel loro complesso i 2.000 miliardi di lire (quotazione del 1945). La produzione agricola risultava dimezzata rispetto al 1938, quella industriale era scesa addirittura a meno di un terzo, ben pochi servizi pubblici continuavano a funzionare, le strade e le ferrovie erano interrotte in più punti. Dovunque si incontravano cumuli di macerie. Si contavano milioni di senza lavoro. Una piaga che accresceva le tensioni sociali, che sfociavano non solo in vaste manifestazioni di protesta, ma talora anche in sommosse cruente. Questo il quadro generale che si presentava ai reduci al rientro alle loro case.

     

    Reduci dai campi

     

    I nostri reduci (1 milione e 300 mila) che erano stati prigionieri ovunque e dislocati in ogni parte del mondo (India, Iraq, Iran, Egitto, Tunisia, Algeria, Texas, Sudafrica, Kenia, Giappone, Siberia, Brasile, Argentina, Grecia, Turchia, Canada, ecc.) man mano che rientravano dai campi, insieme ai partigiani che lentamente smobilitavano e agli appartenenti alle FF.AA. della Campagna d’Italia costituirono una grande massa che doveva essere inserita nella vita normale ancora scossa, con tutti i problemi conseguenti.

     

    Se vogliamo analizzare “la realtà dei reduci”, dobbiamo partire dalla loro identificazione: «Reduci! Questo attributo era dato durante il primo Risorgimento d’Italia a coloro che ritornavamo dalle patrie battaglie, ossia ai soli combattenti; ora purtroppo dopo la seconda guerra mondiale il significato è assai più largo e comprensivo: non si tratta più dei soli guerrieri ma anche di coloro che rientrano dalla prigionia, dai campi di concentramento» (R. Corselli, Saluto ai Reduci, “La parola del reduce”, n. I, Primo, 1946. Periodico dell’Unione Nazionale Reduci d’Italia).

     

    Questo ci porta necessariamente a dover definire, all’interno dell’universo dei reduci, comunità più ristrette, quale: POW - Prisoner Of War - nel gergo militare, in inglese, è prigioniero di guerra quell’individuo, tipicamente un militare o ad esso assimilato, che viene catturato dalle forze armate belligeranti avversarie, in regolare azione di combattimento durante una guerra.

     

    Le convenzioni di Ginevra estendono la definizione di militare o omologato tale a qualsiasi elemento in armi, mentre versioni precedenti obbligavano all'impiego di chiari e visibili distintivi o altri elementi di riconoscimento da portare a distanza. Questa è una delle motivazioni per cui in vari casi i belligeranti non hanno riconosciuto lo status di prigionieri di guerra, bensì di spie o sabotatori, a elementi catturati senza le specifiche indicate.

     

    Le convenzioni che hanno regolato e regolano la materia, pur con modifiche occorse negli anni, (Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, del 27 luglio 1929) concedono al prigioniero di guerra alcuni diritti fondamentali, come quello all'alimentazione, alle cure sanitarie e alla fuga. Il prigioniero di guerra, infatti, ha diritto di tentare la fuga e di impegnare quante più forze possibile del nemico per la sua cattura.

     

    Gli ufficiali sono esentati dal lavoro manuale, se non previa loro esplicita richiesta, mentre soldati e graduati di truppa possono essere obbligati al lavoro manuale forzato.

     

    Prima dell’8 settembre 1943 le sconfitte militari italiane in Africa, in Unione Sovietica e in Sicilia avevano prodotto un elevato numero di prigionieri. La loro dislocazione e le condizioni di vita nei vari campi, si possono dividere tra militari catturati dagli Alleati occidentali e quelli in mano ai sovietici.

     

    Qualche cifra

     

    Secondo Giorgio Rochat (accademico, storico e saggista italiano) i soldati catturati dagli Inglesi in Africa settentrionale e in Etiopia furono circa 400.000, quelli presi dagli Americani in Tunisia e in Sicilia 125.000. Infine, vi furono gli oltre 40.000 militari lasciati ai francesi in Tunisia, in violazione della Convenzione di Ginevra che vietava il passaggio di prigionieri da una nazione alleata all’altra.

     

    Centinaia i campi, che spaziarono dall’Inghilterra al Medio Oriente, dal Sudafrica all’India, e dall’Australia al Canada. L’interesse degli Alleati per i prigionieri fu dovuta, innanzitutto, al loro utilizzo di manodopera a basso costo. Tant’è vero che, anche dopo l’armistizio, gli italiani, salvo alcuni gruppi di ufficiali, non vennero liberati. L’unica conseguenza fu la richiesta rivolta loro di firmare una generica adesione alla guerra contro il nazi-fascismo e a diventare “cooperatori”, cioè leali collaboratori nel lavoro prestato. Per il resto, non vi furono altre conseguenze. I prigionieri continuarono a lavorare nell’attesa della liberazione.

     

    Per quanto riguarda il numero dei “cooperatori”, la percentuale degli accettanti fu di circa i 2/3, con differenze variabili da campo a campo. In genere le condizioni di vita nei campi furono piuttosto accettabili, ad eccezione di quelli francesi in Tunisia, Algeria e Marocco, dove gli Italiani soffrirono la fame e vennero sottoposti al lavoro forzato e a vessazioni di ogni genere. Alla fine si contarono ben 3.000 decessi.

     

    Diversi trattamenti in diversi campi

     

    Un grosso contingente di militari italiani fu imprigionato in Kenya, dove gli Inglesi provvidero a trasferire la maggior parte delle truppe sconfitte dell’Africa Orientale Italiana. Altri prigionieri vennero inviati nei campi del Sudan. Nell’estate del 1942, risultavano prigionieri circa 70.000 italiani, fra cui 5.000 ufficiali e qualche migliaia di civili classificati come reclusi politici. Gli ufficiali vennero divisi in generale fra i campi di Eldoret e di Londiani, mentre soldati e sottufficiali vennero ripartiti nei campi di Nairobi, Burguret, Gil Gil, Naivasha, Ndarugu, Nakuru, Naniuki, Ginja, Mitubiri, con i loro distaccamenti di Kisumu, Kitale, Kajado, Longido.

     

    La particolarità di questi campi fu che, almeno nella prima fase, le convinzioni fasciste perdurarono. Tanto che venivano addirittura organizzate squadre di punizione per i dissidenti. Dopo l’8 settembre nei campi del Kenya nacquero nuovi contrasti tra i prigionieri, cioè tra chi divenne “badogliano” e chi preferì restare “fascista”. Di qui scontri e tumulti interni.

     

    Un altro campo importante era quello di Zonderwater, ubicato in Sud Africa, dove erano rinchiusi più di 70.000 militari italiani catturati dagli inglesi durante le prime campagne africane. Considerata una vera e propria “Città del prigioniero”, aveva al suo interno i più temibili tra i nostalgici fascisti.

     

    Gli italiani rinchiusi nei campi inglesi, pur vivendo situazioni migliori di quelli internati in Germania, erano considerati solo come manodopera a basso costo. Denominati con l’appellativo dispregiativo di “Wops”, derivante dall’anagramma di “Pows” (prigionieri di guerra) e dalla trasposizione inglese del termine “guappo”, anche dopo l’8 settembre non migliorarono molto la propria condizione.

     

    Le Autorità britanniche, infatti, si guardarono bene dal reclutare militari italiani per inviarli a combattere i nazifascisti, continuando a trattenerli per sfruttarli soprattutto nei lavori agricoli, dove erano considerati molto più affidabili degli altri prigionieri.

     

    Anche in Australia furono internati, provenienti dall’India, circa 17.000 militari italiani, dove la maggior parte di essi preferì lavorare nelle campagne invece che rimanere dietro al filo spinato. L’Esercito mantiene su di loro i poteri disciplinari e, in alcuni casi, i prigionieri considerano il loro ritorno al campo di detenzione come una forma di punizione, mentre le Autorità australiane li considerarono in un certo qual modo come collaboratori indispensabili per l’economia del Paese.

     

    Sui prigionieri internati negli Stati Uniti, invece, vi è da precisare che molti di essi vennero ceduti agli americani dagli inglesi. Le condizioni di questi militari italiani furono naturalmente molto diverse da quelli detenuti negli altri campi, tant’è che molti di loro conservarono un buon ricordo di quella esperienza.

     

    Non solo rose e fiori

     

    Certo, non furono solo rose e fiori. In alcuni campi, come quello di Hereford, le condizioni di detenzione furono durissime per i “non cooperatori”. Fascisti e oppositori vennero trattati malissimo.

     

    Le autorità statunitensi, inoltre, applicarono le normative internazionali a proprio uso e consumo. Fatto sta che, quando dopo l’armistizio il nostro Paese assunse la qualifica di “cobelligerante”, gli italiani, invece di essere rimandati in patria, continuarono a lavorare per gli americani come manodopera a basso costo. Del resto il governo italiano non si interessò molto alla loro condizione e, anche nel dopoguerra, continuò a considerarli “merce di scambio” per accreditarsi presso gli Alleati, paventando il momento del loro rientro in Patria per le conseguenti problematiche di reinserimento lavorativo.

     

    Sui militari prigionieri in Russia ci furono forti difficoltà per stimarne il numero. Da varie fonti si parla di 50mila soldati rinchiusi nei campi sovietici di cui 27.000 morirono. Furono circa 200mila i soldati italiani partiti per la campagna russa: 11.872 morirono in azioni di guerra mentre i dispersi ammontarono a 70.275. Dall’apertura degli archivi sovietici negli anni ’90 la ricerca ha tratto nuova linfa ed è stata anche redatta una mappa di cimiteri e fosse comuni con luoghi e cifre: Tambov (6.846 militari italiani), Kirov (1.136), Saratov (1.084), Ivanovo (922), Vladimir (928), Gorki (520) e Odessa (429).

     

    Della condizione dei militari italiani in mano russa v’è da dire che essa fu alquanto difficile. Cibo scarso ed alloggiamenti inadeguati sono una costante nel ricordo dei reduci. Ma la caratteristica fondamentale dei campi sovietici fu la pressante e pesante opera di indottrinamento cui i prigionieri furono sottoposti con l’intento di “rieducarli” politicamente.

     

    Sugli IMI - Internati Militari Italiani, i militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, gli scomodi testimoni di quell’autentico sequestro di persona in massa cui procedette l’ex alleato al momento dell’armistizio, vi fu il mancato riconoscimento dello stato giuridico di prigionieri di guerra, con la conseguente sottrazione di quei diritti alla protezione, alla salute, alla dignità che il progresso della normativa internazionale aveva elaborato a tutela di quella condizione; la forzosa sommissione di quei renitenti alla competenza del regime della Repubblica di Salò, peraltro impotente ad assicurare una qualche assistenza; la forzosa trasformazione delle masse dei militari italiani, oltre 650mila uomini, in una forza-lavoro, sollecitata con mille pressioni a lavorare per l’estrema resistenza germanica. (M.R. Saulle, I militari Italiani dopo l’8 settembre ’43 in Germania, a cura di E. Orlanducci, Prigionieri senza tutela. Con occhi di figli racconti di padri internati, Roma, ANRP, 2005. Occorre premettere, prima di determinare le conseguenze connesse con questa nuova denominazione, che il termine di “internato militare” ricorre nel diritto internazionale solo con riferimento ai militari di uno Stato belligerante che si trovino sul territorio, inteso in senso lato, di uno Stato neutrale, convenzione de l’Aja 1899 sulle leggi e gli usi della guerra terrestre, all’art. 57ss).

     

    Gli IMI, sparpagliati in tutto il territorio controllato dal Terzo Reich, nelle migliaia di comandi di lavoro, furono alloggiati nei siti più disparati, sempre sotto la sorveglianza diretta o indiretta della Polizia, della Gestapo, della Wermacht o addirittura delle SS, come nelle fabbriche e nelle industrie belliche. La vita nei lager trascorreva quotidianamente tra i continui appelli, i tormenti della fame, del freddo e delle violenze, ritmata  dai tempi del lavoro coatto e di corvées. Non fu uniforme, ma risentì delle circostanze di luogo e di tempo cui fu subordinata. I continui bombardamenti aerei delle fabbriche e degli annessi campi di lavoro furono causa di ulteriori perdite, di frequenti massacri o di trasferimenti.

     

    Le pessime condizioni igienico-sanitarie dei campi con le ricorrenti epidemie di tifo petecchiale, dissenteria, t.b.c. o altro, diedero sovente luogo all’isolamento e talvolta all’abbandono dei luoghi infetti. Non fecero ritorno circa 50 mila uomini, ai quali vanno aggiunti quelli deceduti nei primi anni dopo il rientro.

     

    Vi furono anche  all’incirca meno dei un migliaio di militari, per lo più marinai, prigionieri dei giapponesi, che nei campi di concentramento dell’Estremo Oriente, furono racchiusi in condizioni penosissime. Degli avvenimenti succedutisi in Italia dopo l’8 settembre con la nascita della RSI, i giapponesi non tennero conto, in quanto la questione non li interessava perché riguardante soprattutto i rapporti italo-tedeschi. Gli italiani erano traditori, e basta.

     

    Nel mondo concetrazionario fondamentali ai fini della sopravvivenza furono la speranza sempre viva, la religiosità, la cultura, la vita associativa, oltre che l’economia del mercato nero con relativo baratto. In questi particolari luoghi sorsero amicizie che sono poi resistite nel tempo, al di là di quelle forme di esasperato egoismo, di incomprensione  e di animosità, che dipendevano molto dall’organizzazione e dalla disciplina applicata.

     

    Il ruolo positivo delle iniziative aggreganti

     

    Anche in quella situazione, dall’esigenza di adoperarsi per sostenere lo spirito dei compagni e l’umore generale dei campi, derivarono, quando possibile, iniziative aggreganti, quali conversazioni, dibattiti e alcuni esempi di un giornalismo elementare, puntato sulle risorse di un’informazione, raccolta con estrema difficoltà e dispensata con adeguata interpretazione. Fu attivato una sorta di continuo learning process, indispensabile per sopravvivere ad una realtà molte volte oltre i limiti della dignità umana, da parte di individui provenienti da realtà, contesti e processi  di socializzazione diversi e quindi con diverse risorse,  che sono state messe in gioco e condivise in differenti modi e situazioni.

     

    Frequente fu l’aggregazione di prigionieri oriundi dalle diverse città o regioni. Si costituirono persino delle “famiglie regionali”, conlo scopo di rievocare le tradizioni, le festività, parlarsi in dialetto e scambiarsi le notizie in arrivo con la corrispondenza da casa o, in senso contrario, di far arrivare sommarie notizie collettive. Tutto ciò contribuì a fornire chiarimenti sulle scelte da effettuare, a stimolare la fermezza sulle posizioni assunte, speculando sull’avvilimento generale derivante dalla guerra.

     

    Un’altra particolare e sorprendente iniziativa che animò alcuni prigionieri di guerra italiani, come ad esempio gli internati nei lager tedeschi, tra il marzo 1944 e il luglio 1945, durante la febbrile attesa della fine della guerra e poi dell’agognato rimpatrio, tanto a lungo rinviato, fu l’associazionismo. Esso costituì il motore educatore e formatore di coscienze, mezzo di affermazione e difesa dei principi politici, promotore di quei valori condivisi da cui sarebbe germogliata la democrazia della nuova Italia e gli albori della futura Europa.

     

    Alle origini dell’ANRP

     

    Prima di illustrare la mission dell’ANRP - Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione, riteniamo opportuno tracciare un breve profilo storico dell’Associazione che, come risulta dalla documentazione d’archivio, nacque dall’impegno di una eterogenea comunità, come quella  dei POW e degli IMI,  riconoscibile dalla caratteristica di non partire da una comune impostazione ideologica, e di non proporsi come indirizzo un’unica direzione prestabilita. In particolare l’esperienza concentrazionaria  costituì la premessa che spinse i prigionieri di guerra al bisogno di formarsi ad una nuova coscienza di creativa partecipazione democratica, e indusse quelli politicamente più consapevoli a promuovere il costituirsi di associazioni, in vista dell’insediamento di una nuova classe dirigente, che si auspicava fosse formata principalmente da chi aveva combattuto e da chi aveva sofferto nelle diverse prigionie. In modo particolare, di coloro che, come gli internati in Germania, erano stati messi nelle circostanze di raccogliersi attorno ad una nuova visione della società democratica e del bene comune, convalidando le loro scelte meditate con il rifiuto delle soluzioni facili e in presenza delle sofferenze nei lager. Un auspicio che rimase tale, per l’egemonia imposta nel dopoguerra da tutti i partiti.

     

    Una di queste coraggiose organizzazioni fu, nel luglio 1945, l’Associazione Nazionale Internati Militari Italiani in Germania, che nello Statuto dichiara “come scopo precipuo quello di valorizzare la figura dell’internato fedele al suo dovere, perché al ritorno possa essere riconosciuto il suo sacrificio, come un’aspirazione ideale di purezza e di rettitudine”, e sorge con l’idea di costituire una Commissione per comporre un verbale “materiato”di fatti, di nomi e di testimonianze, che possa illustrare i principali episodi del trattamento ad essi inflitto. Il 16 agosto 1945 viene formalizzato l’Atto Costitutivo dell’Associazione, che elegge come presidente il ten. col. Origine e come membri della giunta esecutiva il col. Ferretti, il magg. Andreatta, il magg. Marina, il ten. col. Tosi, il magg. Zito, il magg. Condurso, il magg. Scorsonelli; come segretario il magg. Scanziani. Dell’Atto costitutivo riportiamo stralcio del verbale, rogato nel lager di Gross Hesepe “Nel campo italiano n.1 presso Gross Hesepe (Meppen-Ems) il 16 agosto 1945 ad ore 14,30. Il sottoscritto maggiore di Amministrazione in S.P.E. Maccati Ugo di Angelo , delegato dal Comando del Campo con ordine del giorno n.45 del 29 marzo 1945 a ricevere atti in forma autentica, ai sensi del R.D. 8 luglio 1938, n. 1415 all. A, richiesto dal colonnello Ferretti Gaetano, fu Pasquale, (catturato dai tedeschi il 10 settembre 1943 quale Colonnello Comandante il Presidio di Merano, ha sostato nei lager di Stablak, Deblin-Irena, Cestokowa, Noriberga, Gross-Hesepe. Numero di matricola 5802-IA del Koncentration lager di Stablak.) Uff. R.E. Fanteria, nato a Reggio Emilia e residente a Parma, via Colonne, 8, nella sua qualità di presidente del Comitato Promotore dell’Associazione Nazionale Internati Militari Italiani in Germania, dà atto di quanto segue:

    Sono presenti nella baracca del teatro del Campo Italiano n.1 di Gross Hesepe i membri del Comitato promotore dell’Associazione suddetta, i presidenti dei consigli provinciali eletti dai Soci delle province per le quali (per aversi un numero minimo di dieci iscritti) si procedette il 9 corrente ad elezioni, nonché i rappresentanti  provinciali designati dai soci delle province per le quali non si è raggiunto il numero minimo. E così sono presenti i Signori […]. Anzitutto l’Assemblea provvede ad eleggersi un Presidente, che viene nominato all’unanimità nella persona del colonnello Gaetano Ferretti, Presidente del Comitato Promotore della ricordata Associazione; egli riassume la genesi della iniziativa, sorta tra gli ufficiali italiani deportati in Germania a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 e rimasti fedeli al loro giuramento. Ricorda i primi scambi di idee fino ai Campi di Deblin e Cestokova come in quello di Norimberga, la redazione originaria e le successive revisioni dello Statuto sino alla formulazione attuale, perfezionata in questo campo di Gross Hesepe dopo la liberazione. A nome di tutto il Comitato Promotore esprime vivo compiacimento per l’approvazione che l’iniziativa ha incontrato tra i compagni di prigionia, approvazione comprovata dal numero delle iscrizioni a soci salite a 1.126 a tutto il 15 agosto 1945. […] Dopodiché gli intervenuti, all’unanimità dichiarano di costituirsi e si costituiscono in Associazione […]. Il Presidente dell’Assemblea invita a procedere alle elezioni. […] Ultimato l’appello e la votazione, gli scrutatori procedono allo spoglio delle schede e allo scrutinio dei voti, terminato il quale proclamano eletti i seguenti: a Presidente del Consiglio Direttivo il ten. col. Alfredo Origine; a Membri della Giunta esecutiva: magg. Beniamino Andreatta, magg. Federico Marina, ten. col. Eugenio Tosi, magg. Michele Zito, magg. Vincenzo Scorsonelli, col. Gaetano Ferretti; a Segretario: maggiore Carlo Scanziani. Ad ore 17,00 il Presidente dell’Assemblea dichiara sciolta l’adunanza. Il presente verbale scritto di mio pugno e redatto in carta libera, in esenzione da ogni tassa di bollo e di registro in virtù del ricordato R.D. 8 luglio 1938, n.1415 all. A, occupa dieci pagine da me firmate. Letto, chiuso alla data di cui sopra, n.5 di repertorio in data 16 agosto 1945. L’Ufficiale rogante maggiore di Amministrazione f.to Ugo Maccati. Per autenticazione firma f.to Comandante Campo, cap. vascello Ugo Salvatori”. (G. Ferretti, Gli Internati nella luce del sacrificio,« Rassegna» , VI, nn,3/4, periodico dell’ANRP, marzo-aprile 1984, Autore del volume Per la libertà - Diario settembre 1943/settembre 1945 dal quale è ripreso il suddetto verbale).

     

    Il col. Ferretti, nell’agosto del 1945 con una sua lettera chiedeva alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di riconoscere l’Associazione nata tra gli ex internati di Deblin-Irena, Gross Hesepe, Fullen e Versen, e la Presidenza la inviava per competenza al Ministero dell’Interno. Tra i promotori dell’istituenda Associazione Nazionale Internati Militari Italiani in Germania, appare, oltre al col. Gaetano Ferretti, Presidente effettivo per lunghi anni della Federazione Provinciale della ANRP di Parma,  che all’atto della morte ricopriva l’incarico di Presidente Onorario, il magg. Elio Nicolardi, che diverrà poi in Patria il primo Presidente Nazionale dell’ANRP. Il programma della sopracitata Associazione nata nei lager mostra molte analogie con quello in seguito attuato dall’ANRP.

     

    I primi passi dell’ANRP

     

    L’ANRP - Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione, sottoposta alla vigilanza del Ministero della Difesa, di cui il Consiglio di Stato nell’adunanza della Sezione Prima del 21 dicembre 1948 convenne l’opportunità di riconoscere personalità giuridica, rilevando che “l’Associazione contava già decine di migliaia di associati nelle diverse province della Repubblica ”, e osservando tra l’altro “come fosse fondata l’aspirazione di una notevole parte dei Reduci dell’ultimo conflitto di associarsi ad una propria organizzazione, distinta da quella che traeva origine dalla Prima guerra mondiale ”, fu riconosciuta Ente Morale con Decreto del Presidente della Repubblica in data 30 maggio 1949 (G.U. 9 agosto 1949 n.181). Successivamente fu riconosciuta, con D.M. 10 settembre 1962, Ente nazionale con finalità assistenziali, con il fine principale di tutelare gli interessi materiali dei suoi associati (nei primi anni oltre 390.000 soci, 52 federazio­ni provinciali e 3.800 sezioni) e, successivamente, di mantenere viva la memoria di coloro che immolarono la vita per la salvezza della Patria e tributare loro ogni onoranza; concorrere e sostenere la tutela e la valorizzazione, nel territorio nazionale e all’estero, dei monumenti e siti della memoria e della rimembranza, organizzando in loco anche cerimonie commemorative, adoperandosi per custodirne il patrimonio morale e storico con l’impegno di trasmetterlo alle nuove generazioni.

     


    10 dicembre 1948, Atto costitutivo dell’ANRP

    Il dopoguerra, in alcuni casi anche prima come per l’ANRP, che aveva già un certo passato, formatosi nei campi e nei lager di detenzione, vide il consolidamento strutturale di organizzazioni di reduci, vere e proprie formazioni di massa con un peso politico non trascurabile, anche a causa del processo di polarizzazione politica, che hanno svolto in Italia un ruolo molto importante come polo aggregativo e identitario per i superstiti e le loro famiglie. Motivo di questa rilevanza fu il ruolo che le associazioni svolsero anche nel campo della sussidiarietà e/o della supplenza, come è stato sottolineato da più parti, rispetto alle carenze dell’Amministrazione statale nei confronti dei reduci dal fronte e dalla prigionia, sostenendo le loro richieste, mantenendo i contatti con gli uffici dei vari ministeri, nonché raccogliendo fondi e distribuendo cibo e pacchi di vestiario per i meno abbienti.

     

    Altrettanto centrale fu il prestigio che queste associazioni riscuotevano da una grande parte dell’opinione pubblica, rappresentando i custodi di una memoria comune e condivisa di eventi drammatici della vita nazionale che avevano toccato la gran parte delle famiglie italiane. A pesare era anche il numero di iscritti che, negli anni Cinquanta, superava abbondantemente il milione. Un prestigio che possiamo definire allo stesso tempo qualitativo e quantitativo, in grado di assicurare una importante funzione di carattere politico alle associazioni dalla fine della guerra e via via negli anni della Repubblica (F. Masina, La riconoscenza della nazione. I reduci italiani fra associazione e politica (1945-1970), Le Monnier, Milano 2016).

     

    La nascita e il potenziamento delle associazioni rappresentavano lo “sbocco naturale” e inevitabile di tale percorso, la sintesi di vari aspetti che concorrevano, quale discontinuità e rottura col passato, ad operare una scelta tesa a risolvere, a tutelare i reduci, difendere i loro interessi materiali e congiungerli con le grandi speranze. Era una naturale risposta al loro bisogno primario di reintegrarsi nel tessuto sociale ed economico del Paese che si stava riprendendo dalle rovine della guerra, nonostante la loro problematica fosse tenuta in poco conto  da parte delle Istituzioni.

     

    Anche l’ANRP - Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione, ed oggi anche dei loro familiari, nasce quale soggetto associativo di massa con funzione sindacale e di rappresentanza in particolare dei reduci dalla prigionia, dall’internamento (militari e civili) e dalla guerra di Liberazione (con o senza le stellette), con l’obiettivo di far sentire la loro voce.

     

    L’Anrp, una storia evolutiva

     

    L'ANRP, per ottemperare al compito di “tutela” e “assistenziale” dei reduci e dei loro familiari, è stata impegnata sin dalla sua fondazione in lunghe battaglie morali e legali, compatibilmente ai propri compiti statutari. Una funzione che si articolò sostanzialmente in due fasi. La prima aveva come obiettivo un immediato intervento di emergenza per provvedere ad alcuni servizi fondamentali: alloggi di fortuna, posti di ristoro, assistenza sanitaria, assegnazione di vestiario, ecc., la seconda aveva come scopo di procurare stabili abitazioni e lavori ai reduci.

     

    L’ANRP, a buon diritto, si può fregiare di aver vissuto, una “storia evolutiva” particolarmente incisiva e dinamica, nel corso della quale essa ha svolto un ruolo inizialmente rivendicativo, ma fondamentale, a garanzia dei diritti dei reduci e dei loro familiari, per proseguire da diversi anni a questa parte nella tutela e nella divulgazione di quella che definiamo la “memoria attiva” destinata alle giovani generazioni, a quelle future e a quanti vogliano approfondire una verità storica a lungo obliata.

     

    Raccontare settant’anni di storia, qualsiasi storia, significa ripercorrere un tratto importante di vita, rivivere momenti belli e momenti meno entusiasmanti, ricordare le persone e i fatti che, tutti assieme, hanno contribuito a “fare” la storia. E cosi anche per gli ormai settant’anni dell’ANRP.

     

    Quattordici lustri decisamente intensi, che cominciano con il rientro dei reduci che alla fine della guerra gettarono il seme, e continuano con tutti quelli che, in questi decenni, hanno contribuito a  consolidare l’azione propositiva e ad ampio spettro dell’ANRP, affinché la rievocazione degli avvenimenti del passato, spesso confinata nel ristretto ambito delle scadenze commemorative, fosse superata per diventare occasione di ap­profondimento e di rilettura, al di fuori della logica revisionistica e retorica.

     

    Se oggi guardiamo al presente e soprattutto al futuro, con questa storia alle spalle, non possiamo esimerci di rilevare che è necessario insistere sui familiari, far leva sul loro entusiasmo e sullo spirito d’iniziativa per consentire di custodire quella dimensione umana degli anni di  vita troppo spesso perduti dai reduci e, con essa, un recupero di valori e rapporti interpersonali che non potranno che portare beneficio alla nostra società

     

    Oggi, il programma di studi, le attività

     

    L’Associazione attraverso la collaborazione con le università, i ricercatori, gli associa­ti e d’intesa con istituzioni italiane e straniere porta avanti un ricco programma di studi al fine di raccogliere, organizzare e conservare documenti e testimonianze, per divulgare il materiale reperito e far conoscere, per quanto possibile e con i più vari strumenti della comunicazione, le vicende dei militari nel Secondo conflitto mondiale. Grazie al costante lavoro sulle testimonianze e sulla documentazione d’archivio, si è andato sviluppando un crescente interesse da parte di un qualificato pubblico attorno alle vicende del mondo concentrazionario. Il contributo degli stessi reduci e dei loro familiari si è concretizzato in varie iniziative tra cui centinaia fra audio e videointerviste, uno spaccato storico-sociologico variegato e complesso.

     

    Oggi “fare cultura” significa offrire dei punti di riferimento per trasmettere la memoria storica, aprendo un dialogo sull’esperienza culturale, reale e umana del nostro drammatico passato, per affrontare con maggiore consapevolezza le proble­matiche vive, certezze e incertezze di un’epoca che sempre più necessita di “testimo­nianze”.

     

    Per contribuire all’affermazione di un’Italia democratica e dei principi fissati dalla Costituzione repubblicana, l’ANRP promuove la collaborazione dei cittadini a iniziative mirate a una cultura giuridica armonizzata, in materia di applicazione dei concetti di solidarietà, sussidiarietà e cooperazione, ispirati alla fratellanza tra i popoli, nel rispetto dei diritti umani e nel ripudio di ogni forma di violenza.

    Promuove e svolge, anche d’intesa con istituzioni italiane e straniere, ricerche, iniziative culturali e editoriali; organizza convegni, mostre, seminari e corsi di aggiornamento e di alta formazione ed  è accreditata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Prot. N. 12938/12-2008) quale Ente di formazione per docenti. Si interessa di rifugiati e richiedenti asilo, di migrazioni. Temi complessi e difficili, oggi più di ieri.

     

    Nella convinzione  che la cultura, l'arte, la musica siano la base di una società civile in grado di interpretare ed accogliere le potenzialità culturali dell'altro attraverso una mediazione di crescita e di arricchimento comune, l’ANRP promuove manifestazioni, mostre d’arte, concerti, spettacoli di massa ecc. Con tali iniziative intende favorire un’apertura più strutturata e maggiormente programmata verso la società dei giovani, italiani e stranieri, dando loro modo di esprimersi all'interno di un contesto democratico che rispetta le diversità. È - anche questo - un modo di concepire la funzione di un'Associazione che si richiama al passato, ma intende collegarsi al presente ed ai bisogni della società  di oggi.

     

    Sono tutte occasioni di condivisione e confronto tra esperienze, testimonianze e prospettive per sensibilizzare Istituzioni, opinione pubblica e giovani, sui temi chiave relativi al mondo della  storia e della memoria.

     

    Una ricca biblioteca e molte altre attività

     

    L’Associazione presso la propria sede nazionale dispone di una ricca biblioteca specializzata, con oltre 10.000 volumi, riconosciuta dall’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche - ICCU Codice ISIL: IT-RM1882, Codice SBN: IEIRP, nonché di un ampio archivio fotografico, di una videoteca con testimonianze e filmati storici di varia provenienza.

     

    L’Associazione è impegnata in particolare nella realizzazione dei progetti:

    - Corso di Alta Formazione “Dal peacekeeping al peacebuilding: dalla memoria del conflitto alla costruzione della pace”. Il Corso, promosso e realizzato in collaborazione con la Sapienza Università di Roma e Università per Stranieri di Perugia, si rivolge a giovani in possesso di laurea (triennale, magistrale o vecchio ordinamento), a studenti iscritti alle lauree magistrali in tutte le discipline, con un percorso formativo a carattere multidisciplinare, è articolato in 120 ore e suddiviso in moduli tematici, di cui  4 a carattere generale e 2 dedicati ad aspetti specifici; una serie di esercitazioni e workshop completa il percorso formativo.

    - Targa di benemerenza ICARO. Riconoscimento interforze istituito dall'ANRP in data 24 ottobre 1975 e patrocinato dallo Stato Maggiore Difesa, in seguito ad approvazione del Ministero, per il personale militare appartenenti delle altre Forze Armate. Un pubblico, tangibile segno di riconoscimento conferito a quel militare di qualsiasi Arma, grado e ruolo, che si sia distinto per eccezionali capacità professionali o per spirito di sacrificio o elevatissimo senso del dovere o ammirevole sentimento di solidarietà umana, dimostrati durante l'espletamento del servizio e che abbia contribuito all'affermazione dell'onore e del prestigio delle Forze Armate.

    - Defilamento del Tricolore del Guinness.  La bandiera con i colori verde, bianco, rosso del Tricolore italiano (lunga 1.797 mt., larga 4,80 mt. e con una superficie di 8.625 mq, ideata e realizzata dall’ANRP nel 1999), ha sfilato per la prima volta il 7 gennaio 1999 a Roma, in occasione delle celebrazioni del bicentenario della prima Bandiera nazionale, e l’ultima il 7 gennaio 2017 a Reggio Emilia, con l’intervento del Presidente della Repubblica. Si prefigge lo scopo di fare della Bandiera italiana del Guinness un mezzo di dialogo con i connazionali in Italia e all’estero e di rilanciare, con un linguaggio nuovo, i valori e la cultura originali di cui la nostra nazione è portatrice nel mondo. La Manifestazione vede la partecipazione di tutta la popolazione indistintamente, a significare coesione, solidarietà e a manifestare il desiderio di pace del popolo italiano attorno al Tricolore, celebrando la Patria e rendendo onore ai Caduti.

    - LeBI-Les­sico biografico degli IMI. Un database on-line in cui sono inseriti in ordine sistema­tico elementi anagrafici e biografici del maggior numero possibile degli oltre 600mila internati rientrati più i 50mila inclusi nell’Albo dei Caduti nei lager del Terzo Reich tra il 1943 e il 1945.

    - Museo “Vite di IMI. Percorsi di vita dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945”,  costituisce un potente fattore di attrazione e di promozione della memoria storica e dell’identità nazionale, ha un’importante funzione strategica per la formazione dei giovani, nei valori ispiratori di ieri, di oggi e di domani delle nostre Forze Armate.

     

    L’ANRP partecipa quale membro effettivo all’attività svolta:

    - dal Comitato costituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri per la concessione della Medaglia d’Onore ai cittadini italiani, militari e civili, deportati e internati  in Germania (Legge 296/2006);

    - dalla Commissione per le provvidenze agli ex deportati nei campi di sterminio nazisti legge (Legge 791/1980);

    - dalla Confederazione Italiana tra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane;

    - dalla Confedération Internationale des Anciens Prisonniers de Guerre - ONG, al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite ed al Consiglio d’Europa - Statuto B;

    - d’intesa con qualificati partner nazionali e di otto paesi dell’area Mediterranea - Balcanica - Mar Nero, ha costituito nel 2011 il Centro Internazionale per il Dialogo Interculturale e Sociale (CIDIS), nell’ambito del quale un Comitato scientifico funge da Osservatorio permanente per individuare soluzioni propositive all’interno di un concetto allargato di solidarietà in linea con gli obiettivi della Corporate Social Responsability.

     

    L’Associazione ha un proprio sito web www.anrp.it, pubblica dal 1979 il mensile liberi e da 4 anni il periodico trimestrale Le porte della memoria. Negli anni ha pubblicato un centinaio di titoli. Sul sito www.imiedeportati.eu ha reso disponibili le ricerche sugli IMI realizzate nell’ambito  del programma dell’Unione Europea “Europa per i cittadini”.

     

    Tutto ciò deve far pensare, perché ormai appartiene alla storia e “la storia - scrive il Droysen - ci dà la coscienza di ciò che siamo ed abbiamo”(J.G. Droysen, Istorica, Napoli, Guida, 2003).

     

    Il sacrificio dei POW e degli IMI sarà forse compreso appieno solo quando la “storia” avrà portato a conoscenza di tutti gli ignari di ieri e di oggi il suo sereno giudizio.



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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