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  • Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
    Cecilia Edelstein (a cura di)

    M@gm@ vol.15 n.2 Maggio-Agosto 2017





    LA SCRITTURA TERAPEUTICA: CURA E CONOSCENZA DI SÉ

    Sonia Scarpante

    sonia.scarpante@fastwebnet.it
    È nata a Milano nel 1958. Laureata in Architettura nel 1984, dopo una malattia oncologica, nel 2003 ha pubblicato il suo primo libro «Lettere ad un interlocutore reale. Il mio senso», a cui hanno fatto seguito dodici libri. Presidente dell’Associazione “La cura di sé”, collabora con riviste di tipo sociologico e partecipa a convegni nazionali sul tema della cura e della Scrittura Terapeutica come Cura di sé, oltre ad occuparsi di formazione come Counselor Trainer presso enti culturali diversi e in strutture sanitarie come formatrice per operatori. Pubblica nel 2015 il suo ultimo testo «Parole evolute. Esperienze e Tecniche di Scrittura Terapeutica» EdiScience. Questo testo scientifico fa riferimento alla sua metodologia applicata ai gruppi di lavoro.


    Carte 2012 / 14 (n°14) - Nicoletta Freti

    Perché vi parlo di Scrittura Terapeutica? Quali motivazioni mi spingono a farlo?

     

    La mia vita nuova nasce nel 1998. Avevo quarant’anni. Fino ad allora la mia vita era scandita da tempi normali suddivisi fra il lavoro come Architetto, quelli della cura famigliare e del poco volontariato come scelta che mi è sempre appartenuta. Ma forse tutto inizia a cambiare nel 1997, solo sei mesi prima.

     

    La tipica crisi matrimoniale mi ha messa a dura prova e non ho avuto le forze necessarie per contrastarla. Le mie difese sono divenute sterili e ho introiettato eccessivo dolore per poter uscire indenne da una situazione che psicologicamente non mi dava tregua. Sono stati sufficienti solo sei mesi di pura agonia dal punto di vista emotivo per raccogliere una diagnosi infausta: tumore al seno.

     

    Da quando mi è stata comunicata la diagnosi ho percepito una distonia: qualcosa era venuto a mancare in me, probabilmente non ero stata vera, autentica, soprattutto verso le relazioni affettive.

     

    La malattia poneva nuovi interrogativi. Infatti, pochi giorni dopo l’intervento di mastectomia subìto allo IEO (Istituto Europeo Oncologico) in quell’agosto del 1998, in seconda giornata a casa, con ancora i drenaggi attaccati al mio corpo, ho sentito l’urgente bisogno di scrivere. Ho iniziato con una lettera dedicata a un medico. A lui non ero riuscita a esternare le mie paure, le angosce legate alla patologia. Con lui si era interrotto un confronto paritario.

     

    Da quel primo scritto ho percepito un senso di leggerezza, di svuotamento. Un senso di compensazione. In quel frangente mi sono posta una nuova domanda: “Perché non provo a praticare lo stesso percorso con le persone che hanno accompagnato la mia esistenza?” Da sola, in analisi, dove il rapporto riguardava me e quella penna mal sincronizzata sul tempo della mente ma assai più veloce nel suo impeto, sono riuscita a toccare le corde della mia interiorità, tracciando un percorso introspettivo, faticoso e duro, ma di grande potere rigenerativo per la mente e per la mia persona. È nata così, attraverso alcune lettere in cui ho voluto esprimermi liberamente, la mia autobiografia dal titolo «Lettere ad un interlocutore reale. Il mio senso». Parlo di senso perché da quel primo viaggio introspettivo, recupero un nuovo senso di me, della mia persona. Con i primi approcci allo scrivere ho tastato un terreno di nuova fertilità, conscia che dovevo ricostruire non solo quella parte del corpo che mi si manifestava malata, ma che avrei dovuto anche calarmi maggiormente nelle tele dell’intimo, per comprendere, per capire e per affrontare i vecchi dolori che avevo voluto nascondermi.

     

    Scrivendo quelle lettere, indirizzate a persone reali, sono stata molto male, ho incontrato il dolore forte dell’abbandono, del tradimento, il senso di colpa. Con quella scrittura ho imparato molto di me stessa e iniziavo a parlare, già da allora, di scrittura come solvenza. Perché tramite quel segno ininterrotto imparavo a riconciliarmi con la vita, sciogliendo nodi, frustrazioni, imparando a entrare nelle affettività malate. La scrittura ancor più mi ha insegnato a superare un vecchio senso di colpa nutrito verso la nonna paterna che, in seguito a una depressione non elaborata, ha chiuso la sua vita tragicamente. Con lei si era interrotto un confronto dialettico poco tempo prima della sua dipartita. Da qui iniziava a maturare il senso della scrittura come svelamento e ricostruzione.

     

    La scrittura tesseva dunque le sue trame e io aderivo sempre più a essa lasciandomi condurre verso lidi inimmaginabili all’epoca. In uno di questi territori di approdo abita una fatica in cui mi sono cimentata, sollecitata dalla stessa biblioteca dello IEO, per produrre uno scritto che abbracciasse il periodo della malattia e la cui lettura potesse essere di aiuto e di sprono per le persone che venivano a incontrarmi in ospedale. Non potevo che dare un titolo a quella testimonianza per come percepivo ciò che quello scritto avrebbe dovuto essere: «Mi sto aiutando» (Prefazione di Umberto Veronesi), perché il lavoro su di me procedeva e mi sentivo di scalare successivi gradini, aiutandomi in tutti i modi ad emergere nella mia unicità. In quel piccolo libro già annunciavo ciò che avevo avvertito da subito. In quel cammino, lungo, faticoso e duro, si sarebbe delineata una persona più consapevole e vera. Sarei stata “allieva” del cancro.

     

    In quel tempo ho iniziato anche a riprendere vecchi scritti e poesie che avevo abbandonato, quasi vergognandomene. Poesie antiche che con gelosia e pudore tenevo nascoste perché mancava ancora all’orizzonte quel senso nuovo e anche ludico che stavo per lasciare emergere. Sono così riuscita a realizzare due collane di poesie, di cui la prima, «Tracce», ripescava fra le orme della memoria, per preparare il terreno presente, mentre la seconda, «Le dimensioni perdute», alludeva all’interiorità che negli anni delle fatiche e dei dolori avevo oscurato senza accorgermene. Questa ultima collana di poesie venne preceduta da una prefazione del caro amico gesuita Bartolomeo Sorge, che mi conobbe proprio dal mio primo lavoro terapeutico autobiografico, divenendo da quella stesura il padre spirituale con cui condividere scritture e interiorità. La nostra amicizia cresce tuttora attraverso le scritture che parlano di anima, di etica, di poesia.

     

    Sempre in quel periodo venni a contatto diretto con una cara amica conosciuta in tenera età. Mi aveva riconosciuta attraverso le mie pagine e volle cimentarsi in una scrittura condivisa per imparare a riconciliarsi con figure affettive fragili. È nato così, da quell’esperienza catartica e comune, un piccolo testo nuovo: «Un fiore nella mia anima» (Prefazione del medico oncologo che la seguiva sulla via della guarigione).

     

    Nel 2010 ho partorito un nuovo libro, un saggio con la casa editrice San Paolo. Un testo nato da un sogno. Un’intuizione fortunata ha allargato i miei sensi e il tempo mi ha aiutata a indirizzare questo sogno verso una meta precisa. Proprio quei sogni, quelle intuizioni sono divenute la mia forza, la mia naturale consistenza. «Non avere paura. Conoscersi per Curarsi» esplorava il mondo della conoscenza interiore. In questo testo si accenna ai mezzi terapeutici che possono essere di aiuto in un percorso di cura, che fanno riferimento a discipline olistiche e a tecniche orientali come lo yoga. I mezzi terapeutici e legati alla creatività sono molteplici e aiutano in questo lavoro interiore. Si parla quindi di scrittura, sostegno di gruppo, teatro, forza della musica, della danza, della pittura e della poesia; la fede intimistica o praticata.

     

    Si parla di testi letti come percorsi di formazione per ampliare le proprie conoscenze e a tale proposito ne vengono elencati solo alcuni come “La mente e il cancro” scritto dall’oncologo Mariano Bizzarri, dove si descrive il forte legame fra malattia e psicologia della persona. L’oncologo ci introduce anche alle visualizzazioni, esercizi individuati nelle loro rappresentazioni mentali che vengono citati e confermati in diverse testimonianze: donne e uomini ne fanno uso per catalizzare le energie a favore di una “battaglia sensoriale” ancora poco riconosciuta e convalidata in Occidente, mentre le tecniche orientali ci insegnano già da tempo a misurarci con metodologie di nuova applicazione, che possono aiutare il nostro sistema bio-psichico al fine di un’attivazione benefica verso l’auto-cura. Visualizzazioni che vengono riprese anche nel testo «Guarigioni Straordinarie», scritto da C. Hirshberg e M.I Barash (1995). In questo testo vengono citati i cosiddetti “miracolati”, testimoni con stadio anche avanzato della malattia, per i quali c’è stata un’inversione di rotta. Testimoni citati nella prestigiosa e autorevole rivista americana «The Lancet». Ho letto più volte quel testo per capire se esistesse un legame fra quei testimoni, un filo rosso. Il filo rosso esiste, la parola che li rende affini è: cambiamento.

     

    Molti studiosi ritengono quindi che la richiesta di un cambiamento sia fra le prime domande legate alla malattia. Essi ritengono che musica, danza, pittura (tutto ciò che appartiene alla dimensione creativa dell’uomo) offrano un mezzo per superare “la staticità” del pensiero razionale e accedere a parti più profonde del cervello; si parla di sistema limbico, possibile chiave della risposta risanatrice psicosomatica.

     

    Altri testi vengono annoverati in quel saggio come testimonianze importanti scritte dal giornalista Tiziano Terzani: «Un altro giro di giostra» e «La fine è il mio inizio», testi che rappresentano una sorta di testamento. Egli vive gli ultimi periodi della sua vita ritirandosi in meditazione e nella solitudine di luoghi montani, alla ricerca di sé stesso. Come non leggere, attraverso le sue parole, il bisogno di fermare il tempo sull’interiorità, su quella natura onnicomprensiva? Il suo è un richiamo molto forte soprattutto in una società come questa, materialista e colpevole, dove viene a mancare il pane quotidiano: la ricchezza interiore. Egli ci parla di coerenza, del bisogno di autenticità, collocando, in un certo senso, l’insorgere della sua malattia in un periodo particolare della sua vita, forse nata in Giappone dieci anni prima, perché la sua professione era stata, in quegli anni, parte preminente; un ruolo enfatizzato e portato agli estremi dimenticandosi, in questa attività vissuta spasmodicamente, della sua essenza, del suo essere uomo, dei suoi desideri. Terzani, preparandosi a chiudere il cerchio della sua vita, in quella sua solitudine propositiva riveste il silenzio di virtù catartiche, come energia risanatrice, condizione imprescindibile per sviluppare un pensiero trascendentale fortificante, vero antidoto interiore contro il progredire del tumore di cui è stato vittima.

     

    Che dire poi delle griots [1]? Le narratrici di vita. Anche questa forte testimonianza di vita viene riportata nel mio saggio: “Non avere paura. Conoscersi per Curarsi”. Avevo conosciuto questo gruppo di donne durante un seminario sulla scrittura nel 2006 e il titolo del progetto era emblematico: «Storie che curano»; era promosso dallo IEO, con lo scopo di offrire ai malati oncologici uno spazio di ascolto e di cura, dove narrare e scrivere di sé e della propria storia di malattia, intesa e vissuta come una “rottura biografica” che impone cambiamenti nell’organizzazione concreta della vita e mette in causa il senso dell’esistenza degli individui, il loro benessere, la qualità della loro vita.

     

    Il corso di scrittura ha dato alle donne che vi hanno preso parte, la possibilità di raccontare e narrare di sé: storie di vita, di scelte, di modificazioni, di amori, storie improvvisamente interrotte dall’irruzione della malattia, il cancro, che scatena dolore, rabbia, disperazione, pianto e obbliga ciascuna a ridisegnare equilibri, percezioni, identità, alla ricerca di un nuovo senso di sé dentro una nuova condizione di vita. E proprio attraverso la parola detta e scritta, sussurrata e condivisa, il gruppo ha intrapreso il viaggio nel ricordo dell’esperienza della malattia per attraversarla, oltrepassarla e aprirsi a nuove percezioni di sé e nuove possibilità. In quel gruppo di donne partecipava anche una donna che, per interessi personali e per lavoro, calcava palchi di teatri. Un caso? Esiste il caso?

     

    Ed è così che è cominciato un altro viaggio in cui i testi scritti sono stati trasformati in un testo teatrale, il cui titolo era «E ancora danzo la vita». Da quelle prime prove estenuanti alla realizzazione definitiva il passo è stato breve, anche se duro per la messa in scena e per la funzione catartica del teatro. Abbiamo realizzato per due anni trentuno rappresentazioni teatrali, calcando anche palchi importanti come l’auditorium di San Fedele, la cui sala era stracolma di persone interessate e dove si stentava a trovare anche un posto sugli scalini laterali. Un grande evento, un momento importante e propiziatorio a Budapest, dove aprimmo il primo Convegno Mondiale di Educazione Terapeutica di fronte ad una platea mista fra medici e psicologi.

     

    Il vero senso e scopo di questo saggio stava nel raccogliere un precipitato di tutto il valore che do alla conoscenza, partendo dalla mia stessa vita, dai maestri che mi hanno accolto su questa strada e che mi stanno insegnando ancora molto; una raccolta delle mille testimonianze che ho spulciato attraverso testi diversi e durante gli incontri con le associazioni, con una paziente, ma soprattutto con un’associazione: “Attive come prima”.

     

    Due esperienze sono state fondamentali in questo tragitto della conoscenza: l’attività di volontariato all’interno dello IEO nel reparto di Oncologia e il percorso terapeutico di approfondimento psichico presso “Attive come prima”. Questa Associazione si occupa di accompagnare le pazienti che hanno vissuto o che vivono il cancro, supportandole in un percorso finalizzato alla cura, contemporaneamente del corpo e dell’anima. Un terapeuta si prende cura di quelle donne per aiutarle a vedere nella malattia un nuovo volto, per aiutarle a passare attraverso la sofferenza guardando negli occhi quella paura che sembra a volte sovrastare la persona togliendo qualsiasi energia. Sono percorsi con incontri settimanali che si sviluppano per circa un anno e mezzo i cui ultimi temi trattati sono a me molto cari e ricorrenti nei miei testi e riguardano la terapia degli affetti.

     

    Maura, che ho conosciuto lì ad “Attive” e dalla quale è nato un nuovo libro, e che purtroppo è scomparsa, ci ha lasciato una testimonianza che reputo autorevole per significato e completezza; proprio accompagnandomi al suo percorso, ho intravisto nuove strade di comprensione della malattia oncologica fra le pieghe della psiche: la malattia, come iniziano ad asserire anche medici e oncologi, è legata enormemente alla psicologia della persona. Emerge sempre di più ciò che all’inizio era solo un’ipotesi ma che, col tempo, attraverso studi anche scientifici e dati statistici incontrovertibili, si sta rivelando una straordinaria opportunità di conoscenza.

     

    Testimonianze come quella di Maura ci raccontano quasi di un’insolvenza di parte dell’interiorità, dell’accumulo eccessivo di sentimenti negativi come la collera, la rabbia, il senso di colpa, l’odio; ancora: di affettività che hanno ingabbiato i sentimenti, non lasciando libera la persona di esprimere la sua unicità; potrei aggiungere: il male, anche fisico, spesso è originato da grossi traumi subiti e mai liberati dal peso massiccio della loro “consistenza”, da lutti o tradimenti non metabolizzati, da ingiustizie umane mai superate nel corso degli anni.

     

    I grandi dolori possono causare perdite contingenti e il corpo sa percepire l’affaticamento continuo di un grosso stress interiore; la sofferenza rende più vulnerabili e più facilmente siamo attaccabili nei nostri tessuti ed energie venute meno. Parlo per esperienza diretta e per piena convinzione, ma anche dando voce a tutte quelle donne che non sanno farsi sentire e da cui però possiamo trarre una irrinunciabile coerenza.

     

    La storia di Maura è, in questo senso, un caso di perfetta compliance, cioè di meticolosa collaborazione tra il comportamento del paziente e le prescrizioni mediche: la piena e partecipata adesione con cui ha abbracciato sia le cure mediche, sia quelle rivolte alla conoscenza di sé deve essere d’insegnamento per tutti noi. Il suo percorso rappresenta una testimonianza, non solo umanamente condivisibile – perché molti di noi hanno attraversato o stanno attraversando le sue stesse vie di sofferenza – ma da imitare per la volontà, la determinazione e l’impegno, per la voglia di riscatto che in essa trasudano. A Maura sono bastati solo sei mesi per riprendersi in mano la propria storia: il suo passato e il suo presente. Buttandosi a capofitto nella complessità delle sue relazioni cruciali, si è soffermata in particolar modo sui sentimenti negati, su ciò che allora aveva liquidato come scarsamente importante, a cominciare dai sussulti del cuore. Animata dal desiderio di riscoprire le sue radici, ha ripreso contatto con i suoi cari: la madre, la zia – che non era riuscita più a guardare a causa di un antico e persistente senso di colpa – il marito e il figlio. Comunicando loro un dolore a lungo negato, è riuscita a liberarsi, gradualmente e con pacatezza, di tutti quei pesi che le stavano sullo stomaco, che le impedivano di allargare completamente la cassa toracica, che le gravavano sulle spalle come un macigno. Ma se n’è potuta disfare proprio perché ha iniziato a considerarli non tutti suoi, non unici, non inviolabili: la spinta a liberarsene le ha fatto scoprire che si trattava di un vecchio dolore condiviso, in attesa di un primo, coraggioso e consapevole gesto comunicativo.

     

    Attraverso Maura, negli ultimi suoi tre anni di vita, ho imparato molte cose. Credo che la sua esperienza mi abbia trasformata positivamente, permettendomi di essere ancor più resiliente. La resilienza, termine che indica nella psicologia la capacità dell’uomo di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzati o addirittura trasformati, rappresenta un’ottima strategia per far fronte alle difficoltà della vita, una possibilità per entrare con coraggio nelle nostre paure e farle diventare un atto di forza e di sostegno per prove ben più impegnative.

     

    Conta molto il nostro porsi di fronte alle situazioni con atteggiamento positivo per creare una mobilitazione interiore in grado di dettare comportamenti e decisioni. Saper chiedere aiuto significa, in questo contesto, dirigersi verso questa positività, andare con coraggio incontro alle emozioni, saperne fare un sostegno per crescere.

     

    La concezione della scrittura come terapia coadiuvante, da prescrivere accanto a quella farmacologica per il valido aiuto psicologico che fornisce al paziente, sta entrando, con crescente fervore, negli ambienti dove si affrontano le patologie, nei reparti sanitari dove, per la cura dell’infermità, l’importanza dell’equilibrio interiore del malato è ormai fuori discussione. La medicina narrativa, la parola scritta come farmaco utile, la scrittura come cura, cominciano a trovare sempre più ampia diffusione e sempre di più stanno a indicare una disciplina strutturata, materia di confronto e di incontro tra sapere e competenze convergenti sul soggetto uomo, e non sull’oggetto malato.

     

    Ho iniziato a occuparmi di corsi di Scrittura Terapeutica tramite le associazioni, la Fondazione Giancarlo Quarta di Milano (due anni con gruppi con e senza patologia), enti culturali. Poi è partito un primo progetto pilota con lo IOV (Istituto Oncologico Veneto) di Padova nel 2012, con un gruppo misto di pazienti e medici, che si è allargato in altri ospedali. Dal 2016 conduco corsi di Scrittura Terapeutica come formazione continua per operatori sanitari (con crediti ECM), un progetto che continua anche come approfondimento. Questo progetto si avvale anche di questionari per la veridicità scientifica tramite Centro Nazionale Ricerca.

     

    Il percorso di Scrittura Terapeutica parte dalla lettura della «Lettera a me stessa» (Marco Aurelio: «Colloqui con sé stesso», 179 d.C.; Arthur Schopenhauer: «L’arte di conoscere sé stessi») facente parte della mia autobiografia iniziale. La mia autobiografia diviene il primo strumento per entrare in contatto con il gruppo e organizzare subito dopo il lavoro sull’interiorità. Mettendo a nudo una parte di me, attraverso riflessioni scritte personali e spesso sofferte, induco a produrre una narrazione simile, a scavare nella propria interiorità, al fine di giungere a un tema condiviso, per quanto soggettivamente elaborato. Il risultato è quasi sempre la produzione di scritti caratterizzati da un forte potere rigenerativo.

     

    Lo sforzo mio iniziale, quello d’apertura, diviene, così, in tutti gli incontri di gruppo, primo gradino vivo verso una più consapevole ridefinizione e riformulazione di una o più tappe cruciali della nostra esistenza. Constatiamo, durante questo percorso comune, che stando insieme è più facile elaborare disagi e traumi vissuti ma non espressi compiutamente. Impariamo a costruirci una diversa immagine interiore di noi, in modo meno frettoloso e più autentico, individuando e tirando fuori ciò che del nostro passato cerca un conforto nell’ascolto reciproco di oggi. Impariamo a rivivere e a staccarci da esso gradatamente, accettando le nostre incongruenze di ieri e i limiti di chi abbiamo avuto accanto.

     

    La Scrittura Terapeutica, insegnandoci ad entrare nella sofferenza, anche in quella immagazzinata dal nostro corpo a nostra insaputa, è per ognuno fonte di arricchimento poiché stimola e accresce le possibilità di miglioramento racchiuse in ciascuno di noi. Da questa prospettiva, quindi, il mio testo «Parole evolute. Esperienze e Tecniche di Scrittura Terapeutica» (EdiScience) rappresenta un prezioso vademecum per il lavoro di gruppo. Un testo che riporta la mia metodologia utilizzata nei miei corsi attraverso vari temi che ho vissuto in prima persona. 

     

    Credo sia essenziale riportare alcune note che riguardano Jerome Bruner, psicologo-pedagogista statunitense, da molti ritenuto il padre della Psicologia cognitiva, una corrente rivoluzionaria nel campo degli studi di psicologia dell’educazione. Nell’ambito della sua “rivoluzione cognitivista”, Bruner («In search of mind: essay in authobiography», 1983) giunge a sostenere che la narrazione coincide con la vita stessa. Ognuno di noi, egli sostiene, potrebbe concepire la propria vita come un romanzo e scriverlo, al fine di ridefinire la propria identità e di vivere la scrittura a scopo terapeutico. Questo nuovo sé narrante viene identificato da Bruner in un periodo storico che va dagli anni Settanta all’inizio degli anni Ottanta. È proprio in questa decade che la narrazione inizia ad avere una sua collocazione scientifica e diviene soggetto di un cambiamento rivoluzionario in ambito terapeutico, proprio tra chi svolge l’azione di curante e chi invece riceve la cura. Si instaura tra questi due soggetti un patto di complicità che consente allo stesso analista di svolgere il doppio ruolo di protagonista della propria storia e coautore della narrazione.

     

    Tra le tesi sostenute da Bruner vi è stata anche quella che spiega e ribadisce quanto sia producente per il mondo della scienza fare riferimento al sapere filosofico, affinché dalla globalità delle nostre conoscenze giunga sempre lo sprone per approfondire le ricerche e allargare gli orizzonti della Cultura.

     

    La Scrittura Terapeutica come Cura e Conoscenza di sé mi ha portato ad incamminarmi su terreni nuovi che hanno visto la realizzazione di testi di genere diverso e anche la creazione di una Associazione che è nata cinque anni fa per il tragitto intrapreso fino lì e per il concetto ampio di Cura. Foucault ci introduce in quel mondo di Cura; infatti, il tema della conoscenza è centrale nel pensiero del filosofo. E a lui ci siamo ispirati con la creazione della nuova Associazione “La cura di sé”, che è una continuazione di quel progetto originario delle griots.

     

    È prioritario, in questo senso ampio di Cura, rivolgere un appello ai medici che verranno, ai giovani specialisti di domani, affinché pretendano un insegnamento scientifico-umanistico improntato sì sulla cura ma della persona, che contempli l’organo malato non come segmento a sé stante ma come parte del tutto. È fondamentale restituire al medico la centralità della sua figura e del suo ruolo, sia per sottrarlo alla logica della schiavitù meccanico-farmacologica imperante - per la quale ogni colloquio medico-paziente deve concludersi necessariamente con la prescrizione e il ricorso a qualche indagine tramite apparecchiature - sia per consentirgli di esprimere al meglio la propria sensibilità umana e professionale, così importante per la motivazione della persona malata. Senza una diversa concezione pedagogica e culturale del concetto di cura, difficilmente sarà possibile, e per il medico e per il paziente, ritrovare la fiducia e il senso di responsabilità su cui qualsiasi indicazione terapeutica si fonda. La formazione medica, quindi, deve aprirsi ad una concezione della cura più ampia, avanzata, contestualizzata in modo tale da tener conto della persona come soggetto, come portatore sano di istanze psicologiche basilari da ascoltare, da considerare, da stimolare, anche utilizzando il farmaco del racconto, della narrazione personale, dell’autobiografia scritta. La mancanza di un rapporto intuitivo, naturale, empatico tra operatore sanitario - dalla segretaria di studio fino al chirurgo - e paziente non facilita affatto l’evoluzione positiva della malattia, anzi, rischia seriamente di mettere in crisi la delicata triade medico-paziente-cura.

     

    La Medicina, come scienza rivolta alla cura degli esseri umani, dovrà sempre di più, a partire dall’oggi, inglobare nella sua prassi il corpus dei valori, dei pensieri e delle attività umane atte a garantire ad ogni persona-paziente un corretto equilibrio psico-fisico, una stabilità interiore, di cui l’insorgere della malattia è primo campanello d’allarme. Rivolgersi al prossimo in modo aperto e positivo - e questo vale per tutte le figure professionali che operano per il benessere sociale - significa credere fermamente nel potere della parola, intesa come strumento imprescindibile per dare o ridare fiducia; vuol dire tornare a guardarsi negli occhi per stimolare nell’altro una o più risposte positive. Le terapie fisiche indicate dagli specialisti, onde evitare la cattiva interpretazione dell’intera anamnesi, non possono non tener conto della condizione interiore del soggetto, della sua storia più intima, del suo carico di emozioni e di conflitti. E per meglio comprendere la storia e la sofferenza dell’altro è necessario partire dal suo percorso auto-critico, dalla nostra interiorità di operatori, assistenti, medici e altro. Difficile capire gli altri senza aver prima portato a termine un proprio percorso di analisi e di comprensione, di chiarimento e di scavo psicologico su e di sé: calarsi nell’altro implica la conoscenza delle proprie fragilità, l’elaborazione e il superamento dei propri conflitti. Prendersi cura è anche questo: aiutarsi a capire, cercando di approfondire senza rivalità, compromessi e umiliazioni. Dobbiamo arricchirci, aprendoci senza restrizioni o finzioni. In questo percorso non possiamo fare riferimento solo alla preparazione scientifica del giovane medico, ma anche alla sua formazione, perché colui che insegna, docente o curatore che sia, deve avere in sé la tensione verso l’aspetto educativo-formativo del sapere, perché senza un’adeguata formazione e comunicazione emotiva, la formazione professionale del medico sarà incompleta. La Scrittura Terapeutica offre proprio questo: più della stessa parola orale, permette di entrare nella sensibilità emotiva dell’altro, per farla divenire punto di forza e di competenza professionale. Conoscere la biografia dell’altro significa, quindi, entrare nella sua vita, prendersene cura, farsene carico, divenire per esso un punto di sostegno. Per questo, la scrittura, da atto privato del singolo, diviene nel lavoro di gruppo ricerca etica, analisi dei valori essenziali che caratterizzano la nostra soggettività.

     

    Tre eventi importanti attuali realizzati all’interno di Book City mi hanno vista protagonista all’interno di tre sedi significative: l’Istituto dei Tumori, il Carcere di Opera, l’Hospice Cascina Brandezzata. Sono stata accompagnata da relatori sensibili a queste tematiche trattate e per la maggior parte medici. Gli incontri vertevano sulla Scrittura Terapeutica intesa come viaggio interiore, tale da offrire la possibilità di ascoltarsi e conoscersi meglio. Sono emerse riflessioni comuni che convergono sulla necessità di istituire, nelle sedi che si occupano di Cura ed Educazione, percorsi volti alla Conoscenza di sé, tramite l’ausilio della scrittura.

     

    È emerso ripetutamente che la scrittura può divenire aiuto fondamentale sia per chi è alla ricerca di un migliore equilibrio interiore, sia per acquisire una maggior consapevolezza verso le cose del mondo.

     

    Qui sotto i link di riferimento:

    www.lacuradise.it

    www.soniascarpante.it


    Note

    [1] Nella cultura di alcuni popoli dell’Africa Occidentale, il griot (termine francese) è un poeta e cantore che svolge il ruolo di conservare la tradizione orale degli avi e, in alcuni contesti storici pre-coloniali, aveva anche il ruolo di interprete e ambasciatore.



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