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  • Psicoanalisi e laicità
    Ivan Ottolini (a cura di)

    M@gm@ vol.13 n.3 Settembre-Dicembre 2015





    LA LEGGE: ANCORA?

    Anna Barracco

    anna.barracco@fastwebnet.it
    Corso di laurea in scienze politiche con indirizzo Politico - Sociale, Università degli Studi di Milano. Corso di specializzazione triennale in Psicologia, indirizzo Sociale, Università degli Studi di Milano. Corso di specializzazione quadriennale in Psicoterapia presso l’Istituto Freudiano per la Clinica, la Terapia e la Scienza, Roma. Formazione in tecniche di conduzione dei gruppi con psicodramma e metodologia attiva, presso Centro Studi di Psicodramma e Tecniche Attive, Milano. Membro della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi. Membro del Consiglio Direttivo del Mopi (Movimento Psicologi Indipendenti).

    La psicoanalisi è una disciplina, un corpus complesso e in continua evoluzione di teorie, di teorie della tecnica, per alcuni è anche un modo di guardare alla cultura, alla storia, all'arte, al consorzio umano, ed è anche, ma non solo, un metodo di cura.

    In questo senso, dunque, nel suo versante di disciplina applicata al disagio, ha certamente a che fare con una necessità di regolamentazione sociale e dunque legale.

    Credo che gli psicoanalisti italiani, in passato, e in particolare in occasione del varo della legge 56/89 (Legge di regolamentazione della professione di psicologo), della sua promulgazione e della sua applicazione, abbiano confuso diversi piani.

    La legge 56/89, fra l'altro, almeno rispetto a quelle che erano chiaramente le intenzioni del legislatore (documentate da moltissimi passaggi parlamentari e lavori preparatori) non intendeva regolamentare la psicoanalisi, che si considerava fondamentalmente cosa diversa dalla psicoterapia, più complessa, con una tecnica e una modalità di addestramento peculiari.

    Un costruttivo e produttivo dibattito sulla regolamentazione della psicoanalisi come pratica professionale, è stato paradossalmente bloccato dalla stessa rovente polemica che si è poi sviluppata intorno alla legge 56/89, al discorso sulla psicoterapia e sugli istituti di formazione, che man mano avevano cominciato a moltiplicarsi e si era chiaramente prospettato il "business".

    Molti giovani psicologi si iscrivevano agli istituti, sedotti dall'illusione di un investimento legale che li lanciasse nel Servizio Sanitario Nazionale, o nella professione privata, con prestigio e riconoscimento. Così, man mano che gli Istituti di formazione alla psicoterapia prendevano piede, il mondo della psicoanalisi, inizialmente critico nel suo insieme rispetto alla regolamentazione statale tout court o anche critici nei confronti di alcuni aspetti della legge di regolamentazione della psicoterapia, cominciarono ad arrendersi, e a far riconoscere gli Istituti di formazione psicoanalitica come scuole in grado di dare diplomi di "psicoterapia psicoanalitica", con ciò di fatto provocando la sovrapposizione di psicoanalisi e psicoterapia, e preparando il terreno per tutte le successive sentenze che alla fine fanno coincidere i due concetti, almeno sul piano pratico, giuridico, ma anche fattuale.

    La psicoanalisi, oggi, è inclusa all'interno del contenitore - più vasto - delle varie psicoterapie, seppure è considerata la più antica, la "regina delle psicoterapie". Con ciò si è davvero soffocato sul nascere un vero dibattito che si ponesse il problema nel modo corretto, e cioè: quale legge di regolamentazione è più adatta a garantire alla psicoanalisi la sua peculiarità, che significa, in che modo garantire al meglio la formazione dello psicoanalista? E nello stesso tempo, è possibile rispondere alla sacrosanta esigenza dello Stato di stabilire degli standard minimi, dei presupposti, delle regole fiscali e legali insomma, a tutela del cittadino e della fede pubblica, e nello stesso tempo non snaturare la particolarità del percorso di formazione dell'analista?

    Questa è la domanda fondamentale che ci si sarebbe dovuti porre, ed è evidente che la legge 56/89, in particolare l'art. 3, che stabilisce i criteri di accesso al titolo di psicoterapeuta, non risponde affatto, non calza affatto con le vere esigenze di formazione di uno psicoanalista, e spesso neanche di uno psicoterapeuta umanistico.

    Perché?

    Prima di tutto perché tiene conto di sole due lauree (psicologia e medicina) - fra loro peraltro molto difformi, scelte dunque per motivi corporativi e non certo epistemologici - a fondamento del percorso di specializzazione.

    Secondariamente, perché il corso quadriennale successivo, necessario per accedere alla specialità, rimanda sì alla regolamentazione ministeriale (in seguito fu varato il famoso decreto 509/98), ma nulla si dice, nella legge 56/89 e nel regolamento ministeriale, della formazione personale, dell'analisi personale, dell'intreccio di lavoro su di sé, supervisione, attività di studio e ricerca in gruppo, ecc. che costituiscono la base, l'ossatura della formazione dello psicoanalista.

    Dunque la riduzione del percorso di accesso alla psicoanalisi a un presupposto universitario di stampo scientifico costituisce un primo, grave tradimento e misconoscimento della base epistemologica, storica, culturale in genere da cui nasce invece la psicoanalisi, che si nutre di saperi ben diversi, che sono la linguistica, l'estetica, lo strutturalismo, l'antropologia, la filosofia, la storia, la letteratura, e certamente anche la psicopatologia. Peraltro, anche quest'ultima non si impara affatto a psicologia e neanche in un corso base di medicina.

    Questo impoverimento, riduce anche le classi di allievi specializzandi in psicoterapia psicoanalitica, presso le scuole riconosciute, a classi impoverite, con linguaggio appiattito, in cui la ridondanza e la varietà di punti di vista - ingrediente fondamentale per una vera formazione teorica dello psicoanalista - è fatalmente lasciata fuori.

    Oltre tutto, questo "imbuto", questo obbligo di passare per la laurea in medicina e psicologia, che sono due percorsi lunghi e faticosi, impedisce che chi incontri la psicoanalisi a partire da un proprio disagio, andando appunto in analisi, o anche incappando in una supervisione di gruppo perché insegnante, o educatore, o pedagogista, o altro, o ancora perché interessato ad approfondire sulla base di un incontro culturale, non possa esprimere una sua domanda di formazione se non laureandosi in medicina o psicologia, quando magari è già quarantenne, laureato in filosofia o in lettere, o in altro.

    È paradossale che si debba inserire un imbuto così stretto all'inizio del percorso di studi, in un ambito umanistico (tale dovrebbe rimanere l'ambito psicoanalitico, e del resto la facoltà di psicologia non si è sottratta alla riforma universitaria del 3 più 2, che all'estero è un percorso pensato per lo più per permettere ai giovani di formarsi in modo general-generico, di spaziare fra diverse discipline, e non certo per creare imbuti rigidi, che favoriscono solo l'abbandono del percorso), e per di più questo imbuto indirizza verso due lauree eterogenee che fra l'altro non sono affatto l'ideale per fare da presupposto alla formazione dell'analista.

    Il secondo discorso è anche molto più grave, perché né nell'art. 3 della legge 56/89, né nel regolamento del DM 509/98, si fa menzione di formazione personale, e oggi la realtà è che un utente, o cliente, o paziente, si può trovare davanti a uno psicoterapeuta cognitivista, che non fa alcuna formazione e fa riferimento a paradigmi scientifici appunto, di tipo medico-psicologico, o invece a un analista bioenergetico, o gestaltista, o a uno psicoterapeuta psicoanalista, che hanno tutt'altro approccio e tutt'altra formazione.

    Questo non permette affatto di essere trasparenti con il pubblico, e non mette le persone in condizioni di fare scelte consapevoli.

    Dunque ci sono molti motivi per stabilire, già a un primo sguardo, che la legge 56/89 e la psicoanalisi sono incompatibili. Non conviene né agli psicologi né agli psicoanalisti questa sovrapposizione.

    Molti psicologi desiderano che la loro disciplina si inserisca nell'alveo delle scienze esatte, del paradigma scientifico-quantitativo, e quindi la particolarità della psicoanalisi non c'entra con questi percorsi.

    Quanto agli psicoanalisti, niente è più lontano dalla concezione della formazione analitica, di una logica come quella ordinistica, fondata sul percorso "ex ante", sul percorso di studi precedente, che non tiene in nessun conto il discorso della formazione continua, il valore della pratica, dell'esperienza su di sé, della testimonianza, ecc.

    Detto questo, è possibile però pensare a un contenitore legislativo che permetta da una parte a chi voglia formarsi in ambito psicoanalitico di trovare degli interlocutori, delle agenzie formative, e dall'altra allo Stato di garantire un minimo di riconoscibilità a queste agenzie formative, e anche una regolamentazione della pratica psicoanalitica sul piano formale (contratto, consenso informato, codice deontologico, tasse, assicurazioni, previdenza ecc.).

    Su questo punto gli psicoanalisti negli ultimi vent'anni hanno contribuito moltissimo a creare confusione e si sono davvero dati la zappa sui piedi.

    Se invece di stracciarsi le vesti o di dividersi in mille scuole di pensiero, se invece di filosofeggiare sul rapporto impossibile fra psicoanalisi e diritto, si fossero messi con un po' di buon senso a cercare di proporre al legislatore un'alternativa e a costruire un percorso, oggi certamente la storia sarebbe andata diversamente, e saremmo in ben altra posizione anche nei confronti dell'Ordine.

    Del resto in moltissimi Paesi europei ci sono alternative, ci sono leggi che consentono di esercitare la psicoanalisi senza le strettoie della legge 56/89 e che consentono un percorso formativo decisamente più consono, rispetto a quello cui si è obbligati se si accetta il presupposto assurdo che la psicoanalisi è una psicoterapia e come tale è da considerarsi disciplinata dall'art. 3 della Legge 56/89.

    La legge 4/2013 oggi offre un quadro, una cornice entro cui far ripartire il dibattito.

    Certo ora la strada è molto in salita, perché ci sono alcune sentenze, già anche di terzo grado, che sanciscono di fatto la coincidenza fra psicoanalisi e psicoterapia, ma è vero anche che in Italia le sentenze, anche di Cassazione, non fanno legge, e quindi ci sono ancora spazi per dimostrare, documenti alla mano, che si è trattato di un grosso equivoco, dovuto anche a un percorso che storicamente ha visto gli psicoanalisti poco consapevoli, divisi, e poco capaci di inquadrare adeguatamente il problema e dunque di assumersi veramente la responsabilità di questo tema della regolamentazione della professione, di fronte al legislatore e alla società civile.

    Oggi però molti psicoanalisti, anche di scuole e approcci differenti, si rendono conto del fatto che venticinque anni di legge 56/89, di silenzio su questo dibattito, di de-responsabilizzazione rispetto a questo dovere verso le nuove generazioni, hanno generato da un lato queste assurde sentenze, e dall'altra hanno snaturato la psicoanalisi, hanno medicalizzato la psicoterapia e tutto il campo dei saperi d'area psicologica, hanno fatto perdere presa anche alle discipline umanistiche rispetto all'incidenza sociale di quello che è il paradigma della soggettività.

    La psicoanalisi rischia l'emarginazione nel dibattito culturale e politico (mentre negli anni precedenti alla legge 56/89 era al centro della cultura), e le nuove generazioni, ma anche i cittadini, rischiano di non sapere neanche più quale sia la differenza fra uno psichiatra, uno psicologo e uno psicoanalista.

    Esiste oggi una forte necessità, fra l'altro, di adeguare la società italiana agli standard europei, e anche in ambito professionale, l'approccio corporativo proprio degli Ordini costituisce un capitolo di cui certo non dobbiamo andare fieri.

    Gli Ordini professionali non garantiscono logiche di vita associativa democratica, dato che hanno il monopolio delle iscrizioni, a differenza del sistema libero-associativo, dove possono confrontarsi varie realtà associative e dove ogni singolo professionista può scegliere fra più associazioni e viceversa ogni associazione può darsi standard differenti, laddove lo Stato controlla e garantisce solo gli standard minimi. La concorrenza fra le diverse associazioni professionali che insistono su uno stesso segmento, aumenta la qualità perché la concorrenza spinge a elevare gli standard e a rendere i servizi trasparenti. Oltre a ciò, gli Ordini sono improntati più su logiche autorizzatorie e su percorsi rigidi "ex ante", che sulla formazione continua e sul contratto-consenso informato.

    La psicanalisi, come professione, approdando a una organizzazione propria delle professioni non regolamentate, e staccandosi in modo definitivo, non più ambiguo, dal discorso ordinistico, potrebbe dare anche una forte spinta innovativa a tutto il sistema di regolamentazione delle professioni della relazione d'aiuto, che trarrebbero grande beneficio dal superamento delle logiche autorizzatorie, e dall'adeguamento agli standard europei, che sono fondati appunto sui principi della certificazione dei percorsi, della trasparenza e contrattualità con il cliente, della responsabilità del professionista e della formazione continua.

    Se le professioni, tutte le professioni in Italia, si organizzassero in registri, sarebbero favoriti gli scambi interdisciplinari, e si svuoterebbero tutte le querelles sulle competenze specifiche, gli atti tipici, ecc. che originano proprio dal tipo di organizzazione corporativa e autorizzatoria.

    Aree di ampia sovrapposizione e condivisione permettono ai saperi anche di crescere, di evolvere. Ogni disciplina dà vita a professioni e pratiche differenti, a contenitori professionali complessi e comunicanti.

    Una professione antica come quella che origina dal sapere giuridico, quella di avvocato, convive con percorsi differenti, come quella di consulente legale, tecnico amministrativo, o Giudice, o anche altri profili che condividono la stessa laurea, o lauree diverse con percorsi poi affini (es. lauree in economia internazionale, o in scienze politiche, possono portare a profili di funzionario in azienda, a diversi livelli). Ciò che fa la differenza non sono tanto i percorsi di base, universitari (in genere scomposti in 3 più 2, e comunque modularizzati) quanto i percorsi successivi. Solo le carriere più tecniche necessitano di percorsi più rigidi e lunghi.

    Anche le professioni sanitarie sono diverse e variegate, e vanno sempre più aumentando e costituiscono un contenitore complesso, una famiglia di professioni: medico, infermiere, dietista, tecnico della riabilitazione, odontoiatra, ostetrico, ecc. Si condividono saperi, orizzonti epistemologici ma non necessariamente lauree e percorsi identici in entrata. I percorsi sono modularizzati. Anche qui, solo i percorsi più complessi e ad alta specializzazione tecnica implicano piani di studi più rigidi già all'ingresso.

    Il sistema di organizzazione delle professioni non regolamentate, che è oggi possibile con la legge 4/2013, quindi, è una straordinaria occasione per la società italiana, per il mondo delle professioni e anche per la psicoanalisi, per differenziare meglio i percorsi, per garantire meglio la società civile e l'utenza, ma anche per democratizzare il mondo delle professioni.

    Speriamo che gli psicoanalisti italiani non si facciano scappare quest'ultimo treno per riagguantare l'Europa.



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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