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  • Giornalismo narrativo
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (a cura di)
    Numero monografico pubblicato con il Patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia

    M@gm@ vol.13 n.1 Gennaio-Aprile 2015



    COMBATTIMENTI COL CANE NERO

    Mario Bruno

    mario.bruno@email.it
    Giornalista professionista, scrittore e regista cinematografico, è stato redattore de “La Sicilia” per 40 anni. Ora, da free lance, scrive sempre per questo quotidiano e collabora con i settimanali Stop, Vero, Miracoli e Oggi. In precedenza ha lavorato per Visto, Grand Hotel e per la Rai. Ha scritto otto libri, due dei quali sono romanzi d’indagine (Caro assassino e Trapezio d’amore) dei quali è protagonista il commissario Carlo Valenti della Questura di Catania, personaggio che ha ideato nel 1987, interprete di due film che ha scritto e diretto intitolati Uno strano suicidio e Come marionette. Ha firmato diversi testi teatrali, fra cui I giorni scarni, Analisi di un delitto, Il senso della giustizia e Orchidea nera (la tragedia dei marchesi Casati Stampa di Soncino).

    La depressione è stata definita in svariati modi: una volta si chiamava esaurimento nervoso, oggi è “il male oscuro”, “il male di vivere”, “umor nero” o, come l’aveva soprannominata Winston Churchill, “black dog”, un “cane nero” che ci divora.

    Sia come sia, oggi la depressione è riconosciuta come vera e propria malattia, una patologia subdola che colpisce a tradimento. Arriva silenziosa e devastante, preceduta o meno dai micidiali attacchi di panico, e taglia le gambe, chiude la persona sofferente in un limbo di silenzio e apatia; fa vedere tutto grigio, opaco, annienta interessi, desideri e, non di rado, la voglia di vivere.

    Tanti sono stati vittime della depressione. Anche fra le persone più note e di successo. Lo scrittore Emilio Salgari, ad esempio, il “padre” di «Sandokan la Tigre della Malesia», una mattina si trovava in giardino con il figlioletto. A un tratto gli disse: «Vai a casa dalla mamma, io torno subito». E andò a suicidarsi poco lontano. Fu salvato in tempo. Ma due anni dopo, nel 1911, riuscì nel suo intento.


    Melencolia I di Albrecht Dürer - Incisione, 1514

    Stessa sorte per il poeta e scrittore Cesare Pavese, che nel 1950, stremato dalla depressione, si tirò un colpo di pistola alla tempia in una stanza d’albergo perché la donna che amava l’aveva lasciato e lui era piombato in un’angoscia schiacciante. Guarda caso anche l’attore Luigi Vannucchi si tolse la vita nel 1978 dopo avere girato uno sceneggiato televisivo, “Il vizio assurdo”, in cui interpretava Pavese. Stranissima, misteriosa coincidenza. Si disse allora che Vannucchi fu sopraffatto dal difficile “mestiere di vivere” di cui aveva scritto il letterato piemontese. L’artista, prima dell’inizio delle riprese si era documentato meticolosamente leggendo le opere di Pavese, ed entrò talmente nella parte da farsi trasmettere la forte malinconia e l’acuto pessimismo che avevano portato l’autore di “Lavorare stanca” al gesto estremo.

    Anche Alighiero Noschese, simpaticissimo e famosissimo imitatore, si sparò alla testa nel 1979 perché divorato dal male dell’anima. Successe nel giardino della Casa di cura romana, Villa Stuart dove i familiari lo avevano fatto ricoverare per curarlo. Apparentemente allegro, la battuta frizzante sempre pronta, in realtà era logorato dalla malattia invisibile che lo aveva già portato negli anni precedenti a ritirarsi in meditazione in un istituto religioso nel Napoletano, e un giorno decise di farla finita. Forse gli mancava l’applauso degli anni d’oro della sua carriera e l’avvicinarsi della vecchiaia lo terrorizzava.

    Morti suicidi pure i cantanti Luigi Tenco e Dalida, che se ne andò per il dolore di averlo perso; e ancora il grande regista Mario Monicelli, Mia Martini e tanti, tanti altri. Ognuno con qualche motivo per decidere di farla finita, ma tutti accomunati da un inesorabile sconforto. Luigi Tenco nel 1967 scrisse in un biglietto ritrovato nella sua stanza d’albergo a Sanremo di aver premuto il grilletto della pistola “come atto di protesta” perché non sopportava che la sua canzone fosse stata esclusa e due canzonette scanzonate andassero in finale al festival. Ma nessun altro si è ammazzato per una sconfitta. In realtà egli era un depresso cronico.

    Monicelli sentiva, data l’età, 95 anni, il fiato della morte sul collo e decise di anticipare i tempi per non soffrire troppo per il cancro alla prostata che lo stava divorando. Era il 2010. Si gettò da una finestra dell’ospedale romano dove era ricoverato. Mia Martini nel 1995 fu stroncata da un cocktail di farmaci e alcol per una presunta delusione amorosa che in effetti malcelava la sua paura della solitudine e dell’abbandono. Una «cura» che la uccise.

    C’è comunque, di converso, chi lotta, chi accantona i cattivi pensieri, chi mantiene un barlume di attaccamento alla vita per non soccombere. Vittorio Gassman ad esempio era uno di questi. L’attore bello e beffardo combatté contro il male strisciante con inaudita forza interiore assumendo massicce dosi di antidepressivi e ricoverandosi, spesso, nella clinica del professore Giovanni Battista Cassano, a Pisa, dove “riparano” altri nomi noti dello spettacolo, della letteratura, dell’arte. Una volta Gassman dichiarò: «Ho preso tonnellate di Efexor (un potente antidepressivo, ndr), ma non mi hanno guarito, è come se ingoiassi caramelle o bevessi aranciata». Ma ce la fece.

    L’elenco prosegue con Ornella Vanoni, Gino Paoli (che tentò il suicidio sparandosi al petto, ma sopravvisse e convive da tanti decenni con una pallottola di piombo vicina al cuore) e con il re dei giornalisti. Indro Montanelli disse in un’intervista: «La mia depressione alimenta la paura, e infatti io ho paura di tutto, anche della penna che tengo in mano». Conduceva una vita semplice: la mattina al giornale, poi la pausa pranzo nella stessa trattoria (spesso da solo) con un menu monotono costituito da due ravioli e una bistecchina, con la sola alternativa, ogni tanto, di un piatto di fagioli. Niente vino, soltanto acqua oligominerale rigorosamente non gasata, niente pane, niente grissini. Poi la breve passeggiata in un giardinetto e il rientro in redazione, dove avrebbe scritto l’editoriale per l’indomani.

    Sempre serio, vagamente accigliato, mai una risata o una serata con gli amici a bisbocciare con abbondanti portate e vino robusto. Non era roba sua, lui viveva tra casa e giornale, facendo dell’informazione la sua ragione di vita. «Combatto la depressione e la paura lavorando, - disse - inghiotto medicine, tutte le porcherie che la scienza psichiatrica ci mette a disposizione, ma la terapia, il farmaco più importante e garanzia di momentanea salvezza, resta per me la Olivetti Lettera 22, la mia obsoleta macchina per scrivere che nessun computer ultramoderno riuscirà a strapparmi via».

    La depressione è strana, c’è chi la vive, come abbiamo detto, sprofondando in un cupo mutismo e chi, affetto da disturbo bipolare, alterna momenti di tristezza a momenti di serenità se non di euforia. Una signora di mia conoscenza sembrava serena, tranquilla, non di rado era sorridente, eppure un pomeriggio la trovarono impiccata. E un’altra, che il sorriso lo aveva sempre stampato sulle labbra ed era socievolissima e garbata, si gettò tre volte dal balcone di casa. Le prime due volte se la cavò con fratture ed ematomi, la terza riuscì a morire. Come se la depressione faccia soffrire talmente tanto, che la vittima trova sollievo solo con la morte.

    Anche un altro grande giornalista, estroverso e dalla prosa sempre vivace, nasconde un rapporto stretto con la depressione. Roberto Gervaso, il papillon più famoso della letteratura italiana a dispetto delle quasi 78 primavere è sempre iperattivo e caustico, sferzante, ironico e smagliante nei suoi articoli e nei suoi libri. Sforna un pezzo al giorno per Il Messaggero, Il Mattino e Il Gazzettino producendo inoltre libri a ripetizione. E l’ultimo, fresco di stampa, “Ho ucciso il cane nero”, è dedicato proprio alla depressione di cui soffriva ciclicamente.

    [+nero_intervista] Gervaso, lei dunque è stata una vittima della depressione...
    [+tondo_SR] «Sì, tre volte nella vita. Ogni vent’anni. Come accadde a Montanelli. L’ultima mi è durata cinque anni ed è stata devastante. La depressione, che una volta si chiamava esaurimento nervoso, è il rogo dell’anima».

    [+nero_intervista] In che senso?
    [+tondo_SR] «Nel senso che la coscienza cade in balìa di spettri e fantasmi orrendi; non sei più padrone di te stesso e non sei più in grado di comunicare con gli altri. Niente più ti interessa, tutto ti angoscia, o peggio, ti terrorizza. Ti senti disperatamente solo, tanto più solo quanto più chi ti sta vicino cerca di infonderti forza, coraggio e speranza».

    [+nero_intervista] Allora lei com’è riuscito a debellare questa morsa che attanaglia l’anima?
    [+tondo_SR] «Con i farmaci e con il tempo, che è un grande medico. Farmaci potenti anche con fastidiosi effetti collaterali che ti alterano l’appetito, la libido e soprattutto il sonno. Si vive male, si vorrebbe stare sempre tra letto e poltrona, come fece il collega illustre Panfilo Gentile, che poco dopo i sessant’anni si coricò e, per paura del peggio, restò a letto fino alla fine dei suoi giorni. Chi ti sta accanto, se non ha avuto la depressione, non può dare nessun giovamento se non la compagnia perché ti stimola a esercitare la volontà che è la grande vittima della depressione».

    [+nero_intervista] Dunque la depressione è definitivamente sconfitta…
    [+tondo_SR] «Un momento, non corriamo: per ora l’ho bloccata e la tengo a bada. Ma domani, chissà… non dimentichiamo che la salute è uno stato provvisorio che non lascia presagire nulla di buono».

    [+nero_intervista] Sempre patofobo…
    [+tondo_SR] «Per costituzione. Ogni tre mesi mi sottopongo ad accertamenti per verificare se la macchina funziona ancora o c’è bisogna di interventi appropriati per rimettere motore e carrozzeria in sesto».

    [+nero_intervista] Quale epitaffio leggeremo fra un secolo sulla sua tomba?
    [+tondo_SR] «Qui giace Roberto Gervaso. Malori in corso».



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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