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  • Violenza maschile e femminicidio
    Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio-Aprile 2014

    L'ATTUALITÀ DEI CENTRI ANTIVIOLENZA: IN EQUILIBRIO SUL FILO DEL POSSIBILE


    Paola Castagnotto

    paola.castagnotto@alice.it
    Laureata in pedagogia, due master in diritto sanitario e ricerca organizzativa. Ha iniziato il percorso professionale come responsabile di servizi educativi. Ha ricoperto il ruolo di Assessore per il Comune di Ferrara, prima alla Pubblica Istruzione, poi alle Politiche Sociali e Sanitarie. Lavora presso la Azienda USL di Ferrara, occupandosi di progettazione socio sanitaria. Segue i progetti di tutela della salute e del benessere delle donne. Collabora con la Regione Emilia Romagna per la costruzione delle prime Linee di indirizzo regionale per l’accoglienza di donne vittime di violenza di genere. Coordina percorsi formativi per operatori sanitari, per la presa in carico di vittime di violenza di genere. Coautrice di : Curare senza allontanare. Esperienze di home visiting per il sostegno educativo alla famiglia, a cura di M.T. Pedrocco Biancardi, Franco Angeli, 2013. Da oltre trent’anni milita nel movimento delle donne. E’ presidente del Centro Donna Giustizia di Ferrara e consigliera del Coordinamento regionale dei Centri antiviolenza..



    Siamo come d'autunno... (Venera Finocchiaro) - Associazione "Movimento Artisti Arte per"

    La definizione di un Centro antiviolenza, in genere, apre in due modi apparentemente simili: uno più centrato sull’offerta di servizi a donne che subiscono violenze, e uno più mirato a identificare un luogo che accoglie le donne che vivono quella condizione. La differenza di senso è in realtà radicale. Io sono convinta che la dimensione di “luogo” come teatro di relazione di aiuto, di ascolto e di progetto, sia quella più legata alla storia che ha accompagnato la nascita e la crescita dei  Centri antiviolenza e il loro orientamento metodologico.

    Mentre rifletto sulla mia esperienza, mi sollecitano  due suggestioni.

    A fine agosto di quest’anno, a Sarzana, nel X Festival della mente, la filosofa Nicla Vassallo nella sua lectio magistralis: La donna è un’invenzione, ha proposto con l’idea di una inesistenza della “Donna”, mera invenzione, visto che «dietro l’articolo determinativo sempre di più si cela l’obiettivo di continuare a cercare , e imbrigliare, una femminilità come entità universale, a discapito delle tante differenze tra le donne stesse e , continuando ad alimentare gli stereotipi di genere. La specificità di ogni donna come si coniuga con l’evidenza che discriminazioni e violenze agiscano sulle donne, in quanto genere, oltre alle loro differenze? Ogni donna subisce, pur in forme e intensità diverse, molestie, violenze, prevaricazioni, non riconoscimenti; a ogni donna sono attribuiti doveri riproduttivi e sessuali, una sottomissione alle proiezioni maschili , dettate da interessi sessuali, quelli che  hanno inventato la “ Donna”, interessi codificati nelle religioni, nelle spiritualità, nei sistemi politico economici, nelle filosofie …» (N. Vassallo).

    Altra suggestione: sul Corriere della sera l’8 settembre :Dee indù col volto tumefatto contro la violenza domestica [1]. Le dee dell’induismo, Durga, l’invincibile guerriera, Saraswati, la conoscenza e Lakshmi, la prosperità, sono state rappresentate con i segni evidenti di percosse e maltrattamenti in una campagna promossa da Save Our Sisters in India, luogo dove gli stupri e gli abusi sul corpo delle donne sono ad una soglia intollerabile e la violenza familiare colpisce il 68% delle donne. Ad un anno dalla straordinaria mobilitazione pubblica, le denunce sono aumentate, ma ancora è complesso per le donne indiane rischiare parole libere. L”intervento” delle tre dee, non mi pare una ammissione di impotenza, piuttosto la strategia simbolica di una soggettività femminile, non importata da altri modelli che cerca la propria strada tra  tradizione e parole nuove.

    Suggestioni diverse distanti geograficamente e culturalmente che, al di là dell’essere d’accordo o meno, hanno una comunanza di senso, contengono una narrazione della complessità del rapporto tra la unicità di ogni soggettività femminile e la ricerca di una rappresentazione comune di quanto la violenza maschile agisce sullo spazio pubblico del potere e dell’autorità.

    Tutto questo cosa centra con i Centri antiviolenza? Io penso molto, perché la loro unicità è proprio nell’essere luoghi di un quotidiano muoversi tra privato e pubblico, tra l’urgenza dell’ ascolto e dell’aiuto individuali e la costruzione di un progetto, comune e continuo, di libertà delle donne, incompatibile con ogni forma di violenza.

    Non ho lo spazio di ripercorrere i modelli teorici di accoglienza e di presa in carico delle donne che subiscono violenze, specificamente nell’area delle relazioni di intimità. I riferimenti metodologici dei Centri antiviolenza che si ispirano alle Linee Guida europee ed internazionali, sono ormai sedimentati in oltre un trentennio di competenze documentate. Ormai è noto, a chi di questo tema si interessa, come si può agire sul “ciclo della violenza” o sulla “ruota del potere e del controllo” (Walker 1979), fondamenta del riconoscimento degli strumenti e degli effetti dei comportamenti maschili violenti.

    La riflessione che vorrei tentare di proporre, a partire dalla mia esperienza, è limitata alla domanda di quanto i Centri antiviolenza e la loro metodologia di aiuto siano conosciuti e riconosciuti nella organizzazione dei sistemi sociali e, a come, il loro riconoscimento può sostenere una inversione di tendenza nella organizzazione delle forme della tutela sociale per le donne. L’esperienza dei Centri antiviolenza è prima di tutto un investimento etico e politico sulle relazioni di aiuto e valuta la efficacia delle azioni su criteri che si riferiscono a concetti, per qualcuno obsoleti: la tutela della dignità, l’investimento sulle risorse che ogni donna possiede, il presidio della libertà e della autodeterminazione femminile.

    Nel logo del Centro che presiedo, nato come associazione autonoma nel 1993 da un lungo percorso di lavoro sul contrasto della violenza attivato dall’U.D.I. di Ferrara sin dagli anni ’80, a fianco delle attività proposte alle donne in difficoltà, compare la scritta: “contro la violenza per una crescita individuale e collettiva della libertà femminile”. In questo binomio, attività e investimento politico culturale, vi è, a mio parere, uno dei tratti originali dell'esperienza generale dei Centri antiviolenza. Il Centro Donna Giustizia si colloca in una cornice nazionale, D.i.R.e - donne in rete contro la violenza - che rappresenta sessantatre Centri, e regionale, con la appartenenza al Coordinamento dei  dodici Centri antiviolenza della Regione  Emilia Romagna.

    La nascita dell’associazione D.i.Re è stata un punto di evoluzione per il movimento delle donne in Italia, dando evidenza politica al  lungo percorso , di oltre 20 anni, dei centri antiviolenza. D.i.Re, non rappresenta la totalità dei centri antiviolenza italiani, ma rappresenta il punto di incontro con  le reti di associazioni di donne europee ed internazionali , tra cui la rete europea WAVE - Women AgainstViolence Europe, di cui è parte e punto focale per l’Italia, la European Women’s Lobby (EWL), la rete internazionale dei centri antiviolenza GNWS - Global Network of Women’s Shelter.

    Nel 2012 oltre 14.000 donne si sono rivolte ad un centro antiviolenza aderente a D.i.R.e. Questo numero, in un Paese come l’Italia che non è in grado di rappresentare i dati di realtà delle violenze contro le donne, è significativo, ma rappresenta ancora solo parzialmente una complessità di disagi e di bisogni; evidenzia la natura strutturale di un fenomeno che andrebbe affrontato con conoscenze, capacità di confronto con le strategie adottate in altre realtà e, soprattutto con “pensieri lunghi” su un’idea di sicurezza sociale, ben più complessa delle sole politiche emergenziali o di ordine pubblico. Sicurezza implica un concetto di tutela come possibilità di esercitare la propria autonomia e quando questa è compromessa, servono luoghi che aiutino a prendere le distanze, non solo dal rischio rappresentato dall’aggressore, ma anche dalla spirale di degrado psicologico e culturale che la violenza attiva. Questo apre una immediata criticità. In Italia non tutti i Centri possono offrire ospitalità alle donne vittime di violenza e ai loro figli. Tra i Centri aderenti a D.i.Re solo trentuno hanno una casa rifugio. E anche complessivamente sui centoventisette Centri esistenti solo sessantuno hanno un luogo di protezione, arrivando a una capacità complessiva di circa cinquecento posti letto. Un dato in evidente distanza dalle raccomandazioni del Parlamento e del Consiglio d’Europa [2].

    Il tema della carenza di risorse pubbliche finalizzate al contrasto della violenza e al sostegno dei luoghi di aiuto, attraversa i Governi, indipendentemente dalle maggioranze politiche che li esprimono. La assenza di una responsabilità esplicita e continuativa  dello Stato italiano sul contrasto delle violenze di genere ha una matrice multifattoriale culturale, sociale, giuridica e affonda le sue radici nella persistenza di un sistema discriminatorio che poco ha a che fare con lo stato di diritto, molto di più con quegli interessi maschili codificati nel sistema politico economico di cui parlava Nicla Vassallo. Se la responsabilità non viene per convinzione, almeno dovrebbe essere indotta dallo stato di grave crisi economica che sta attraversando l’Italia. Siamo sommersi dall’enfasi delle strategie di riduzione della spesa pubblica e sarebbe utile conoscere i costi della violenza, non solo per chi la subisce, ma per la intera collettività. In Italia, come non si struttura un osservatorio nazionale sull’andamento del fenomeno, così non sono mai stati stimati i costi della violenza, a differenza di quanto fanno in altri Paesi. Una valutazione sommaria si deve al Consiglio d'Europa, che calcola un costo di 2,4 miliardi l'anno  solo in Italia per far fronte al fenomeno, su 33 miliardi di spesa annua sostenuta in tutta Europa, con una media che va dai 20 ai 60 euro pro capite per ogni vittima. Le principali voci di spesa sono per l'assistenza sanitaria e gli interventi delle forze dell'ordine, a cui si sommano quelle per il sistema giudiziario e l'eventuale periodo in carcere dell'aggressore. Poi ci sono i costi per le strutture di accoglienza e per la formazione di personale specializzato. A queste voci di costo dirette, vanno sommate spese necessarie al sostegno dei componenti dei nuclei familiari disgregati dai comportamenti violenti e tutti i costi, indiretti, sul sistema produttivo pubblico e privato.

    L’auspicio è che finalmente parta un’analisi sistemica dove emerga l’evidenza che un approccio globale, programmato, non guidato dalla emergenza continua, in grado di declinare comuni obiettivi dalla prevenzione, al contrasto, alla riduzione dei danni per donne e minori, valutati sui tempi e sulle risorse reali che richiede l’uscita da un sistema relazionale violento, per convincere sull’utilità di un investimento pubblico qualificato che ricomprenda il tema della sicurezza delle donne, nel quadro più complessivo della  salute e del benessere sociale delle comunità. In questa ottica di qualificazione della spesa pubblica si pone la richiesta di finanziamenti adeguati per i Centri antiviolenza. Il quadro nazionale è desolante, con una minoranza di Centri supportati solo da convenzioni con Regioni e Comuni e una maggioranza a carico delle Associazioni femminili, a rischio continuo di chiusura. Anche nelle realtà più “fortunate” la riduzione dei finanziamenti sociali, basti a titolo di esempio in Emilia Romagna una riduzione del 20% nel 2013 rispetto il 2012, sta producendo un arretramento generale dei servizi di aiuto alla persona. E, cosa ancora più grave, un senso di provvisorietà che rischia di compromettere la relazione di fiducia dei cittadini con i presidi sociali.

    Per le politiche pubbliche italiane, di contrasto alla violenza di genere, discontinuità e provvisorietà non sono una novità. Erano già evidenti nel primo Piano d’azione Nazionale e sono confermate nell’approccio culturale del Decreto Legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 agosto 2013, lontano dalla visione globale contenuta nella Convenzione di Istambul, pur ratificata dall’Italia. Tra le diverse semplificazioni contenute nel Decreto, è evidente che manca la conoscenza della rete di sostegno alle donne e ai minori vittime di violenze, cresciuta principalmente grazie alla responsabilità delle associazioni femminili, con i Centri antiviolenza e non solo. È altrettanto evidente la scarsa consapevolezza di quali competenze e risorse sono necessarie per strutturare reti locali integrate di operatori formati al riconoscimento della violenza, soprattutto la più invasiva, quella nelle relazioni intime (la definizione “domestica” è riduttiva). Concordo con una domanda della giornalista Nadia Somma, «…. L’obbligo di arresto e l’allontanamento dell’autore di maltrattamenti in casi diflagranza di reato potrebbe essere un altro buon strumento, anche se resta da capire cosa accadrà, una volta che l’autore di violenze sarà scarcerato. Se oltre a bloccare l’autore di violenze non si aiutano le donne con percorsi mirati a sganciarsi dalla relazione allontanandole dal pericolo, tutelando i figli, rafforzando le loro scelte offrendo sostegno e percorsi di autonomia, anche economica, che efficacia avranno gli arresti e gli ammonimenti? Si pensa di risolvere tutto con il carcere?» [3]

    Quei percorsi mirati sono l’oggetto del lavoro quotidiano del Centro Donna Giustizia in costante relazione con gli altri undici Centri del Coordinamento della Regione Emilia Romagna. Il Coordinamento sostiene il confronto interno sulle metodologie di accoglienza e sulle progettualità, ma è anche strumento di «contrattazione con gli Enti Locali» (p. 17) [4] perché le politiche socio sanitarie aumentino competenza nel trattamento delle vittime di violenza. Il Coordinamento in oltre dieci anni di attività ha prodotto iniziative concertate con la Regione per campagne di sensibilizzazione pubblica e per progetti formativi e ha strutturato un osservatorio per l’analisi annuale dei dati sulle donne accolte nei Centri antiviolenza e, ultimamente anche sulle comunità di accoglienza. Ma, non è solo una regia di proposte, è anche la sintesi di un progetto politico che ha l’obiettivo di promuovere la qualificazione e il miglioramento dell’equità dello stato sociale regionale, nelle strategie di inclusione dei soggetti più fragili, o resi fragili come per le donne che subiscono prevaricazioni e violenze, e nelle metodologie di accesso al sistema dei servizi e delle prestazioni pubbliche. Il contesto è quello di una Regione, sino a pochi anni orsono laboratorio di innovazione sociale e, oggi, in difficoltà a governare il cambiamento socio culturale che la sta attraversando e l’esplosione delle nuove vulnerabilità sociali.

    «… Queste situazioni di vulnerabilità parlano di persone che, pur partendo da una condizione economicadecorosa, scivolano silenziosamente verso la povertà a motivo di eventibiografici che fino a pochi anni fa appartenevano alla sfera della naturalità (...) Queste situazioni faticano a essere intercettate perché i disagi che le attraversano restano perlopiù invisibili  rispetto al mandato istituzionale assegnato ai servizi …» (Mazzoli G. p. 41) [5]

    Nell’elenco delle “biografie in scivolamento sociale” rientrano sempre di più  donne sole o con bambini vittime di maltrattamenti e di violenze familiari. Molte di queste sono già seguite dai Centri antiviolenza che da anni hanno iniziato a presidiare anche le ricadute socio economiche dei percorsi di uscita dalla violenza.

    «Sono passati oltre sedici anni, e da allora di strada ne è stata fatta nel contrasto alla violenza di genere, anche e soprattutto grazie al ruolo svolto dai tanti Centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna, sempre più radicati sui singoli territori per l’accoglienza delle donne e dei loro bambini. Fin dall’inizio l’obiettivo politico è stato produrre valore e valorizzazione femminile laddove esistono situazioni di difficoltà: aiutando donne che hanno subito maltrattamenti e contrastando la violenza maschile.» (p. 7)[6]

    Le pratiche di ascolto, di relazione, di accoglienza e di presa in carico delle donne che subiscono violenze, maturate nella esperienza di un Centro antiviolenza, hanno, oggi più che mai, un potere “eversivo” in un sistema sociale, sempre più economicamente deprivato e orientato alla standardizzazione nel trattamento dei bisogni delle persone.

    In questi vent’anni di attività i Centri antiviolenza hanno costruito il loro percorso su una parola chiave: relazione. All’interno, nel rapporto con le donne dove la relazione di aiuto è restituzione di forza, anche alle meno consapevoli della propria capacità di resilienza, per contrastare un’idea stereotipata di vittima. La metodologia basata sulla relazione, relazione tra donne, è la base motivazionale del lavoro di accoglienza che i Centri antiviolenza propongono e la lunga esperienza dimostra che nella relazione si costruiscono le condizioni perché una donna che chiede aiuto possa essere accompagnata verso un cambiamento consapevole del proprio progetto di vita. L’operatrice di accoglienza che promuove la relazione, non ne rimane fuori, ne è coinvolta empaticamente, è dentro il cambiamento che tocca lei stessa. Si può definire questa relazione tra donne come «un campo intersoggettivo in cui non si conosce del tutto ciò che porterà la donna e nemmeno ciò che formulerà l’operatrice (….) avviene un incontro tra due persone che si impegnano in un rapporto di conoscenza reciproca, dalla quale si attendono sviluppi “creativi”…» (p. 126) [7]

    Gli interventi di carattere relazionale, senza l’asettico tecnicismo terapeutico a volte presente in altri ambiti professionali di presa in carico della sofferenza, sono finalizzati al raggiungimento di obiettivi concordati sempre con le donne. Ogni azione ha bisogno sempre del consenso delle donne e attraverso l’ascolto non giudicante si costruisce insieme una scelta, un’idea di opportunità.

    «... L’aiuto alle donne consiste generalmente nel rafforzamento (empowerment) della loro identità di donne; aiutandole a valorizzarsi come individui si offre loro l’opportunità di raggiungere una buona opinione di sé e delle altre donne, restituendo fiducia in loro stesse e confermandole nelle scelte per superare la vergogna e uscire dal silenzio. Il percorso di uscita della violenza verrà negoziato in un continuo processo di reciprocità, senza giudizio …» [8]

    Le donne che tentano di uscire da situazioni di violenza possono rivolgersi a diversi soggetti (assistenti sociali, medici, forze dell'ordine) per chiedere aiuto. Ogni momento di comunicazione all'esterno del proprio vissuto è un momento delicato, e spesso decisivo, rispetto alla possibilità di costruire un percorso di uscita dalla violenza. Spesso fanno richieste di aiuto di varia natura, senza parlare in modo esplicito della violenza subita. C’è difficoltà a parlare, a far emergere il problema. C’è la vergogna di ammettere di non aver saputo riconoscere il rischio o di aver fallito in un proprio progetto intimo di vita. C’è il timore di non essere presa sul serio o di non essere creduta. C’è il peggiore, il pensiero di meritarsela la violenza subita.

    La relazione con i diversi soggetti che possono entrare in contatto con una richiesta di aiuto, per i Centri antiviolenza è supportata da un impianto metodologico che, pur nella specificità delle singole realtà, ha dei principi di base comuni:
    • la visione della complessità della violenza, in particolare nelle relazioni di intimità;
    • l’ esigenza primaria di mettere in sicurezza le donne e i loro figli;
    • l’accompagnamento alla soluzione più idonea attraverso gli strumenti legali o il sostegno psicologico;
    • l’empowerment e la partecipazione delle donne ad ogni decisione da assumere;
    • la riservatezza;
    • la costruzione di risposte coordinate tra diversi servizi e soggetti pubblici responsabili della sicurezza e del benessere delle donne e dei bambini;
    • l’impegno a rendere il contrasto attivo della violenza un tema di Accountability nei confronti delle Istituzioni locali, un esercizio di cittadinanza per rivendicare responsabilità pubblica e rispetto dei doveri istituzionali.

    In questi principi si intrecciano attenzione alla dignità di ogni singola donna e tensione ad un progetto di libertà e di autodeterminazione femminile che ha solide radici nella storia del femminismo.

    L’originalità dei Centri antiviolenza è la visione della violenza come costrutto sociale e culturale, conseguenza della disparità di potere tra uomini e donne e come lesione dei diritti fondamentali e di cittadinanza.

    «… i due aspetti, l’empowerment e la lettura sociale del fenomeno, sono intimamente legati nella metodologia sviluppata nel corso degli anni e validata, grazie ai risultati ottenuti, da tutte le principali organizzazioni internazionali ...» [9]

    I Centri antiviolenza si fanno inoltre carico di un’idea di prevenzione e di promozione di una cultura di genere, non separabili dall’intervento diretto con le donne. Le attività di formazione del personale interno e dei soggetti esterni, così come le attività di promozione e prevenzione nelle scuole o con i cittadini, rispondono sia all’esigenza immediata di aumentare sensibilità e conoscenza per un sistema sociale più competente nell’affrontare la violenza di genere, sia a quella più a lungo termine di minare l’impianto culturale che alimenta la violenza di genere.

    «Erroneamente, spesso si pensa a queste attività come collaterali e accessorie rispetto al lavoro d’accoglienza vero e proprio, mentre è proprio dal continuo scambio fra riflessione e pratica che le Associazioni migliorano la metodologia d’intervento e alimentano azioni preventive e la condanna sociale del fenomeno.» (pp. 10-11) [10]

    Il legame tra pratica e politica dei Centri è originato da  un percorso politico che il movimento delle donne ha compiuto in occidente dagli anni sessanta in poi. In quegli anni, le donne hanno iniziato a rompere il silenzio sulla violenza, a lottare per una maternità responsabile, per il divorzio e i diritti sociali, per la rappresentanza politica.

    Per questa origine i Centri antiviolenza non potranno mai essere ristretti nella sola dimensione di servizio, tradizionalmente inteso, ma sono soggetti attivatori di cambiamento e di ripensamento delle reti sociali comunitarie nelle quali agiscono.

    «… La comunità va pensata sotto vari aspetti: come il contesto nel quale si predispongono interventi individuali e collettivi, come una risorsa, ma anche come il soggetto e l’oggetto dell’intervento stesso. Lavorare dentro la comunità, insieme alla comunità, sulla comunità. È utile mettersi in uno stato di disponibilità reciproca, senza paure di inglobamento, accettare le specificità e aprirsi al confronto. Si possono trovare le modalità più adatte al contesto ma sempre in una logica di condivisione che va dall’ideazione alla realizzazione del lavoro di rete: creare metodologie comuni, formazioni ad hoc, percorsi paralleli, creare interazioni nelle progettazioni, stabilire alleanze positive, consolidare i legami tra associazioni con obiettivi analoghi, e con tutti gli attori sociali di un territorio. Il progetto di rete determina la riscoperta, la valorizzazione e la mobilitazione delle risorse del territorio e produce un lavoro in sinergia, attraverso il coinvolgimento delle differenti professionalità degli attori sociali dei settori pubblici e privati, anche allo scopo di evitare la sovrapposizione e la frammentazione degli interventi ...» (p. 86) [11]

    La creazione di sinergie per la prevenzione e il contrasto della violenza alle donne è uno degli obiettivi metodologici più importanti che un Centro antiviolenza si possa dare. Occorre lavorare sull’ «empowerment sociale» [12], ovvero sostenere un processo intenzionale e continuo di relazione con le donne, come cittadine più che vittime di violenza, perché possano accedere a luoghi di sostegno, in un rapporto fiduciario. Occorre credere in un «empowerment di rete» [13] per promuovere sinergie positive tra organizzazioni lavorative, servizi sociosanitari, Istituzioni, altre associazioni che operano nei territori, forze dell’ordine, per darsi comuni obiettivi. L’esperienza dei Centri antiviolenza che stanno riorientando la propria azione secondo questo obiettivo di consolidamento di empowerment sociale e di rete, parte dalla priorità di uniformare il linguaggio sulla violenza, condividendo dati, informazioni scientifiche, ricerche, agendo sugli stereotipi e sui pregiudizi di genere, per costruire azione comune tra «… servizi, operatori e “mondi” diversi, ognuno dei quali essenziale allo scopo …» (Patrizia Romito, p.14) [14]

    In questi anni, in molte parti del Paese, sono cambiati i contesti di riferimento per un ruolo dei Centri antiviolenza come soggetto di cambiamento sociale. La Legge 328 del 2000 - Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali - ha aperto una modalità di programmazione sociale condivisa attraverso i Piani Sociali di Zona, poliennali, meno centrati sulle categorie di destinatari delle prestazioni sociali e più orientati alla trasversalità dei bisogni che agiscono nelle comunità e alle risorse di conoscenza che l’auto organizzazione dei cittadini attiva. Le pianificazioni locali sono sempre più una trama di risposte integrate riconducibili ad una azione dei governi locali pensata nel tempo. I Centri antiviolenza in quella dimensione, oltre ad erogare servizi, sono punti  esperti di riferimento per politiche generali di qualificazione dell’accesso e della presa in carico dei sistemi sociali locali. Dalla legge 328, ogni Regione ha articolato il proprio modello organizzativo e anche la scelta di dotarsi di leggi specifiche sul contrasto delle violenze di genere, o di collocarsi con piani di azione nel contesto generale delle programmazioni sociali. Quest’ultima è stata la scelta della Regione Emilia Romagna che non ha una legge dedicata e il Coordinamento regionale dei Centri, dopo la approvazione della Legge R. n.2 del 2003 - Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali - che all’ art.5, nel  Sistema locale dei servizi sociali a rete include l’esperienza dei Centri antiviolenza, ha optato per un Piano poliennale specifico sul contrasto delle violenze di genere che riconosca il ruolo storico dei Centri antiviolenza. Il percorso non è ancora pienamente realizzato e i Centri antiviolenza della Regione Emilia Romagna stanno lavorando a questa implementazione del loro modello di azione in una logica di pianificazione sociale comunitaria.

    Sentirsi soggetti del cambiamento sociale e lavorare in una dimensione di welfare comunitario significa ricollocarsi come punti esperti di violenza delle reti sociali e istituzionali locali. La discussione si è aperta anche all’interno della Associazione nazionale D.i.R.e. e molti Centri avvertono che la maturità di oltre vent’anni di esperienza sul campo, sarà nella capacità di spostare una percezione pubblica dei Centri, da soli luoghi esperti di accoglienza/ospitalità a luoghi esperti di programmazione delle reti sociali di aiuto. I Centri antiviolenza lo possono essere proprio per la diversità che hanno costruito negli anni, fondata sull’essere soggetti sociali costituiti da donne che hanno scelto l’approccio femminista alla affermazione della dignità, della libertà e dell’autodeterminazione delle donne; che hanno costruito un modello inclusivo di relazione con le donne e i loro bisogni; che hanno proposto il lavoro di rete per attivare tutte le risorse che i territori hanno per affrontare le violenze di genere; che si sono spesi per dare continuità ad un lavoro di informazione e formazione continue; e che hanno un valore aggiunto, atipico in un momento storico dove trionfa il pragmatismo dell’agire, nell’avere un progetto politico di contrasto alla violenza e alle sue motivazioni discriminanti e lesive dei diritti di cittadinanza delle donne.

    Il filo del possibile per i Centri antiviolenza è una sfida tutta aperta, ma è una sfida anche per il possibile cambiamento del nostro Paese nell’approccio strutturale alle violenze di genere. In una cultura dove prevale l’emergenza sulla continuità, la semplificazione sul governo della complessità, i Centri antiviolenza pur con i loro cammini difficili, devono sentirsi come quelli che in Germania chiamano i Querdenker, studiati dalle organizzazioni economiche, quelli che vanno contro corrente, «… creano i problemi, perché la pensano in modo diverso, ma li sanno anche risolvere quando chi pensa in modo convenzionale non sa più che “pesci prendere”.» [15]

    Bibliografia

    Associazioni varie - progetto Daphne “Survivors speak up for their dignity - supporting victims and survivors of domestic violence, Il Potere di Cambiare. Come progettare e condurre gruppi di sostegno e auto-aiuto per donne che hanno vissuto situazioni di maltrattamento domestico., 2007/2008.
    Appelt B., Kaselitz V., Logar L., Coordinamento Wave, Via dalla violenza. Manuale per l’apertura e la gestione di un centro antiviolenza, traduzione Casa delle donne, BO, 2004, www.casadonne.it.
    Borgh M., Campanini A., Michelacci M., pubblicazione finale del progetto integrato (i0045/Rer) -Consolidamento delle Competenze e dei Servizi nei Centri antiviolenza della Regione Emilia Romagna – cofinanziato da RER e FSE (delibera G.R. n. 1156 del 05/08/06).
    Basaglia A., Lotti M.R., Misiti M., Tola V., Il silenzio e le parole. II Rapporto nazionale Rete Antiviolenza tra le città Urban-Italia. Dipartimento per i diritti e le pari opportunità Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2007.
    Casa delle donne, Violenza alle donne. Cosa è cambiato? Esperienze e saperi a confronto , Franco Angeli Editore, 1996.
    Coordinamento dei centri antiviolenza della Regione Emilia Romagna, La rete dei centri antiviolenza rafforza le buone prassi e contrasta la violenza sulle donne-I risultati e le azioni strategiche del coordinamento dei centri antiviolenza della Regione Emilia Romagna , stampa della Regione Emilia Romagna, BO, novembre 2012.
    Creazzo G., Scegliere la libertà: affrontare la violenza. Indagine ed esperienze dei Centri antiviolenza in Emilia-Romagna, Franco Angeli Editore, 2008.
    Massacesi L., 23.8.2013, I querderker il sale di ogni organizzazione, notizie@officineeinstein.eu.
    Mazzoli G., Cittadini invisibili in esodo silente dalla cittadinanza, Animazione Sociale, agosto/settembre 2010.
    Romanin A., De Concini E., et al., Strumenti di sensibilizzazione e di formazione, in: www.antiviolenzadonna.it (parte riservata agli operatori).
    Romito P., Melato M., La violenza sulle donne e sui minori. Una guida per chi lavora sul campo, Carrocci Faber, Roma, 2013.

    [1] Muglia A., Dee indù con il volto tumefatto contro la violenza domestica, Corriere della sera, 8 settembre, 2013.

    [2] Il Comitato del Parlamento Europeo sui Diritti delle donne ha raccomandato la disponibilità di un posto in un centro antiviolenza ogni 10.000 abitanti e un centro d’emergenza ogni 50.000 abitanti (Racc Ue - Expert Meeting sulla violenza contro le donne – Finlandia 8-10 novembre 1999, sugli standard dei centri).  Il Gruppo specialistico per la lotta alla violenza alle donne del Consiglio d’Europa ha invece indicato un posto ogni 7.500 abitanti [Consiglio d’Europa, Gruppo di specialisti per la lotta alla violenza alle donne 1997].

    [3] Somma N., Femminicidio. I punti deboli del Decreto,Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2013.

    [4] A cura di De Concini E., I centri si raccontano. Il lavoro e le esperienze delle case delle donne e dei centri antiviolenza dell’Emilia Romagna, Fondazione Zavatta Rimini - Regione Emilia Romagna,2007.

    [5] Mazzoli G., Cittadini invisibili in esodo silente dalla cittadinanza, Animazione Sociale, agosto/settembre 2010.

    [6] Coordinamento dei centri antiviolenza della Regione Emilia Romagna, La rete dei centri antiviolenza rafforza le buone prassi e contrasta la violenza sulle donne - I risultati e le azioni strategiche del coordinamento dei centri antiviolenza della Regione Emilia Romagna, stampa della Regione Emilia Romagna, BO, novembre 2012.

    [7] A cura di De Concini E., I centri si raccontano, op. cit., Ibidem.

    [81] Romanin A., De Concini E., et al., Strumenti di sensibilizzazione e di formazione, in: www.antiviolenzadonna.it (parte riservata agli operatori).

    [9] Ibidem.

    [10] Borghi M., Campanini A., Michelacci M. , pubblicazione finale  del progetto integrato (i0045/Rer) - Consolidamento delle Competenze e dei Servizi nei Centri antiviolenza della Regione Emilia Romagna – cofinanziato da RER e FSE (delibera G.R.  n.1156 del 05/08/06).

    [11] Romanin A., De Concini E., et al., Strumenti di sensibilizzazione e di formazione, op. cit., Ibidem.

    [12] Ibidem.

    [13] Ibidem.

    [14] Romito P., Melato M., La violenza sulle donne e sui minori. Una guida per chi lavora sul campo, Carrocci Faber, Roma, 2013.

    [15] Massacesi L., 23.8.2013, I querderker il sale di ogni organizzazione, notizie@officineeinstein.eu.

     



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