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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012

    NARRAZIONI E GENERE


    Beatrice Gusmano

    beatrice.gusmano@soc.unitn.it
    Dottoressa di Ricerca in Sociologia e Ricerca Sociale, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Trento.

    Barbara Poggio

    barbara.poggio@unitn.it
    Docente e Ricercatrice, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Trento.

    1. ESPERIENZA, MEMORIA E RIFLESSIVITA’: L’EREDITA’ DEI WOMEN’S STUDIES

    Gli studi di genere rappresentano un terreno particolarmente fecondo per l’approccio narrativo nelle sue diverse articolazioni. L’interesse nei confronti delle narrazioni è in realtà già un elemento centrale e distintivo della letteratura femminista e dei women’s studies, prima ancora che degli studi di genere, e all’interno di questi filoni di studio sono in effetti emersi alcuni rilevanti spunti per il dibattito sulla conoscenza narrativa (Gherardi e Poggio 2007a).

    L’attenzione per le narrazioni da parte di questo filone di studi nasce probabilmente dalla critica che la letteratura femminista sviluppa nei confronti del sapere razionale e di modelli epistemologici fondati sul paradigma dell’oggettività, che tendono a cancellare la dimensione esperienzale (Stivers 1993). Le metodologie femministe (Cook e Fonow 1986, Harding 1987) si sono infatti ben presto caratterizzate per l’attenzione rivolta alla problematizzazione dei processi di conoscenza e di conduzione della ricerca scientifica, di cui viene messa in evidenza la dimensione di costruzione sociale e quindi anche il carattere inevitabilmente gendered. La pretesa di separare l’oggetto e il soggetto della ricerca è stata interpretata alla luce di quello stesso ordine dicotomico, che distingue tra pubblico e privato e tra maschile e femminile, e secondo il quale le esperienze personali non sono scientifiche, in quanto associate all’ambito del privato e quindi, storicamente, anche del femminile. Su tale fondamento si sarebbe di fatto sostenuta l’egemonia della maschilità nel dominio della scienza. Il ricorso alle narrazioni è stato in tal senso inteso come un’opportunità per riconciliare queste diverse dimensioni, stimolando il dinamismo della produzione di conoscenza e generando nuove visioni alternative, capaci di superare vecchi preconcetti e dicotomie (Stivers 1993).

    La narrazione viene inoltre vista come un canale privilegiato per l’esercizio della riflessività, elemento centrale dell’epistemologia femminista, grazie alla sua capacità di stimolare lo sguardo retrospettivo e favorire il lavoro della memoria. Nel parlare di pensiero retrospettivo ci riferiamo a quella modalità di pensiero che viene per l’appunto agita quando, nel raccontare ciò che si è vissuto, i segni e le tracce del passato si ricompongono e acquisiscono un senso compiuto, come nel noto racconto di Karen Blixen (Cavarero 1997), in cui dalle orme lasciate sul terreno da un uomo, nel convulso lavoro di una notte, la mattina dopo è possibile scorgere l’immagine di una cicogna. Attraverso il narrare, dunque, il pensiero si fa riflessivo e consente di dare forma a quanto era indistinto, riappropriandosi così della propria storia.

    Un esempio di traduzione in pratica dell’attenzione rivolta dai women’s studies al sapere narrativo è data dal memory work, oggetto di un volume collettivo pubblicato negli anni ’80 da un gruppo di donne tedesche, in cui venivano ricostruiti, a partire da singole esperienze, i processi sociali di costruzione della sessualità femminile (Haug et al. 1987). Questa metodologia è stata in seguito trasferita ad altri contesti, come la socializzazione delle donne al lavoro accademico o la riabilitazione delle donne vittime di abusi. L’obiettivo era quello di ricostruire dei legami tra il sé storico-culturale e le relazioni sociali, guardando al sé come prodotto storico, sociale e culturale, nella convinzione che, per poter produrre un cambiamento nel presente, bisogna partire da una attenta analisi del passato. Il narrare è dunque visto come un modo per riappropriarsi dell’esperienza, per “ri-membrare” nel senso di ricostruire un corpo “smembrato” (Brady 1990) e per ritrovare una nuova consapevolezza. Le narrazioni consentono dunque di costruire una memoria, offrendo l’occasione per una rinnovata progettualità da parte degli individui e per una più articolata capacità di interpretazione e attribuzione di senso di fronte agli eventi che incontrano.

    D’altra parte vari autrici e autori hanno evidenziato come la narrazione abbia storicamente rappresentato uno spazio di libertà e autoaffermazione per le donne, soprattutto in contesti dove più evidente era la loro asimmetria in termini di potere. Il fatto che la propensione al narrare appaia storicamente più pronunciata tra di esse è letto proprio come la conseguenza di tale squilibrio. “Ricacciate, come Penelope, nelle stanze dei telai, sin dai tempi antichi esse hanno intessuto trame per le fila del racconto” (Cavarero 1997, 73). Le donne avrebbero dunque cercato nella narrazione “la realtà di una soggettività altrimenti negata” (Jedlowski 2000, 100), una opportunità per negoziare l’“eccezionalità” del loro stato di genere (Personal Narratives Group, 1989).

    Gli studi di genere hanno mantenuto e fatto propria l’attenzione nei confronti delle narrazioni in quanto luoghi e processi di produzione e riproduzione delle differenze di genere, ma anche di decostruzione e cambiamento. Alcuni autori hanno ad esempio messo rilevato l’esistenza di modelli diversi di narrazione autobiografica tra uomini e donne, come nel caso di Freccero (1986), che ha individuato un modello maschile, lineare, caratterizzato dall’ordine, dal conflitto e dalla separazione con le figure di autorità, e un modello femminile, non lineare, più articolato e olistico; in altri casi si è messa in evidenza come le diverse pratiche narrative di uomini e donne forssero il frutto di specifici ordini di genere (Gherardi e Poggio 2007a). Quello che più in generale è possibile sostenere è che ogni narrazione esprime sempre anche una identità di genere, poiché il racconto di una storia comporta anche il posizionare l’io narrante all’interno delle categorizzazioni che le pratiche discorsive e narrative della cultura di riferimento rendono disponibili, tra cui in particolare la dicotomia maschile/femminile.

    2. QUESTIONI RILEVANTI NEL DIBATTITO SU GENERE E NARRAZIONI

    Come si è detto, all’interno degli studi di genere è dunque possibile rilevare una consistente attenzione nei confronti dell’approccio narrativo, e questo vale in particolare in relazione ad alcuni specifici ambiti tematici.

    Tra questi va certamente richiamata la relazione tra genere e cultura. Da un lato le narrazioni possono essere viste come artefatti che riflettono il background culturale di riferimento, e quindi come prodotti di specifici assetti e contesti: in tal senso sono oggetti di analisi che consentono di portare alla luce gli ordini simbolici sottostanti, i sub-testi di genere esistenti nei contesti analizzati. Dall'altro possono essere considerate come strumenti in grado di generare, mantenere, ma anche sfidare, specifici rapporti e modelli relazionali e culturali, e dunque in quanto tali possono diventare elementi di decostruzione o anche di empowerment, riflettendo il cambiamento dei modelli culturali di genere. Questo è ad esempio evidente nei lavori in cui sono prese in considerazione le narrazioni di migranti, in cui il genere diventa dunque una ulteriore lente con cui guardare al fenomeno migratorio. In queste situazioni in particolare le storie offrono a chi narra l’opportunità per posizionarsi rispetto ad un cambiamento che non è solo temporale, ma anche spaziale e culturale, per rievocare o far rivivere i modelli del passato o per affermare o rivendicare il loro abbandono, per riproporre la tradizione o per negarla (Decimo 2006, Keogh 2006, Santero 2008).

    Anche la letteratura organizzativa offre numerosi spunti in merito alla relazione tra genere, cultura e tradizione, intesa come riproduzione dei valori dominanti: le narrazioni possono ad esempio essere usate proprio come strumento per smascherare i modelli e le culture egemoni (Murgia e Poggio 2009), portando alla luce la molteplicità delle voci all’interno delle organizzazioni e decostruendo le retoriche dominanti (Boje 1995, Fournier 1998). Diversi contributi hanno infatti cercato di mettere in luce la rilevanza delle storie sia per riprodurre o sfidare gli ordini di genere dominanti nelle organizzazioni (Hanappi-Egger e Hofmann 2005, Gherardi e Poggio 2007a, Martin 2001), sia come strumento formativo per produrre cambiamenti nelle pratiche di genere individuali e organizzative (Gherardi e Poggio 2007b).

    Un secondo ambito tematico è rappresentato dalla costruzione narrativa dell’identità. La narrazione è infatti luogo privilegiato per la costruzione identitaria e questo vale certamente anche per l’identità di genere. A questo proposito particolarmente utile appare il concetto il positioning, inteso come l’elemento che mette in relazione l’atto creativo della narrazione con l’atto creativo della propria identità (Bamberg 2003), rendendo conto dell’indessicalità rispetto alla soggettività di chi parla. Le narrazioni, dunque, hanno non solo un valore epistemologico, in quanto metafore utili per la comprensione del mondo, ma rappresentano anche un valore ontologico, in quanto dimensioni attraverso le quali ci presentiamo a noi stessi e alle/agli altre/i (Cortese 1999): le narrazioni sono il veicolo attraverso cui comunichiamo la nostra esperienza, partendo dal presupposto che “esperienza è sia ciò che viviamo ogni giorno, sia la nostra capacità di rivisitarlo” (Jedlowski 2005, 204).

    Il concetto di positioning permette di far emergere alcuni aspetti che legano indissolubilmente la costruzione relazionale del genere e le narrazioni attraverso il mezzo del linguaggio, strumento attraverso cui vengono generate le storie. Il linguaggio non è semplicemente il mezzo attraverso cui descriviamo il mondo circostante, ma è un sistema di significazione che precede ogni individuo e che contribuisce alla costruzione identitaria (Derrida 1967). Un esempio concreto della stretta interdipendenza tra linguaggio e gerarchie di genere risiede nella convenzione linguistica secondo cui il maschile, nella lingua italiana, viene utilizzato a rappresentazione dell’intero genere umano, invisibilizzando di fatto il genere femminile.

    La costruzione dell’identità avviene di fatto attraverso un processo in cui ogni soggetto si posiziona nella storia tenendo conto delle pratiche discorsive che la società impone e propone. Raccontando la storia, chi narra si posiziona sia rispetto gli eventi narrati che rispetto ad altre/i attanti, in un percorso che si snoda in maniera tale da permettere al soggetto narrante di legittimare se stesso. La narrazione può, dunque, rappresentare uno strumento di sfida all’ordine di genere, inteso sia nelle articolazioni di maschile e femminile, sia nelle declinazioni legate alla normatività relazionale tra i generi e, quindi, all’identità sessuale. Questo risulta in particolare evidente all’interno delle narrazioni legate a punti di svolta significativi, a turning point che vengono a spezzare la supposta linearità in cui dovrebbe esprimersi la vita di un individuo: in una situazione di rottura, la narrazione assume l’esigenza di attribuire nuovi significati alla canonicità interrotta. Di particolare rilevanza per l’esperienza identitaria, in una prospettiva di genere, sono, ad esempio, il divorzio (Riessman 1990), il coming out (Plummer 1995) e il parto (Miller 2000). È inoltre importante notare come le varie posizioni assunte non sono statiche o immodificabili: dalle narrazioni l’identità emerge come un coacervo di alcuni sé che prendono il sopravvento rispetto ad altri, in un continuo modificarsi di posizionamenti. L’identità che emerge dalle narrazioni, per quanto in cerca di coerenza, è infatti un’identità aperta, molteplice, che lascia spazio a contraddizioni, più che a un disegno lineare del proprio sé. Il concetto di positioning si rivela, dunque, particolarmente efficace per analizzare come viene costruito il proprio sè di genere (Gherardi e Poggio 2007a), e lo stesso vale per gli altri sè di cui è composta la nostra identità e che vengono racchiusi nel concetto di intersezionalità.

    Un altro ambito in cui l’analisi delle narrazioni ha dimostrato il suo potenziale concerne proprio l’intersezionalità, costrutto con cui intendiamo l’orientamento a lavorare in una prospettiva che non si limiti a considerare l’asse delle differenze (e soprattutto delle asimmetrie) di genere, ma che tenga invece conto dell’intreccio tra diversi assi identitari e tra diverse categorie socialmente costruite (insieme al genere, ad esempio, anche l’etnia, la classe, l’età, la disabilità…). Anche nelle storie analizzate nei due contributi a seguire si rileva come le differenze di genere siano fortemente connotate a seconda dell’appartenenza a specifici gruppi e contesti (geografici, generazionali, organizzativi): nelle storie delle donne (così come in quelle degli uomini) esistono certamente dei tratti comuni e ricorrenti, ma anche notevoli differenze, di cui possiamo dar conto prestando specifica attenzione all’intersecarsi di altre dimensioni. In tal senso la narrazione rappresenta uno strumento particolarmente promettente, in quanto consente di ricostruire i diversi posizionamenti identitari degli attori sociali, evidenziandone le sovrapposizioni, ma anche i contrasti. Più che isolare le diverse variabili in gioco, l’approccio narrativo consente quindi di metterne in luce la compresenza e l’intreccio, come ben illustrato dal saggio di Elisa Bellè, in cui l’intreccio tra approccio narrativo e studi di genere trova compimento analitico attraverso le interviste narrative condotte a donne e uomini di partiti appartenenti a tradizioni politiche opposte.

    Infine, una ultima area tematica che vogliamo richiamare riguarda le narrazioni inerenti l’orientamento sessuale, soprattutto in relazione alla possibilità di far emergere le asimmetrie in termini di potere, in quanto l’oggetto di analisi appare ammantato da un “dato per scontato” e da una “naturalità” con cui si tenta di nascondere le gerarchie di legittimità implicite nella nostra società. Le storie dei soggetti non eterosessuali sono, infatti, narrazioni fondate sul lessico e sugli immaginari eteronormativi che definiscono l'esperienza omosessuale come “alterità” rispetto ad un'egemonia: ad esempio, le parole “lesbica” o “queer”, nate all'interno delle narrazioni egemoniche eterosessuali con accezione dispregiativa, sono state fatte oggetto di riappropriazione simbolica solo in un secondo momento, tramite i movimenti di rivendicazione femminista e omosessuale (Pieri 2011). L’interesse di ricerca, in tal senso, non sta tanto nel guardare alla struttura narrativa, quanto nell’analizzare il ruolo sociale delle storie (Plummer 1995): come sono prodotte, come vengono lette, le conseguenze che hanno a livello politico, sociale, relazionale. L’obiettivo è contribuire a svelare il cambiamento che viene innescato dalle narrazioni, sia a livello micro che macrosociale: le storie non sono solo delle azioni simboliche e pratiche, ma anche politiche, data la loro connessione con il potere. “Le storie sessuali vivono in questo flusso di potere. Il potere di raccontare una storia, o quello di non raccontarla, sotto le condizioni di una scelta personale, è parte del processo politico” (Plummer 1995, 26). In quest’ottica, il potere ha sia una valenza negativa di repressione, oppressione, depressione, che una valenza positiva di costruzione, creazione, costituzione. In particolare, le storie sessuali relative al coming out dipendono sia da un potere personale, dato da una valutazione positiva della propria identità sessuale, sia da un potere sociale, determinato dagli spazi e dai modi in cui si può parlare della propria identità sessuale.

    3. STRATEGIE DI RICERCA NARRATIVA IN UNA PROSPETTIVA DI GENERE

    Fare ricerca in un’ottica di genere significa privilegiare processi di ricerca capaci di promuovere una riflessione critica su come il genere è fatto e su come l’ordine di genere è creato, destabilizzando le stesse categorie alla base delle metodologie tradizionalmente usate per analizzare le differenze tra uomini e donne (Harding 1987) e tenendo presente che la ricerca è sia un processo “gendered” che un processo di produzione del genere (Bruni, Gherardi e Poggio 2005; Gherardi e Turner 1994). Analizzare le narrazioni in una prospettiva di genere dunque non implica solo confrontare i racconti prodotti da uomini e donne, ma piuttosto considerare in che modo il genere viene costruito (o sfidato) attraverso le pratiche narrative, magari anche in modo collusivo tra uomini e donne.

    Tuttavia non sempre le ricerche che hanno focalizzato l’attenzione sull’intreccio tra genere e narrazioni hanno saputo sfruttare le potenzialità che il ricorso allo strumento narrativo potrebbe offrire, ad esempio in termini di decostruzione, di individuazione di trame non canoniche e di pratiche narrative di resistenza.

    Una prospettiva volta ad analizzare la performatività e la molteplicità del genere e a evitare il rischio di riprodurre a sua volta stereotipi e diseguaglianze di genere è chiamata a sviluppare metodi e tecniche capaci di mettere in evidenza la complessità e la ricchezza dell’esperienza, attraverso il riconoscimento di una pluralità di voci e identità e facendo emergere soprattutto quelle marginali e silenziate (Poggio 2009).

    L’approccio narrativo offre diversi strumenti utili per andare in questa direzione, dalla sollecitazione di racconti in contesti etnografici, all’intervista narrativa, al laboratorio narrativo.

    L’applicazione del metodo etnografico allo studio del genere come atto performativo viene sviluppata soprattutto all’interno degli studi organizzativi (Bruni 2003). L’attenzione si focalizza in particolare su come il genere viene “fatto” all’interno dei luoghi di lavoro, e l’analisi delle pratiche narrative consente di mettere in luce le modalità di accesso, i processi di apprendimento e socializzazione, le pratiche di posizionamento reciproco, i codici simbolici che definiscono e costruiscono le maschilità e le femminilità.

    Quando le storie non sono direttamente accessibili, il ricorso all’intervista narrativa rappresenta una tecnica particolarmente efficace per stimolare e raccogliere narrazioni relative all’esperienza degli individui, e fare emergere i modi in cui le pratiche sociali dominanti sono costruite, confrontando i diversi interlocutori e i modi in cui contribuiscono a rinforzare o contrastare le pratiche egemoniche, anche in riferimento alle differenze di genere (Riessman 1990, Gherardi e Poggio 2007a).

    Una opzione ulteriore è quella dei laboratori narrativi, utilizzati all’interno di percorsi di ricerca mirati a stimolare la produzione di storie a partire da specifici stimoli testuali o visuali. Ne è un esempio quanto descritto nel contributo proposto di seguito da Ongari e Tomasi sulla centralità del processo narrativo per la costruzione identitaria di bambine e bambini, osservato dal punto di vista delle diverse forme di attaccamento infantile attivate da bambine e bambine in età prescolare. Oppure è il caso di esperienze di ricerca-azione mirate a generare punti di vista molteplici, stimolando l’analisi e la decostruzione degli assunti delle storie canoniche e incoraggiando la creazione di storie alternative (Abma 2003).

    Una ulteriore strada, ancora poco battuta, ma certo molto promettente è quella dell’analisi narrativa associata all’uso di strumenti visuali, come nel caso delle tecniche partecipative, che partono dai significati elicitati dai soggetti, al fine di decostruire le narrazioni di genere dominanti e fare emergere le narrazioni alternative, “resistenti” e oscurate (Faccioli 2007, Levy e Soldà 2009).

    4. PROSPETTIVE DI SVILUPPO

    La contaminazione tra studi di genere e ricerca narrativa ha già una storia piuttosto ricca, e trasversale a diversi campi disciplinari, ma gli spazi per ulteriori sviluppi sono certamente ampi.

    Come si è detto le narrazioni sono luoghi privilegiati per analizzare l’intreccio del genere con altre categorie identitarie, tanto più all’interno di contesti sociali, come gli attuali, caratterizzati da crescenti processi di frammentazione e di differenziazione. E’ quanto ad esempio è stato fatto in alcuni recenti lavori che hanno analizzato l’impatto di genere della precarietà lavorativa sull’esperienza dei giovani, (Murgia 2010), questione che potrebbe essere ulteriormente esplorata e sviluppata, magari anche tenendo conto di altre dimensioni emergenti (come ad esempio la tecnologia e i nuovi spazi di narrazione oggi disponibili, quali i blog e i social network).

    Un altro ambito in cui il ricorso alle narrazioni si è rivelato proficuo e potrebbe offrire altri spazi di approfondimento è quello relativo allo studio delle pratiche e degli ordini egemonici di genere, anche attraverso l’analisi di situazioni eccezionali e di pratiche di resistenza. Prendere in considerazione i racconti relativi a situazioni non convenzionali all’interno di specifici contesti (ad esempio le storie di donne in lavori e organizzazioni tradizionalmente maschili o, viceversa, di uomini che si dedicano alla cura dei figli…) consente infatti di far emergere l’esistenza di specifici ordini simbolici e di modelli egemonici di maschilità e femminilità, veicolati da narrazioni dominanti, ma anche di pratiche non canoniche. Il ricorso alle narrazioni, se viste come strumenti di produzione di scenari “al congiuntivo” (Bruner 1990), può senza dubbio avere un valore emancipatorio, consentendo appunto di delineare trame e copioni alternativi. Un contesto di applicazione di questo approccio potrebbe essere quello scolastico, in cui i modelli narrativi più diffusi hanno profonde responsabilità nei termini della riproduzione di rapporti di genere asimmetrici così come di relazioni sessuali normative e un loro attento ripensamento potrebbe dunque avere ricadute particolarmente importanti e positive (Hyde e Jafee 2000). O ancora può rivelarsi interessante fare emergere le declinazioni che i modelli di maschilità e femminilità assumono in contesti organizzativi storicamente maschili come i partiti politici. In uno dei contributi che seguono Elisa Bellè propone, a questo proposito, un’interessante lettura intergenere e intragenere del posizionamento che emerge dalle narrazioni di donne e uomini impegnati in diversi partiti, portando alla luce dinamiche generazionali che possono modificare o riprodurre le tradizionali traiettorie previste.

    Un ulteriore spazio di sviluppo degli approcci narrativi, in relazione agli studi di genere, ma non solo, è dato dalla possibilità di individuare percorsi di ricerca non convenzionali, identificando diverse tipologie di stimolo, adottando varie tecniche di raccolta delle storie e combinando differenti strategie di analisi. Il contributo proposto da Barbara Ongari e Francesca Tomasi, finalizzato ad analizzare le differenze di genere nelle storie di attaccamento in famiglia raccontate da bambine e bambini in età prescolare, prevede ad esempio la manipolazione di pupazzi per mettere in scena delle storie che dovranno poi essere completate, l’utilizzo della videoregistrazione, la codifica di specifiche dimensioni narrative (legate sia ai contenuti che al processo narrativo) e l’affiancamento di tecniche qualitative e quantitative.

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