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  • La somatizzazione della precarietà
    Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.2 Maggio-Agosto 2011

    CORPI DI KNOWLEDGE WORKERS FORZATAMENTE A DISPOSIZIONE


    Emilia Armano

    emi_armano@yahoo.it
    Dottore di ricerca in Sociologia economica. Partecipa alle attività di ricerca del Dipartimento Studi del Lavoro e del Welfare dell’Università Statate di Milano. I suoi interessi riguardano i nuovi diritti nella società dell’informazione, i modelli di welfare state, la flessibilità e la precarietà nel mondo del lavoro. Ha collaborato con Romano Alquati e Sergio Bologna, pionieri della ricerca sociologica in Italia. Ha pubblicato diversi saggi in Italia e in Germania sui temi della soggettività e del lavoro.

    Annalisa Murgia

    annalisa.murgia@unitn.it
    Dottore di ricerca in Sociologia e Ricerca Sociale. I suoi attuali interessi di studio e ricerca riguardano principalmente le tematiche della precarietà e delle differenze di genere nei percorsi professionali. È docente del Master in Politiche di genere nel mondo del lavoro e del corso di Introduzione al mondo del lavoro presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Trento. Ha recentemente pubblicato “Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale. Biografie in transito tra lavoro e non lavoro” (Odoya, 2010) e “Interventi organizzativi e politiche di genere” (con Barbara Poggio e Maura De Bon, Carocci, 2010).

    Introduzione [1]

    Nel contesto di analisi delle condizioni di lavoro nell’era della conoscenza e delle tecnologie digitali, il nostro contributo vuole mettere l’attenzione sulle rappresentazioni dei/lle knowledge workers sulla progressiva ridefinizione dell’esperienza corporea, in direzione della perdita di rapporto con il corpo concreto, a favore di un corpo astrattamente inteso. Il discorso si colloca nella logica del “capitalismo tecno-nichilista”, inteso come “un sistema che, sfruttando la sistematica separazione tra le funzioni e i significati, si è progressivamente affermato quale modello di riferimento nel corso degli ultimi decenni” (Magatti, 2009: 1).

    La domanda di ricerca che ci poniamo in questo contributo è: in qual modo la precarizzazione del lavoro modifica le percezioni dei soggetti, e nello specifico dei lavoratori e delle lavoratrici della conoscenza, nella relazione con il proprio corpo? Nel discutere tale questione, intendiamo concentrarci non solo sugli effetti, ma anche sui processi e sulle relazioni sociali in cui i soggetti – e in varie forme anche le loro esperienze corporee – sono coinvolte.

    Nell'ormai celebre saggio “The corrosion of character” (1998) Richard Sennett ha messo in luce le conseguenze del lavoro nel nuovo capitalismo sulle personalità individuali, ma in qual modo possiamo raccontare anche la “corrosione” dei corpi? Se l'“essere corpi a disposizione” riguarda tutti i lavoratori e le lavoratrici che svolgono occupazioni temporanee e/o task oriented e che devono essere sempre pronti/e a un nuovo incarico, come riuscire ad interpretare la somatizzazione della precarietà non solo dei singoli, ma in termini collettivi? E, soprattutto, a partire dalle auto-rappresentazioni, come si può far sì che l’attitudine critica e le pratiche sociali ci consentano di riappropriarci socialmente del corpo che ci è stato sottratto?

    Corpi che (s)compaiono nel lavoro de-spazializzato

    In tutti i paesi a capitalismo avanzato si assiste ad una riconfigurazione delle strutture produttive e sociali (Boltanski, Chiapello, 1999), in contesti in cui le tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno fortemente contribuito allo sviluppo di nuove forme di organizzazione del lavoro e alla commistione di ambiti precedentemente nettamente separati: tempi di lavoro e tempi di vita, spazi professionali e spazi privati, attività di produzione e di riproduzione. Questi processi, in Italia, come altrove, sono stati da un lato accelerati dal sopravvento della cosiddetta economia della conoscenza (Rullani, 2004), che richiede ai soggetti un alto livello di capacità di tipo linguistico e comunicativo (Lazzarato, 1997; Marazzi, 1994; Virno 2001), e dall'altro sono stati veicolati dalle tecnologie mobili, dal contenuto connettivo e ubiquitario. La rete e la e-mail non si collocano, infatti, né in uno spazio pubblico, né in uno privato, così come né in uno spazio solamente tecnologico, né in uno solamente di relazioni interpersonali. Il lavoro si è in questo senso riterritorializzato in uno spazio intermedio (Alquati, Pentenero, Wessberg, 1994; Armano, 2010), sradicato, de-fisicizzato, dove non ci sono corpi e contatti vis à vis, ma solo immaginari e rappresentazioni di esperienze. Nel cosiddetto regime di accumulazione flessibile (Harvey, 1990) i soggetti corporei sono sempre più sradicati da ambienti, luoghi e territori e connessi tra loro astrattamente dalla tecnologia mobile. Si tratta dello spazio vissuto quotidianamente dai/lle precari/e della conoscenza – il “cognitariato” – definito da Bifo Berardi (2001) come il proletariato del lavoro cognitivo, sottoposto ad una massiccia intensificazione del lavoro che ridefinisce la relazione con i corpi, oltre che le relazioni sociali e la materialità. Emerge in questo quadro l’aspetto estraniante della condizione precaria. O meglio l’estraneità dei corpi nella condizione precaria. Il “corpo proprio” – per quanto sia difficile definire che cosa sia un corpo proprio dal momento che dal punto di vista antropologico il corpo naturale, proprio, non esiste, essendo noi animali culturali e sociali – il “corpo proprio” ci diventa in un certo qual modo alieno, sovrastato dal corpo simulato, estraneo al sentire del soggetto e ai suoi tempi di vita, vissuto, interpretato e re-interpretato nel passaggio infinito tra pubblico e privato, tra palcoscenico e quinte.

    Con uno sguardo etnografico potremmo infatti dire che c’è una sorta di palcoscenico nel quale i/le precari/e della conoscenza collocano e simulano un corpo immaginario, impeccabile, efficiente, perfetto, scattante, sempre disponibile a rispondere a ciò che gli viene richiesto. Accanto a questo palcoscenico si affianca una realtà dietro le quinte del lavoro nel quale l’apporto lavorativo effettivo si situa nella disponibilità forzata (Marazzi, 1994), nell’informalità delle competenze relazionali, nell’“esserci sempre”, nel “prendersi cura”, nel saper “essere intercambiabili” (Morini, 2010) nell’indistinzione tra tempo di vita e di lavoro, dell’indistinguibilità dei limiti e dei confini tra casa e luogo di lavoro, tra giorno e notte, e soprattutto, tra dimensione relazionale personale e rapporto professionale di lavoro (la cosiddetta domestication di cui ci parla Sergio Bologna, 1997: 16-23).

    Contesto della ricerca e metodologia

    Con l’intento di riflettere intorno a tali questioni presenteremo alcuni risultati provenienti da due ricerche sul campo condotte in provincia di Torino e in provincia di Trento (Armano, 2010; Murgia, 2010) tra il 2006 e il 2008. Nello specifico la nostra discussione si basa sull’analisi di 60 interviste in profondità, realizzate con donne e uomini all'interno di numerose filiere del lavoro della conoscenza: dall’informatica alle produzioni web e video, alla ricerca, alle attività artistiche e culturali, ai servizi qualificati di consulenza, fino alla pubblica amministrazione. Le storie raccolte ci parlano di nuove soggettività del lavoro; la maggior parte di esse sono state realizzate prevalentemente durante alcuni significativi “eventi” nei due contesti oggetto di indagine: Virtuality, Linux Day, Artissima, Festival del Cinema [2], Festival dell'Economia.

    In termini metodologici, l’utilizzo di un approccio biografico e narrativo ci ha consentito di comprendere i vissuti dei/lle precari/e della conoscenza che abbiamo intervistato, a partire dai significati attribuiti soggettivamente alle proprie esperienze lavorative, e dai diversi modi in cui la precarizzazione incide sugli aspetti materiali, sociali e simbolici del lavoro della conoscenza. L’analisi delle interviste ci ha infatti restituito un quadro d'insieme della dimensione dell’attraversamento dei singoli vissuti e dei rapporti che i soggetti hanno costruito con il loro mondo sociale (Schütze, 1987). Da questo punto di vista, le narrazioni si configurano come uno strumento adatto per rompere il quadro paradigmatico dei tradizionali studi sul lavoro, dove si procede facendo del lavoro e dei/lle lavoratori/trici degli oggetti di analisi e studio, anziché farli parlare in prima persona. Il focus non è quindi rendere conto pienamente dei “fatti” e delle trasformazioni in atto nel mercato del lavoro contemporaneo, ma guardare alle narrazioni come pratica che consenta alle soggettività di attivarsi (Bermani, 2010; De Lorenzis, 2010) attraverso il processo dell’interpretazione e della significazione e di elaborare nuove rappresentazioni del lavoro e delle condizioni di vita.

    Rappresentazioni del corpo tra scena e retroscena nel lavoro della conoscenza

    In questa sezione, nell'intento di fornire un contributo puntuale, organizzeremo la discussione delle interviste che abbiamo realizzato intorno a cinque parole chiave (Montaldi, 1961), cinque “concetti” ricavati induttivamente dalle categorie implicite contenute nelle narrazioni (Bertaux, 2005), parole chiave a nostro avviso capaci di cogliere alcuni aspetti rilevanti, aspetti – spesso sfumati e talvolta contraddittori – che contraddistinguono l'esperienza dei soggetti corporei – in termini sia materiali che simbolici.

    Le parole chiave: 1) Forzatamente a disposizione; 2) Essere sradicati/e dai luoghi e astrattamente connessi/e dalla tecnologia mobile; 3) Se le persone si appassionano i corpi workaholic sono messi a valore; 4) Narrazioni e immagini di corpi simulati e estranei; 5) …e di corpi indisponibili.

    1. Forzatamente a disposizione

    Sottoposti al ricatto di poter accedere o meno alla possibilità di lavorare e alla minaccia della reversibilità e della retrocessione sociale, i/le precari/e esperiscono la condizione di dover “esserci sempre” ed essere sempre a disposizione. Sono le competenze relazionali, discorsive e “femminili”, il “prendersi cura”, il saper “essere intercambiabili” che vengono messe in produzione.

    «Ci sono periodi in cui ti offrono più lavori, siccome tu sai che non sempre ci sarà questa opportunità, è comunque importante che tu sia anche disponibile, perché insomma, devi stare sul mercato. Perché uscire dal mercato del precariato, poi vuol dire che rientrare è più difficile, perché non ci sei solo tu, c’è un sacco di gente, almeno che tu non sia il più bravo di tutti quanti. Però ne trovano di gente, a bizzeffe, che ti possa sostituire. Uno dei giochi è anche quello comunque di essere disponibile e di essere sempre presente». [Gaia_38 anni_Consulente organizzativa per l'Azienda sanitaria_Trento] [3]

    «…Maledetto telefonino! ero reperibile praticamente sempre… riesco a liberarmi di questa lucetta maledetta, […] maledetta perché il lavoro, lì, era sempre rispondere al telefono e schizzare a destra e a sinistra. Era molto, molto impegnativo» [Catia_30 anni_ Fotografa free lance_Torino]

    «Gli orari sono abbastanza fissi, perché alla fine rispetto quelli che sono gli orari d’ufficio della *** (ente pubblico), anche se, avendo una collaborazione, in teoria potrei gestirmi come voglio. Al mattino dalle otto e mezza, fai conto, fino alle quattro e mezza. Io di solito mi fermo di più, fino alle cinque e mezza, sei. Oggi poi sono andata in palestra per esempio, son tornata ho mangiato e adesso sono qui con te, altrimenti mi sarei rimessa al computer. Ci sono dei periodi che devi stare fino a mezzanotte, perché c’è la scadenza e devi fare le cose. Ci sono i periodi in cui sei oberata, ti dividi tra progetti, quindi dividere il tempo su tre cose…». [Rossana_33 anni_Ricercatrice in un istituto privato_Trento]

    Dagli stralci di intervista emerge con chiarezza la condizione di disponibilità forzata e di differenziazione esperita tipicamente dai/lle cognitari/e, a differenza dei/lle loro colleghi/e con contratti stabili. Mentre gli “altri” timbrano il cartellino e alle 16, al termine dell’orario, escono dall'ufficio, il tempo di chi lavora attraverso collaborazioni non ha limiti. Ciò che sembra essere costante, a prescindere dal settore lavorativo e del contesto geografico, è l’importanza di mostrarsi sempre disponibili nei confronti del datore di lavoro e di ogni eventuale occasione di lavoro retribuito. Come già sottolineato, infatti, il lavoro contemporaneo si trasforma progressivamente in un lavoro di relazione (Marazzi, 1994). Disponibilità, autonomia, reperibilità, sono concetti che, nei nuovi discorsi dominanti, regolano i comportamenti e chiedono a certi individui e gruppi di rendersi sempre disponibili quando l’economia lo richiede.

    La disponibilità forzata, anche in termini di presenza fisica, ha dei risvolti interessanti anche sui corpi dei precari che popolano il mondo del lavoro della conoscenza. Infatti, se da un lato i nuovi impieghi corrispondono a occupazioni fragili, spesso a tempo parziale, dall'altro emergono situazioni di “superlavoro” (Castel, 2002), che paiono progressivamente moltiplicarsi e diventare più frequenti per chi lavora in modo intermittente, a cui è costantemente richiesto un lavoro “stra-ordinario”, sia in termini di carico e di tempo sia, in diversi casi, per il fatto di svolgere più lavori in contemporanea, nell’arco della stessa giornata o della settimana (Murgia, 2010).

    «Ti faccio un esempio, ci è arrivato un grosso lavoro sei mesi fa, di una multinazionale processato da un’altra multinazionale, e tu non sei una multinazionale. E allora dovevi trovare il modo di lavorare o sedici ore, diciotto-venti ore al giorno oppure lavorare con tre-quattro volte le persone con cui lavoravi normalmente. [...] Lavoravi in quel periodo con estrema frenesia, con condizioni di lavoro, con un work flow di cui non eri responsabile, se non per un piccolo step, però, lì, dovevi dare tutto, in quei quindici giorni dovevi processare una quantità di parole che era impressionante. Finite quelle, finito il lavoro». [Diego_43 anni_Traduttore freelance e Co-partecipante a società di traduzione_Torino]

    «Un po’ troppo qua il lavoro e allora ci sono giorni che vado a casa alle 10, alle 9, ti fai 12 ore lavorative, 13… Però ho due tipi di giornata: giornata in cui lavoro al museo, giornata in cui lavoro sia al museo che a scuola. A scuola devo essere lì alle 8 e mezza, perciò arrivo lì alle 8, prendo il treno da *** (paese in provincia di Trento), vado a *** (nome della scuola), faccio le mie 2, 3, 4 ore, quello che c’è, dopo di solito sono qua al museo alle 11, 11 e mezza, 10, secondo quante ore faccio là. Arrivo qua, si impizza il PC e inizio a vedere le varie richieste che ci sono. Ci sono sempre 3000 cose, mangi, ricominci, sino a quando non hai finito. Dopo prendi il treno e torni a casa, ultimamente cucini e dopo niente, divano, letto». [Alessandro_30 anni_Operatore museale e Tecnico nelle scuole superiori_Trento]

    La disponibilità forzata non riguarda dunque esclusivamente la presenza fisica, ma anche il progressivo consumo e logoramento dei corpi esposti ad un continuo lavoro “stra-ordinario”, spesso peraltro associato ad un forte investimento formativo, emotivo e motivazionale che le attività e i lavori della conoscenza talvolta – come vedremo in seguito – comportano e mettono a valore.

    2. Essere sradicati/e dai luoghi e astrattamente connessi/e dalla tecnologia mobile

    Nelle descrizioni del lavoro della conoscenza, il corpo può diventare un attributo astratto del lavoro, indifferente, perlomeno così appare rispetto al processo e al risultato di produzione, certo non per il soggetto che ha bisogno anche solo del riposo, ad esempio. Il lavoro mobile quando viene remunerato a risultato si misura con le nuove modalità di comunicazione connaturate al mezzo digitale che portano con sé la completa saturazione dei tempi che diventano privi di limiti. E il rapporto del corpo con il tempo può alterarsi dilatandosi nella interazione differita della comunicazione digitale e accelerarsi senza controllo.

    «È vero che chi non ha il cartellino e può lavorare da casa è libero di prendere i figli e un martedì di giugno andare a Gardaland, però è vero che tu dopo cena sai benissimo che devi rimetterti a lavorare. Cioè, non avere orari è veramente una, una schiavitù. Io sento sempre questa sensazione di dover continuamente andare avanti, di dover continuamente tirare la carretta. È una sensazione molto spiacevole ecco, è l’insicurezza dovuta al fatto che non sai mai quando devi, quando puoi staccare». [Enrico_40 anni_ Storico in un ente di ricerca pubblico_Trento]

    Chi lavora con un contratto a progetto, co.co.co. o partita IVA, come nel caso delle persone che abbiamo intervistato, svolge un’attività in larga parte immateriale e di tipo cognitivo, che potenzialmente può essere svolta in qualsiasi luogo e momento della giornata. In questo senso i tempi di lavoro e quelli dedicati alla propria vita privata si intrecciano tra loro fino a confondersi e i ritmi di vita e di lavoro tendono ad unificarsi, facendo perdere di vista le linee di confine. Qui i corpi sono sradicati e riconnessi, sradicati in quanto fisicamente dislocati in molti luoghi fisici, riconnessi nella misura in cui il lavoro e le relazioni di lavoro si incontrano riposizionati nel territorio della rete (Armano, 2010). L’ambivalenza della condizione del lavoro nell’era digitale sta nel fatto che, contemporaneamente, il lavoro della conoscenza attraverso la tecnologia mobile appare liberatorio, fornendo ulteriori gradi di libertà legati alla potenza delle tecnologie digitali e all’universalità e univocità dei linguaggi che consentono l’espansione della comunicazione al di là dei vincoli di tempo e di spazio.

    «Tutto via mail. Ci sono situazioni abbastanza curiose dove non sono mai andato. Ci sono stati contatti telefonici per la Stampa di Milano, ho conosciuto una redattrice che mi ha detto “scrivi delle cose” e poi lì ho conosciuto un’altra redattrice e ho continuato a collaborare, senza mai andare appunto fisicamente alla sede della Mondadori». [Gianni_30 anni_Giornalista web freelance_Torino]

    «La rete la utilizziamo in una maniera molto intensa, anzitutto non abbiamo un ufficio fisico, una segreteria, e cerchiamo di non averlo […] Lo scambio di documenti è tutto via mail, molto spesso si manda un’offerta tramite e-mail, si ottiene un ordine tramite e-mail o fax, si invia una fattura tramite e-mail, questo oramai è abbastanza acquisito anche qui in Italia, questo proprio negli ultimi anni, tipo quest’ultimo anno. Mi ricordo che prima andavo in posta con i francobolli a spedire le fatture, adesso molti accettano la fattura tramite e-mail con .pdf e se la stampano» [Alberto_40 anni, Co-titolare software house_Torino]

    I corpi messi al lavoro non hanno un luogo fisico comune, dove interagire faccia a faccia. L’interazione umana nei lavori della conoscenza è spesso mediata dalla tecnologia digitale e questa modalità è divenuta così abituale da apparirci scontata, ovvia e “naturale”. È persino difficile renderci conto di come spontaneamente essa rimodelli l’interazione umana e le sottragga-riformuli l’esperienza corporea. Nella comunicazione via mail a cui si fa riferimento negli ultimi stralci di intervista la funzione del linguaggio sembra essere di tipo neutro e informativo. Il linguaggio, che in questo caso è linguaggio CMC (Computer Mediated Communication) ci appare come un semplice veicolo tecnico che informa, cioè trasmette i contenuti da un parlante a un ascoltatore. Anche il linguaggio naturale, che distinguiamo come linguaggio F2F (face to face) fa questo: ma non è la sua caratteristica principale. Nella comunicazione face to face la trasmissione del messaggio avviene in un ambiente “ricco” e “caldo”: abbiamo il contesto, l’espressione emotiva, il poterci guardare, magari in viso, il suono, l’ascolto della voce, la simultaneità, tutti elementi di grande fisicità e corporeità che entrano vivamente nel messaggio e che invece perdiamo totalmente nel linguaggio della comunicazione digitale dei media di prima generazione: univoco, asettico, uniforme, astratto, impersonale. Il corpo è ridotto a potente immaginario e rappresentazione.

    Proprio a fronte di questi limiti, si sono sviluppati successivamente i nuovi media di ultima generazione (web 3.0, social network quali Facebook e molti altri) che consentono di mettere a disposizione ed espropriare (Formenti, 2011) anche i contenuti emotivi e di forte interattività della comunicazione umana. Nel social network le persone – che lavorino o meno – mettono infatti a disposizione gratuitamente affetti, sensazioni, legami personali, intimità, amicizie, esperienze e conoscenze in comune, nuove forme di cooperazione spontanea, commons immateriali, insomma il mondo vivo della reciprocità che il capitale usa e di cui si appropria, codificandolo e riterritorializzandolo ancora una volta nella rete. Ricordiamo che ciò che ci appare come piacevole salotto e luogo di informale, libera e amichevole conversazione, è anche e principalmente una piattaforma web tecnologica; non a caso per partecipare con il proprio profilo a un social network si firma un vero e proprio contratto di cessione delle informazioni e delle immagini immesse. Di nuovo abbiamo riterritorializzazione, sradicamento dai luoghi fisici e connessione.

    3. Se le persone si appassionano i corpi workaholic sono messi a valore

    Nelle narrazioni, oltre alla disponibilità forzata dei corpi imposta dai tempi esterni di consegna del lavoro, emerge il peculiare fenomeno dell’immedesimazione dei soggetti nell’attività che svolgono: la convinzione, per talune attività ricche di senso, di svolgere qualcosa di bello, importante e per se stessi. I corpi allora sono sottoposti a forme duplici di stress (auto-stress?) e auto-sfruttamento; corpi che nell’iper-identificazione workaholic (Robinson, 1998) sono volontariamente e allo stesso tempo forzatamente in produzione.

    «È molto interessante, è un cosa in divenire. La cosa forse più stimolante che c’è perché si trovano sempre aspetti nuovi per poter applicare le cose che si studiano […] Penso che se uno lo fa con piacere, è la cosa più importante, se uno lo fa con piacere, è contento e stimolato da quello che fa, fare due ore-cinque ore in più non pesano. Fare due ore in più o anche un minuto in più di una cosa che non piace sicuramente pesa da morire [...] Io entro qua in ufficio alle otto e esco più o meno alle sei e mezza, togliamo l’ora di pausa, sono dieci ore di lavoro al giorno più o meno, dal lunedì al venerdì […] Poi può capitare il sabato, anche alla domenica, quello non ti saprei dire». [Fabio_29 anni_ Assegnista di ricerca al politecnico di Torino]

    «Era bello perché quando traducevo per i quotidiani era molto stressante perché in due giorni dovevi tradurre dei testi complessi e anche molto lunghi, a volte, e sapevi che ti leggevano tre- quattrocentomila persone e quindi di una certa responsabilità, però dava anche soddisfazione, insomma. [...] Soprattutto per questo, perché per altri versi no, sono momenti di grande crescita quando traduci un libro di storia e di filosofia del diritto che devi penetrare completamente il linguaggio, l’ambiente in cui il libro è calato, è proprio molto, molto bello, ti si aprono anche dei mondi, conosci delle persone che ti possono aiutare, con cui scambiare delle idee». [Diego_43 anni_Traduttore freelance e Co-partecipante a società di traduzione_Torino]

    «Ritengo che lavoro e vita privata per me siano la stessa identica cosa. Cioè voglio dire, vorrei che il lavoro diventasse la stessa vita quotidiana, nel senso che è un lavoro molto dinamico, non è un lavoro di routine, continua a cambiare, le cose che hai da fare sono tantissime, diversissime, sei in contatto con tantissima gente e quindi non hai una giornata che è uguale all’altra. Quindi per me il lavoro diventa anche la quotidianità. Io comunque la maggior parte del mio tempo libero la dedico sempre comunque al mio lavoro. Di tempo libero alla fine non te ne rimane, nonostante la scusa di avere un lavoro autonomo è quella di dire “Mi gestisco il tempo libero come voglio io”…». [Roberta_33 anni_Architetta nella pubblica amministrazione_Trento]

    Una via di fuga diffusa o di spontanea compensazione è costituita dal lavorare per propri progetti, una pratica e una forma mentis incentrate su immedesimazione e autonomia: il nuovo ésprit du capitalisme secondo Boltanski e Chiappello (1999). Lavoratori dipendenti e autonomi, partite IVA e contratti atipici, dottorandi e docenti precari, stagiste di un’organizzazione di eventi raccontano che si stanno innamorando del “proprio progetto”. Nella auto-attivazione “felice” (Formenti, 2011) lo sforzo a cui si sottopone il corpo, per quanto sia “scelto” dal soggetto, è uno sforzo di elevato stress anche perché molto spesso tra i precari della conoscenza convivono nella stessa persona impegni svolti per remunerazione e mera sopravvivenza economica con impegni lavorativi svolti - anche gratuitamente - tesi prevalentemente alla realizzazione personale, vissuti come momenti espressivi, liberatori e di gratificazione. L’effetto complessivo è quello di accumulo e di sovraccarico sui corpi anche se i significati che si assegnano ai due sforzi e momenti sono del tutto differenti.

    Sarebbe poi interessante indagare approfonditamente su queste “altre” attività, in che misura effettivamente esse consentano di realizzare finalità espressive e quanto invece siano a loro volta sottoposte rigidamente ai format comunicativi dominanti e/o brutalmente vincolate alle logiche di mercato e dunque siano fonte di illusione oltre che di auto-sfruttamento. Ma questo è un altro discorso.

    4. Narrazioni e immagini di corpi simulati e estranei

    Nel mondo industriale, di fronte all’intensificazione dei ritmi, non c’era bisogno di nascondere la fatica e la stanchezza. Il soggetto nel capitalismo tecno-nichilista deve invece saper rielaborare soggettivamente come proporre (e riproporre in continuazione) l’immagine impeccabile del suo corpo pubblico al lavoro.

    «A me hanno chiesto prima di rinnovare il contratto: “Sì, ma te come ti senti?” ...capito? Perché sapevano che ero stata male, quindi sono anche costretta a fare: “Yea! Benissimo!”. Per avere il lavoro, comunque devi dare un’immagine… di efficienza, perché se sembri ammalata, allora evitano a priori di prenderti». [Noemi_37 anni_Consulente della Pubblica Amministrazione_Trento]

    «Poi ti chiamano magari il giorno prima e non è che puoi dire no. La disponibilità è totale, cellulare sempre acceso, devi essere sempre sorridente, mai indisponente, deve sempre andare tutto bene, disponibile. E questo è l’altro aspetto negativo, se c’è qualche aspetto che non ti va, ti deve andar bene». [Patrizia_27 anni_Promotrice software _Torino]

    «Ci sono delle volte che ho delle consegne alle dieci di mattina di mercoledì ed ero stato sveglio dalla domenica su di un computer, poi magari dormo due giorni di fila […] Dormo con il cellulare acceso, però i clienti ti chiamano. Se mi chiamano cerco di far finta di essere sveglio e gli rispondo. Poi mi appunto cosa mi hanno detto, dormo e poi mi rileggo cosa mi hanno detto perché se no mi dimentico rigorosamente. Così. Però, ti dirò che è un modello che funziona». [Claudio_32 anni_Web designer_Torino]

    La paura di un mercato del lavoro che è feroce, che ha tempi rapidissimi, e che se sbagli ti esclude, ti costringe a reagire simulando un’immagine e un corpo che è solo un simulacro corrispondente e indistinguibile al corpo immaginario richiesto dal mercato. Dentro la vetrinizzazione del sociale (Codeluppi, 2007; 2008), la spettacolarizzazione della merce, dei processi lavorativi e del consumo che fa credere che tutto sia possibile, l’aspetto estraniante della condizione precaria sta nel fatto che l’immagine impeccabile del proprio corpo è una simulazione e non corrisponde a come il soggetto vive e sente. Il corpo simulato è un estraneo, una maschera necessaria per la sopravvivenza lavorativa? Come riporta riflessivamente e ironicamente una degli intervistati, la finzione però funziona nel gioco contingente della costruzione sociale. Il comportamento rituale genera l’apparenza perfetta, l’illusione istantanea, attesa e desiderata dal cliente. Oppure richiesta dal datore di lavoro, il quale può richiedere ai precari della conoscenza non solo un corpo costantemente sano, meglio se eternamente giovane, e che non mostra i segni della fatica, ma anche un corpo che sa rendersi invisibile quando occorre.

    «Dovevo essere presente in ufficio, però non dovevo figurare. Mi è stato detto di cancellare qualsiasi traccia della mia presenza. Sì, perché comunque essendo una co.co.co., con specificato che non vengono utilizzati i luoghi dell’ente dove lavoro, mi è stato detto che né sulle cartelle presenti in computer, né in qualsiasi modo deve rimanere la mia traccia. Mi è stato anche detto che nel momento in cui dovesse venire un controllo, io devo dire che sono passata a trovare un’amica e la cosa assurda è che formalmente, a parte sentirsi un clandestino in un ufficio, formalmente c’è una segreteria organizzativa che non si sa dove sia, abbiamo un numero di telefono ma è il mio ologramma che risponde, è una situazione assurda. Infatti per telefono o comunque sulle e-mail, quando chiedono della dottoressa ***, sono un effetto della fantasia catartica dei mezzi di comunicazione moderni». [Simona_31 anni_Organizzatrice di eventi culturali nella Pubblica Amministrazione_Trento]

    Si parla di un corpo flessibile, disciplinato; gli si chiede di adattarsi docilmente alle richieste a tal punto da saper diventare persino invisibile. E tuttavia l’umiliazione di colui/lei che deve sapere quando e come rendersi invisibile non è a nostro avviso riducibile agli aspetti contrattuali come appare a prima impressione nel caso dell’intervista in oggetto. Infatti, nelle filiere del lavoro della conoscenza è frequente che ai/lle precari/e si richieda di partecipare alle attività con tutte le loro capacità, conoscenze, mettendoci l’anima e contemporaneamente nella presentazione dei progetti il loro nome scompaia improvvisamente dai testi e dai lavori che hanno realizzato privandoli di riconoscimento pubblico e negando loro lo spazio urbano. Tipica di questa modalità di sottrazione della dignità e del corpo è la figura del ghost writer nell’attività di ricerca e o dell’autore-ombra nelle filiere creative a cui si chiede persino di non presenziare nel caso di eventi. È il signor nessuno, l’invisibile, ma, pur essendo “invisibile”, è sempre meglio non si presenti proprio perché potrebbe essere alquanto “imbarazzante” se qualcuno lo “vedesse”.

    5. …e di corpi indisponibili

    Nelle rappresentazioni dei soggetti con cui abbiamo realizzato le ricerche qui descritte si parla di corpi che vengono richiesti e pretesi come sempre efficienti, perfetti, scattanti, eternamente giovani e “disponibili” al lavoro e solo a quello, senza essere attraversati da altre situazioni biografiche (quindi non malati, non incinta, senza vincoli familiari, abitativi o addirittura geografici, ecc.). Ma cosa accade quando i corpi non riescono – o non vogliono – essere “a disposizione”? In qual modo – ad esempio – viene esperito un evento di malattia o maternità da soggetti a cui non viene garantita – de iure o de facto – alcuna forma di protezione sociale?

    «Io ho avuto una bimba, la mia prima bimba, e ho lavorato fino all’una di notte del giorno che ho partorito, nel senso che sapevo che il mattino entravo in ospedale alle sette perché avevo finito i termini e dovevo partorire, quindi mi ricoveravano d’ufficio. Dopo un’ora che avevo partorito o poco più, ho detto al mio compagno cosa andare a dire il giorno dopo in ufficio perché questi potessero continuare il lavoro. E appena rientrata a casa, ho fatto cinque giorni di maternità, più o meno lavorando da casa. Non mi potevo permettere di non esserci, io non ero dipendente, quindi di maternità non se ne parlava, e l’anno successivo ho lavorato sempre con una fatica e un peso pesantissimo, proprio una stanchezza da arrivare all’oberazione più totale». [Sara_38 anni_Coordinatrice di percorsi di formazione_Trento]

    «Avevo un posto con un co.co.co, poi in aprile mi hanno telefonato dall’ospedale di *** dove ero andata a farmi visitare, mi hanno detto che se volevo si era liberato un posto il 2 aprile. Siccome dovevo fare un trapianto di cartilagine e avevo un male pazzesco ho detto “Bene, accetto, pazienza, vediamo cosa succede”. E invece di pagarmi la malattia o comunque tenermi lì, mi hanno fatto firmare la carta delle dimissioni, che è assolutamente fuori da ogni logica, e soprattutto dalla legalità. Comunque l’ho firmata, perché quando sei in quelle condizioni lì, e dici “tra un po’ mi ritroverò a cercare lavoro, è meglio se la firmo la carta delle dimissioni”…». [Manuela_41 anni_Consulente per la Pubblica Amministrazione_Trento]

    «…per forza devo accettare anche condizioni che non sono giuste, soprattutto se uno si ammala non è coperto, se uno perde dei giorni di lavoro per malattia diciamo che è un problema vero e quindi bisogna stare in salute e sperare di stare sempre in salute» [Frank_40 anni_Traduttore e insegnante di lingue_Torino]

    La parola chiave corpi indisponibili ci mostra un punto di collisione: ci sono situazioni – peraltro talvolta desiderate e/o fisiologiche – nelle quali la simulazione dei corpi perfetti può essere impossibile e/o può non essere desiderabile. Sono allora i corpi stessi che pongono limiti e potenziali forme pratiche di resistenza, anche quando i soggetti non intendono consapevolmente attuarle. Si tratta di narrazioni di condizioni limite, che ci si ritrova ad esperire spesso individualmente. Ci interessano però per aprire un discorso intorno a quali altre condizioni tali pratiche di resistenza possano attivarsi e generalizzarsi.

    Discussione e conclusioni

    Nell’ambito dell’economia della conoscenza si sono diffuse nuove forme di lavoro caratterizzate da alto contenuto cognitivo, emotivo, relazionale, elevato grado di precarietà contrattuale, contingent e task oriented commitment e situate in un contesto organizzativo strutturato dall’uso delle tecnologie digitali.

    La nostra analisi ha indagato sul nesso tra nuove forme di lavoro, precarietà ed esperienze corporee messe a valore incentrandosi particolarmente su come mutano i modi di relazionarsi con il proprio corpo nel quadro dei processi di trasformazione sociale del capitalismo tecno-nichilista, quindi non limitandoci strettamente al tema degli effetti.

    Secondo Magatti (2009) i dispositivi del capitalismo tecno-nichilista definiscono un immaginario sociale che rischia di arrivare fino al punto di distruggere “l'unità psichica e corporea dell'individuo” (p. 21).

    L’analisi del contenuto riferita a un campione significativo di narrazioni biografiche e storie di vita di lavoratori e lavoratrici della conoscenza appartenenti a diverse filiere produttive, ci ha consentito di mettere in evidenza alcune parole chiave (Montaldi, 1961) capaci di descrivere il fenomeno della precarietà e della corrosione dei corpi. Disponibilità forzata, ricatto, mobilità, dispositivi di controllo, “passione” e individualizzazione sono le più frequenti che abbiamo incontrato e che abbiamo cercato di indagare. La precarietà dei corpi nel lavoro della conoscenza ci è apparsa rappresentata e sperimentata attraverso una pluralità di forme, le più evidenti riguardano l’intensificazione legata all’immedesimazione e all’interiorizzazione degli obiettivi, le esperienze dei corpi workaholic, dei corpi che si sottopongono “volontariamente” allo stress, felici di autosfruttarsi. Vi sono poi corpi che subiscono l’umiliazione di doversi rendere invisibili alla vita lavorativa pubblica. Non mancano forme più sottili di alienazione con la simulazione dell’immagine di corpi perfetti su un palcoscenico pubblico che faticano a riconnettersi con i retroscena della vita lavorativa. Siamo di fronte a un insieme di nuove fragilità che si compongono di deprivazione (forzata e “volontaria”) dei diritti, a corpi espropriati di un proprio tempo interiore e di un proprio spazio di esistenza.

    Le rappresentazioni soggettive si declinano in maniera differente, si accentuano, si distorcono, divergono in relazione a varie situazioni quali l’attività, la mansione, la condizione contrattuale, l’età e il genere delle persone che abbiamo intervistato, la filiera di produzione e i gradi di autonomia nell’attività svolta.

    I dispositivi di ricatto e di messa a disposizione forzata dei corpi si presentano principalmente nei contratti temporanei e nelle esperienze di multiattività. La condizione workaholic è frequente nelle filiere di attività dal contenuto più creativo, nei lavori task oriented e a progetto. Nelle fasi non ancora adulte della vita si preferiscono attività ricche di senso con un forte grado di immedesimazione e socialità. Le condizioni sociali di provenienza e il reddito, nel lungo periodo, giocano ancora un ruolo selettivo tra chi ha la possibilità di scegliere l’attività nella quale impegnarsi e chi si sperimenta come corpo a disposizione. Le donne ci appaiono le più soggette a mettere a valore capacità, affetti e saperi relazionali e corporei. La simulazione dei corpi e la riterritorializzazione veicolate dalle tecnologie mobili paiono essere una sorta di denominatore comune, una costante che accompagna la precarietà delle esperienze al di là delle diverse tonalità.

    Sono queste solo alcune delle evidenze. Non siamo però di fronte a modelli interpretativi biunivoci; nulla esclude la compresenza di alcune di queste rappresentazioni in altri segmenti. Nella formazione della soggettività le rappresentazioni infatti si intrecciano inestricabilmente alle condizioni sociali.

    Nel nostro lavoro di ricerca oltre a proporci di descrivere in profondità alcune di queste rappresentazioni ci siamo chieste attraverso quali percorsi e pratiche sociali l’attitudine critica, l’impegno, ci consentano di riappropriarci socialmente del corpo che ci è così sottratto. Quindi il nostro contributo ha voluto fornire, da una parte, una descrizione riflessiva della soggettività corporea, dell'esperienza di affaticamento/logoramento/adesione/estraneità/ dei corpi a fronte di un'aspettativa di corpi perfetti; dall'altra, ha inteso sollecitare una riflessione sulla necessità e sulle modalità di riappropriazione sociale del corpo. Come è possibile la riappropriazione dei corpi quando si ha l’immedesimazione dei soggetti nel lavoro e dunque la disponibilità “volontaria” illimitata dei corpi per la produzione? Di quale corpo parliamo? Di corpo sociale o di corpo individuale? Anche il corpo individuale al lavoro sembra infatti essere definito a sua volta dai modelli culturali dominanti. Come può sottrarsi allora una intera generazione di corpi dall’essere docile, disciplinata e magari nell’illusione di vivere nella migliore delle realtà possibili? Come, oltre alla mera empatia e al rispecchiamento, potrà scattare anche un senso di ragione pratica condivisa? Nell’era postfordista della de-procedimentalizzazione e della tecnologia mobile occorre pensare a come riconnettere e risocializzare le persone impresizzate e i corpi individualizzati per immaginare pratiche sociali e nuove forme di rappresentanza e coalizione (Bologna, Banfi, 2011). Occorre pensare l’auto-rappresentazione dei soggetti come primo passo verso l’auto-tutela in una condizione di orizzonte aperto delle traiettorie lavorative e sociali.

    Note

    1] Il presente articolo è il frutto di riflessioni condivise tra le due autrici, i cui nomi appaiono in ordine alfabetico. Se, tuttavia, dovesse essere attribuita responsabilità individuale, Emiliana Armano ha scritto il paragrafo 1, le parole chiave 2, 3, 4 e le Conclusioni; Annalisa Murgia ha scritto l’Introduzione, il paragrafo 2, 3 e le parole chiave 1 e 5.
    2] Le interviste realizzate a Torino sono accessibili per nuove e ulteriori interpretazioni, in libero download alla pagina web.
    3] Per tutelare l’anonimato degli/lle intervistati/e abbiamo sostituito i loro nomi, così come quelli di coloro cui fanno riferimento nella narrazione, con nomi di fantasia. Per ogni stralcio di intervista abbiamo inoltre riportato l’età, l'attività lavorativa svolta al momento dell'intervista e il contesto provinciale di riferimento.

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