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  • La lettura di sé e dell'altro
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.1 Gennaio-Aprile 2011

    NIETZSCHE E L’ENIGMA DELL'IDENTITÀ, LA PIÙ DIFFICILE DELLE SCOPERTE

    Il corpo lente, il corpo testo

    Roberta Cavicchioli

    robertacavi@yahoo.it
    Storica delle idee e antropologa; Dottorato di Ricerca in Filosofia - Storia del Pensiero Politico, Università degli Studi di Genova; Laurea Specialistica in “Antropologia Culturale e Etnologia”, Università degli Studi di Genova; Diploma di Laurea in Filosofia, Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Genova.

    «Poche nozioni sono tanto inflazionate. L’identità è diventata oggi uno slogan brandito come un totem o ripetuto in maniera compulsiva come un’evidenza che sembrerebbe aver risolto proprio ciò che risulta problematico: il suo contenuto, i suoi limiti, la sua stessa possibilità. La sua estensione e la sua proliferazione sono tali che essa è in grado di caratterizzare tanto un’affermazione religiosa, sociale, nazionale, regionale, familiare, professionale o generica ( i gruppi di uomini, di giovani, di omosessuali), (…) Quindi in questo sacco ci vengono ficcate un mucchio di cose disparate: il “me”, ma anche il “noi”, il noi qui, il noi là, ma anche il “noialtri”, francesi, europei...»
    F. Laplantine, Identità e Métissage. Umani al di là delle appartenenze, Elèuthera, Milano, 2004, p.15

    Identità o le corps du litige, tale poteva essere il titolo dell'ennesimo articolo di maniera che, ancora una volta, chiama in causa Friedrich Nietzsche per attribuirgli la paternità di un pensiero scomodo o di una brillante intuizione. Mi sono chiesta se rinunciare al vantaggio di un titolo accattivante e, vinta la prima esitazione, ho preferito fornire al lettore un'indicazione eloquente circa il mio punto di vista: la cifra dell'opera nietzschiana non è il conflitto, ma la dolorosa urgenza di una liberazione attraverso una conoscenza di sé che trascenda le piccole vanità e le certezze meschine. Una conoscenza sempre provvisoria che si acquisisce recuperando il gusto e l'azzardo della scoperta – Nietzsche invita il suo lettore ad accostarsi alla realtà come ad una terra da esplorare e cartografare, ad abbandonare i pregiudizi del senso comune per esporsi al rischio di un sapere sovversivo che ha a che fare con l'identità, la grande questione che lo interrogherà per tutta l'esistenza.

    Per continuare a muoverci in questa metafora, il corpus nietzschiano può essere letto come un diario di viaggio in cui si alternano le fasi di esaltazione e disillusione caratteristiche della grande impresa, si mettono in discussione le coordinate, si affronta la separazione dai numerosi compagni di viaggio. A dispetto di una sorprendente facilità nel narrare, nel raccontare e raccontarsi dell'uomo – Nietzsche l'autobiografismo non si chiude in un'autoreferenzialità intimistica: nelle osservazioni di colui che si definisce via, via come il “sofferente”, “il malato”, “il medico” si anima un mondo complesso, ricco di articolazioni e di significati propri. Ecco, allora, che si compongono il piacere irriflesso dell'avventura, la curiosità per il mondo della vita e la necessità di descriverlo rigorosamente, senza tralasciare alcun aspetto – e si incontrano l'esploratore e l'uomo di studi.

    Da buon filologo, conduce la sua analisi, mettendo alla prova gli strumenti con cui avrebbe lavorato alla ridefinizione dell'identità: ha immediatamente compreso che sarebbero stati inadeguati al compito, se non mendaci e fuorvianti. Si trattava, allora, di rigettare qualunque definizione essenzialista e fissista, di sbarazzarsi degli stereotipi identitari che funzionavano come uno schermo per l'auto-rappresentazione di una società nichilista e di una cultura decadente. Approntare nuovi strumenti di lavoro significava disattivare le categorie culturali che ordinavano il rapporto dell'individuo con il suo fantomatico sé, entrare nell'ottica di una ricerca incessante e senza quartiere. Una ricerca forsennata, parossistica, che si dispiega ovunque stia la vita e solo nella vita incontra l'uomo; il vivente è il grande libro che Nietzsche percorre per cercare le risposte che scompaginano l'ordine delle identità prodotte dall'introiezione dei dispositivi di potere. E proprio in virtù di questa scelta metodologica che si volge al corpo, il testo più frequentato dal Nostro nella sua meticolosa opera esegetica, quello che dice il vero e dice delle nostre convinzioni, degli usi, delle norme sociali; un corpo alienato, cui la genealogia indica la strada del tradimento, nella sua accezione deleuziana, di una fedeltà a se stessi che è anzitutto una consonanza, una disposizione alla vita.

    Chiave di una catena di enigmi che ci interrogano sul nostro rapporto con la realtà, con l'esistenza, con la coscienza, il corpo è anche il fulcro della narrazione nietzschiana: punto di contatto e cerniera con una realtà che favoleggia e si nega, la corporeità, intesa come metonimica del vivente, squarcia il velo sull'invenzione dei dispositivi di negazione normalizzante dei bisogni. Nella trama della narrazione la corporeità cessa di essere silente e trova il suo riscatto: c'è di più, perché, in un singolare ribaltamento di prospettiva, la dimensione istintuale indica la direzione da seguire – avvia un percorso di riconoscimento e di riappropriazione dei bisogni, dell'emotività, dell'extra-razionale, così profondamente umani. Il riferimento alla corporeità è fondamentale nella definizione delle identità individuali e collettive, poiché afferma la pluralità delle esistenze e delle situazioni, proprio nel senso dell'essere situati, del trovarsi in una specifica condizione, nel dover coincidere con lo spazio definito da un corpo cui ci sforzeremo di somigliare. Il corpo è la lente attraverso cui filtriamo la realtà, ci misuriamo con gli altri, ci formiamo un’idea provvisoria di noi e degli altri. D'altro canto, il corpo è un testo, un testo che si arricchisce e trasforma mentre attraversiamo la nostra vicenda biografica; un testo che, con maggiore facilità rispetto al passato, possiamo interpretare, personalizzare, correggere [1].

    Facendone il baricentro della sua riflessione morale ed epistemologica, Friedrich Nietzsche ha reintegrato il corpo fra gli oggetti di conoscenza e ha mostrato la profondità della ferita. Non solo, grazie al suo ribaltamento di prospettiva, ha posto le premesse per concepire l'identità personale in termini dinamici, per porla in continuità e in relazione con un mondo non desertificato da una ragione mortifera che difende il proprio primato, negando la pienezza della vita. Il tributo reso all'istintualità e alla sfera dei bisogni si innesta in una teoria antropologica che interpreta l'evoluzione umana alla luce della resistenza opposta dal corpo all'ambiente – un cammino doloroso, altamente conflittuale e contraddittorio, quello in cui, con le mutate caratteristiche fisiche, si è forgiata la coscienza che la specie ha di sé.

    È vero, si tratta anche e soprattutto di una narrazione, perché l'autore descrive il faticoso emergere di una soggettività fatalmente monca, racconta e si racconta nella favola di un mondo falso, alternando il registro della poesia o dell'epigramma a quello del suo epistolario in cui, con eguale decisione, esplora il rapporto del singolo con le due dimensioni del corpo e della mente, dell'autenticità e della distorsione, della verità e della menzogna. Nell'ambivalenza del suo racconto che attrae e respinge, afferma e nega, rivivono l'ambivalenza e l'ambiguità della condizione umana, in cui nessuna certezza è definitiva.

    Ambiguità che si rivelano nel radicamento del sé in un corpo che viene riabilitato, o piuttosto nobilitato e innalzato a fenomeno morale, da una fisiologia pericolosamente in odore di metafisica, in cui persino le pulsioni vengono intellettualizzate. Sembra che le incursioni di Nietzsche negli ambiti più disparati- l’estetica, la politica, la fisiologia, finiscano col convergere in un medesimo punto: intendono disegnare l'anatomia di un'umanità nuda, o per meglio dire, spogliata di quell'abito intessuto di veti e frustrazioni che la intossica come la mitica vesta di Deianira. Notoriamente, quest’abito avvelenato che impedisce all'umanità qualsiasi movimento salutare e la intrappola in una languida attesa dell'aldilà o della realtà immaginata da filosofi e letterati è la civilizzazione, che tutte le scienze celebrano come il massimo obiettivo per il genere umano. È altrettanto noto come le grandi istituzioni del sapere e del potere siano annoverate fra le funeste tessitrici intente a confezionarne modelli più costringenti.

    In largo anticipo rispetto ai tentativi di un Novecento alla ricerca di un'identità, quest'autore, insuperato per la sua lucidità tagliente, si interroga sulle condizioni di produzione del sé entro la società, consapevole che le possibilità di squarciare il velo sulle costruzioni culturali che ciascuno considera come il nucleo più profondo del proprio essere, la propria “pelle” sono esigue e pesantemente compromesse dalla duplice negazione del mondo circostante e della propria appartenenza a questo. Se non è pensabile proporre semplicemente un “percorso a ritroso”, perché l'imposizione di una moralità malintesa avrebbe prodotto la sovrastruttura della coscienza che, lungi dall'esprimere l'unicità dell’individuo, ne determinerebbe l'annichilimento e cancellerebbe, con i tratti ferini, la vitalità, la gioia, la creatività: si rende necessaria un'indagine più approfondita. La genealogia è per molti versi un'istruttoria in cui si raccolgono e si articolano gli indizi del sé, ci si mette sulle tracce della vittima e dell'assassino, concentrandosi sull'unico elemento inconfutabile: il corpo. Il corpo è l'oggetto della contesa, le corps du litige, in cui si imbattono i paladini dell'identità ferita, l'ingombrante cadavere di cui gli spiritualisti vogliono liberarsi, ciò che i materialisti vogliono riscattare. Fondamentale per il buon esito dell'istruttoria è la capacità di porre gli eventi nella corretta prospettiva, di ordinarli e passarli in rassegna fino a descrivere un contesto in cui ogni elemento acquisisce un senso posizionale e contingente. L'inquirente è ancora l'esploratore che non si lascia ingannare dalla disarmante trasparenza del corpo, «il fenomeno del corpo è il più ricco, chiaro e comprensibile dei fenomeni: gli si deve riconoscere il primo posto sul piano del metodo, senza nulla stabilire circa il suo ultimo significato» [2]. In questa significativa anticipazione, un'indicazione metodologica forte che sarà raccolta con oltre un secolo di ritardo, perché i frutti della provocazione lanciata da Nietzsche verranno raccolti solo grazie all’incontro fecondo con l’etnologia ed altre discipline che sdoganeranno il tema della corporeità [3]. E, merita di osservare, come, ironia della sorte, saranno proprio il narcisismo delle liberal-democrazie e i riprovevoli “istinti democratici dell’anima moderna” a restituire al corpo la sua centralità.

    La narrazione resta volontariamente sospesa tra i registri della filosofia morale, della sociologia della cultura, delle scienze biologiche, nell'intento di spostare i confini fra naturale e culturale, fra spontaneo e artefatto, di sbigottire il lettore scuotendo le fondamenta delle sue verità. Gli autori che verranno associati a Nietzsche nella fortunata definizione di “Scuola del Sospetto”, Marx e Freud, promuovendo l'uno una politicizzazione dei bisogni, l'altro una complicata geografia delle corrispondenze di psiche e soma, concorreranno a modificare l'immagine della corporeità, senza però riconoscerne l'enorme potenziale euristico. Nell'opera di Niezsche viene posta con forza il tema dell’antinomia fra essere e soggetto, che sarà poi oggetto delle sperimentazioni di Foucault, Deleuze, Braudillard e Derrida per arrestarci all'area culturale francofona. L'attenzione posta su questa dialettica permette a diverse tradizioni filosofiche di confrontarsi su di uno stesso terreno, e di affrontare la sfida lanciata da altri saperi capaci di porre in una prospettiva continuista il genere umano e le altre forme di vita. Ciò è possibile solo a partire da una reintegrazione del somatico tra gli oggetti di conoscenza. In tal senso, il fiorire degli studi post-nietzschiani e il moltiplicarsi degli esegeti animati da intenti militanti, fra la metà degli anni Settanta corrisponde ad un preciso posizionamento nella polemica antiplatonica sulla questione della verità, una verità che non si situerebbe solo nell’ordine del discorso, ma troverebbe espressione e radicamento nel corpo. Un radicamento che, come si accennava in apertura, non è esente da contraddizioni e ombre, perché affida la liberazione al dominio, l’unità alla violenza, l’affermazione dell’identità alla restaurazione delle gerarchie naturali.

    Inteso a riaffermare il sodalizio fra la filosofia e la vita, il monito agli asceti, ai mandarini, ai custodi della verità dell’anima non cela la sua carica distruttiva: «Agli spregiatori del corpo voglio dire la mia parola. Non debbono imparare e insegnare l’opposto di quello che hanno imparato e insegnato finora, bensì dire addio al proprio – e quindi ammutolire.» [4] Debbono quindi ammutolire e tacere per sempre, perché la creazione di un nuovo sistema di valori non ammette pietà per quanto è stato detto e pensato prima. All’anatema degli sconfitti il profeta Zarathustra risponde con il sarcasmo: «C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza… Chissà cosa se ne fa il corpo della tua migliore saggezza?». Secondo Didier Franck, quel corpo di cui già si intuiva la funzione di cerniera fra i differenti ordini di conoscenza, acquisisce la sua funzione di elemento unificatore solo a seguito della composizione dello Zarathustra: non può esservi alcuna previa comprensione del somatico al di fuori della dottrina dell’eterno ritorno [5]. Comprendiamo, allora, dove il corpo dovrà portarci: al centro dell’enigma che costringerà l’Oltre-uomo ad assumere su si sé il peso di un’eternità negata dalla cultura della rinuncia. La transvalutazione dei valori, riaffermando la verità del divenire, creerà un corpo affrancato dalle pulsioni reattive che qualificano l’attuale rapporto dell’uomo con il mondo; l'enigma si scioglie nell'indicare la direzione verso la quale l'umanità dovrebbe muovere [6].

    Si impone, però, una precisazione filologica circa la nozione di corpo nel pensiero nietzschiano: se è vero che in Nietzsche si è scoperto un assiduo frequentatore degli studi fisiologici e biologici del tempo, sarebbe arduo negare che la sua rappresentazione del vivente non sia percorsa da un forte vitalismo. L’immaginario superomistico disegna uno scenario in cui un conflitto assume connotazioni morali; l’esito della competizione per la vita non è incerto o aleatorio; la traccia del nemico vinto e incorporato continua a combattere. La vita inneggia al vigore del forte, laddove un concetto di forza fortemente antropomorfizzato definisce il valore delle cose; merito di Gilles Deleuze è di aver rilevato come il valore dei fenomeni risieda ne “la gerarchia delle forze che si esprimono nelle cose in quanto fenomeno complesso”, restituendo all'opera nietzschiana la sua reale vocazione: l'azzardo, l'autosuperamento, la trasvalutazione. La formulazione del concetto di volontà di potenza molto deve alla teoria di Wilhelm Roux sull’autonomia e la contrapposizione delle parti, che strutturerebbero l’organismo in una continua rinegoziazione degli equilibri [7].

    Non diversamente dai migliori esponenti dell’intellighentzia coeva, Nietzsche stenta a discostarsi da una visione antropomorfica e metafisica della natura, appena svecchiata dal linguaggio della moderna biologia dell’evoluzione. In tal senso, non sembra peregrina l’ipotesi di Barbara Stiegler, che si spinge ad affermare che il somatocentrismo nietzschiano operi una negazione della dimensione corporea tanto più forte, quanto più tenta di comporvi le istanze della realtà, finendo coll’imporre una mistica del biologico [8].

    E tuttavia, sarebbe ingeneroso attribuire a Nietzsche un appiattimento su uno scientismo misticheggiante in cui l'autore sembra piuttosto individuare un grimaldello per spezzare i vessilli di uno spiritualismo di diverso colore. Sappiamo che la contestata lettura di Gilles Deleuze deplora la focalizzazione dei critici sull'interpretazione politica dell'evoluzione e dell'eterno ritorno, cristallizzati in volontà di potenza. Quando Nietzsche invita a definire il corpo in termini sistemici, intende ricomporre la frattura con il mondo del divenire, il regno del vivente cui l’uomo appartiene, fare di questa sorta di liberazione la scelta che anticipa la “grande scelta” dell’Eterno ritorno, in cui l’individuo torna a collocare il senso nell’immanenza e fa della ripetizione l’atto di disvelamento di un mondo artefatto [9]. È una liberazione da mondo che presume di essere quello vero, rispetto al “mondo immediato” del divenire, presume di contenere il vero senso del mondo diveniente, la soluzione dei problemi di questo mondo, e quindi la sua positività, tutto l’essere che manca a questo mondo [10].

    Per comprendere cosa sia il mondo “vero” bisogna, allora, volgersi all’eternità, ricercarne la traccia nel qui ed ora del corpo, «il fatto più complesso del mondo, il supremo caso», chi ha avuto la visione dell’Eterno ritorno lo ripete incessantemente. Il corpo è ancora allusivo di una tensione, perché nel suo essere ananché esprime la necessità di scegliere ciò che si è, di dare compimento alla propria natura; nel suo essere fatum viene restituito alla sua sacralità, recupera il suo aspetto di profezia. Klossowski è fra i primi a rilevare come nell’assunzione del carattere necessario dell’esistenza, nel fatum, risieda una delle possibili soluzioni per l’enigma: «Volete un nome per questo mondo?, un nome che sia la soluzione di tutti gli enigmi? Questo mondo è la volontà di potenza e nient’altro! La volontà di potenza è la soluzione di ogni enigma del mondo; ossia è la volontà ultima. Dire sì alla vita, cioè riconoscere che il divenire è innegabile, che al di là del divenire non c’è nient’altro- sì che il divenire è attorniato dal nulla come dal suo confine» [11]. Il continuo spostamento fra il preteso mondo reale e il mondo negato del divenire sarebbe, per l'acclarato interprete, la cifra per comprendere la patologia culturale del soggetto inchiodato in una finzione che non serba alcuna saggezza tragica o sapere. Corre, qui, l'obbligo di una precisazione, perché il nietzschiano “dire sì alla vita”, si colloca in una dimensione di abbandono fatalistico, in virtù della quale si iscrive nella logica di anaché. Il costruzionismo di un ritorno alla natura che pretenda di interpretarne le legge alla luce di una qualche convinzione morale, rilancia con un delirio di potere e di controllo. Tale è la premessa del violento attacco sferrato allo stoicismo: «Volete vivere “secondo natura”? O nobili stoici, che inganno verbale! Immaginatevi un essere come la natura, dissipatrice senza misura, indifferente senza misura, senza intenzioni e riguardi, senza pietà e giustizia, fertile e deserta e incerta al contempo, immaginatevi l’indifferenza stessa fatta potere: come potreste vivere secondo tale indifferenza? Vivere non è appunto un voler-essere-altro da quel che è questa natura? Vivere non è forse valutare, preferire, essere ingiusti, essere limitati, voler essere diversi? E posto che il vostro imperativo “vivere secondo natura” in fondo significhi “vivere secondo la vita”, come potreste non farlo? A che scopo trasformare in principio ciò che voi stessi siete e dovete essere?» [12]

    In Aurora Nietzsche si è lungamente scagliato contro i misfatti dell’ascesi, mostrando come questa morale captiva, abbia lentamente logorato ed esaurito le energie del corpo, manipolandone la struttura e volgendo contro l’uomo la sua naturale vitalità. Segno di una decadenza che aveva già compromesso la salute dei popoli guerrieri, l’esaltazione della rinuncia di matrice stoica veicola follia, decadenza e disgusto per la vita connaturato nel suo appello al dolore: “Ovunque è stata dominante la dottrina della pura spiritualità, essa ha distrutto con le sue aberrazioni l’energia nervosa: insegnò a tenere in dispregio il corpo, a trascurarlo o a tormentarlo, e a tormentare e spregiare l’uomo stesso, a cagione di tutti gli istinti di quello; essa creò anime ottenebrate, cariche di tensione e oppresse, le quali, per di più, credevano di conoscere la causa del loro senso di abiezione e di poterla forse eliminare – deve risiedere nel corpo! Questo è sempre ancora troppo fiorente! – così concludevano, mentre in realtà il corpo, con i suoi dolori, elevava proteste su proteste contro la continua irrisione…” [13]

    Anche la filosofia, si chiede Nietzsche ne La gaia scienza, è forse un’interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo, una reazione della malattia: “un inconsapevole travestimento di fisiologiche necessità sotto il mantello dell’obiettivo, dell’ideale...”. Tutta la morale è stata costruita in base a fraintendimenti della condizione corporea, in base a sintomi di determinati corpi deboli, malati, che richiedevano determinate norme e leggi per proteggersi, per difendersi, per sopravvivere. Si deve pertanto costruire un “io” più onesto che riconosca le ragioni del corpo.

    E così il sequere naturam è fatto oggetto di una violenta parodia, di un attacco che mira a smascherarne le intenzioni fraudolente, il nocumento e la mistificazione di un progetto che indica la via di un ritorno a se stessi, proprio attraverso una sorta di pedagogia del disprezzo del corpo, che indica nel costante autosuperamento dei propri limiti biologici e nella negazione dell'istintualità la suprema virtù. Dalla parodia alla provocazione, quando Nietzsche ribadisce come la virtù, il perfezionamento consista piuttosto nella capacità di apprendere attraverso il corpo, nell'ambivalenza di quel corpo che è dispositivo con il quale si entra in contatto con la realtà, ed è l’oggetto, inserito in quel continuum di oggetti definibile quale realtà, che guardiamo incessantemente. A dire che è proprio l'indocilità del corpo, la sua riluttanza a piegarsi alla misura, che possiamo trovare utili indicazioni per decifrare le costruzioni di un'umanità poco devota alla ragione, agitata da passioni altrimenti inspiegabili - «Grazie alla semibarbarie che è nel nostro corpo e desiderio, noi abbiamo accesso segreti per ogni dove, quali un’epoca nobile non ha posseduti, soprattutto gli accessi al labirinto delle civiltà incompiute e a ogni semibarbarie che sia mai esistita sulla terra; e in quanto la parte più ragguardevole della civiltà è stata finora la semibarbarie significa quasi il senso di tutto.» [14]

    La straordinaria ricchezza del corpo risiede nella sua capacità di rivelarci cosa sia, di istigarci all'incontro con quelle istanze caotiche ha costruiscono la nostra identità personale e collettiva. Manchevole e desiderante, il corpo conosce la debolezza, la fatica, il limite ma, per restare nel paradosso tanto caro a Nietzsche, è la coscienza di tale limite che ci traghetta verso più ardui traguardi. Una saggezza tragica rispetto a ciò che l'uomo è, una conoscenza che rinvia al supremo degli enigmi, quello che ci interroga sul mistero della nostra provenienza e della nostra destinazione. La costruzione di un'identità passa attraverso la presa in carico dell'angoscia che tale interrogativo non cessa di suscitare, si compie nel perpetuarsi della domanda di senso.

    Merito indiscusso di Nietzsche è di non aver fatto concessione alcuna alle rappresentazioni stereotipiche dell'umano, e di aver mostrato come “leggere l’altro, anche quell’altro che è in noi stessi, per confrontarsi con l’enigma dell’esistenza” sia possibile solo nell'incontro di scienza e poesia, nella pluralità dei discorsi e dei saperi sull'uomo. Maestro nell'arte di narrare, quest'animo intrepido di esploratore ha saputo produrre una salubre contaminazione di generi letterari e registri, od onta delle rigidità disciplinari, e con la generosità di chi non teme di esporsi in prima persona. In tal senso, il suo invito ad abbandonare un approccio mortifero e reificante alla vita, è una forma di introspezione e di auto-conoscenza, un esercizio indispensabile per mantenere un rapporto con le profondità dell'essere nel percorso accidentato che ci conduce alla scoperta della nostra identità. Nell'intreccio di autobiografia e biografia, intesa come storia del vivente, Nietzsche apre alla possibilità che la vita non sia solo parodia e zavorra, ma fonte di un sapere da condividere e di una ricchezza esperienziale da socializzare tramite la pratica liberatoria del racconto.

    Note

    1] Ndr. A quanti fossero interessati ad approfondire questi aspetti consiglio il recente volume dell'antropologa Michela Fusaschi, che avanza una sua personale interpretazione di una tendenza alla ripoliticizzazione del corpo. Cfr. M. FUSASCHI, Corporalmente corretto, Meltemi, Roma 2009.
    2] F. NIEZSCHE; WzM, p. 489.
    3] Ndr. Merita di osservare che è principalmente nella sociologia del lavoro che il corpo fa la sua prima apparizione e il riferimento al somatico trova una sua importante legittimazione, G. Friedmann nel 1950 pubblica “Où va le travail humain”, nel 1956 “ Le travail en miettes”, in cui si pone l'accento sul corpo inteso come parte del processo produttivo.
    4] F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2002.
    5] D. FRANCK, Nietzsche et l’ombre de Dieu, Puf, Parigi 1998, p.175, «C’est après achevé Ainsi parlait Zarathustra, dont l’eternel retour est la conception fondamental, au moment d’entreprendre l’oeuvre qui, d’abord intitulée La volonté de puissance puis Transvalutaion de toutes les valeurs, aboutira à l’Antéchrist, que Niezsche assegna au corps la fonction de fil conducteur.»
    6] Ibidem, p. 400, «La création d’un corps véridique et actif, qui n’ira jamais sans une transfromation du monde dont le corps est essentiellement inséparable, puisqu’il en prend possession par voie de connaissance, requiert par conséquent de surmonter l’ontologique, c’est à dire l’essence de la connaissance technique».
    7] G. MOORE, Nietzsche, biology and methaphor, Cambridge, 2002, p. 47, «According to Nietzsche, there is not only a struggle for existence; existence is itself an incessant struggle. For the complex aggregate of wills to power which constitutes each organism, the organism itself is an expression of this battle, a means by which “the struggle desires to preserve itself, desires to grow and desires to became aware of itself”. But Nietzsche not only asserts the ubiquity of conflict; in opposition to Darwin, he denies that this struggle is primarily one of self-preservation.»
    8] B. STIEGLER, Nietzsche et sa biologie, Puf, Paris, 2001, specie p. 29, «Ou, pour le dire autrement, la corporéité que Nietzsche prête au sujet ne serait finalement qu’un plus subtil déni du corps. Croyant saisir, avec le corps vivant, ce qui se joue à la jointure de l’empirique et du transcendantal, Nietzsche n’est-il pas plutôt en train du durcir leur opposition?»
    9] G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano, 1974, «L’eterno ritorno dev’essere desiderato, non solo accettato., p.213, «La visione e l’enigma della porta con le due strade e del pastore che morde il serpe devono dunque essere letti nel senso che l’eterno ritorno dell’eguale non rappresenta solo un riconoscimento dell’insensatezza del divenire o solo la riduzione di tutta la struttura del tempo alla decisione, ma le due cose insieme; le quali, nella misura in cui sono insieme, si qualificano e modificano anche profondamente a vicenda. Da un lato, infatti, l’eterno ritorno, in quanto è istituito con un atto della volontà, non è più la pura insensatezza del divenire e dell’universale finzione, ma è la costituzione di un mondo dove il senso non trascende più l’esistenza; dall’altro, in quanto la decisione è a sua volta ricompresa nel vortice del ritornare di tutte le cose, si vede che l’istituzione di questo nuovo mondo della coincidenza di esistenza e di significato è anzitutto la creazione di un nuovo soggetto, capace di volere l’eterno ripetersi del suo presente.»
    10] E. SEVERINO, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano, 1999, p.71, Cfr. pure p.83, «Nella volontà di potenza dell’uomo, la forma primaria dell’esistente è il mondo “vero, immutabile e divino della tradizione metafisico-morale-cristiana, il quale assimila a sé il nuovo, cioè lo rende uguale al vecchio, riportandolo all’interno del regno di Dio e cancellando la sua originaria nullità, ossia cancellando il divenire.»
    11] F. NIETZSCHE, OFN, VII, III fr.38.
    12] F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, Preludio a una filosofia dell’avvenire, Acquarelli, Giunti, Prato, 2006, Dei pregiudizi dei filosofi, 9, pp.25-26.
    13] F. NIETZSCHE, Aurora, cit., p. 34.
    14] F. NIEZSCHE, Al di là del Bene e del Male, Sentenze e intermezzi, UTET, Torino, Le nostre virtù, n° 224, p. 146.

    Bibliografia

    Nietzsche, F.,
    * Al di là del Bene e del Male, Sentenze e intermezzi, UTET, Torino, Le nostre virtù, n° 224, p. 146.
    * Così parlò Zarathustra.
    * La gaia scienza.
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    Vattimo, G., Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano, 1974.

    Periodici
    Beyond Selflessness in Ethics and Inquiry
    Christopher Janaway
    The Journal of Nietzsche Studies, Issue 35/36, Spring/Autumn 2008, pp. 124-140 (Article)


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