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  • Scritture di sé in sofferenza
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.8 n.1 Gennaio-Aprile 2010

    LA SCRITTURA É TERAPEUTICA?: IL METODO AUTOBIOGRAFICO E LA COMPOSIZIONE DEL SÉ


    Nicola Ghezzani

    ghezzani.n@tiscalinet.it
    Psicologo psicoterapeuta, Presidente dell’ASIP, Associazione per lo Studio delle Iperdotazioni psichiche e delle Psicopatologie correlate (www.psyche.altervista.org).

    1. Narrazioni dell’io

    Pubblicai il mio primo libro nel 1998, dopo aver consegnato alle stampe numerosi articoli - di una certa complessità concettuale - su riviste specialistiche, lette solo da operatori del settore psicologico e delle scienze umane. Nel 98, dunque, grazie a questo mio primo libro, scoprii la gente. Il prezioso volumetto circolò poco, perché l’editore (un caro amico), di lì a breve, si suicidò. L’apparizione di quel libro tuttavia - una articolata riflessione sulla psicosi - mi convertì all’idea che la scrittura sia un bene pubblico e che, come tale, debba essere sparso come un logos, un seme del pensiero, accessibile e commentabile non solo da specialisti, ma anche da gente comune, dotata di una cultura generica.

    Due anni dopo, pubblicai un libro su un tema “caldo”: gli attacchi di panico. Il libro, anche grazie alla lungimiranza del mio editore, venne letto da molti e molti si rispecchiarono nelle storie, biografiche oltre che cliniche, con le quali lo corredai. Da allora ho pubblicato altri libri, caratterizzati tutti da un viscerale e manifesto amore per il “ritratto biografico”. Nella mia concezione della attività clinica, ogni individuo porta in se stesso la necessità di riscoprire la trama originaria, autentica, del suo vissuto, della sua storia, che nella patologia psichica risulta invasa e alterata da porzioni di caos la cui ricezione a livello mentale induce ansia, panico, smarrimento, dolore e un’infinità di sintomi il cui fine è arginare l’irruzione del disordine attraverso emozioni d’allarme, ripetizioni rituali, inibizioni intellettive, punizioni morali.

    La mente è un sistema molto complesso, ma per funzionare richiede gradi crescenti di coerenza, quindi di ordine. La coscienza, funzione emergente della mente umana, necessita non solo di coerenza, ma anche di unità: essa deve poter disporre di una percezione integrata, di una attenzione fluida ma focalizzata, di un sistema di valutazione e di valorizzazione chiaro e coerente. Se ciò non è, l’intero edificio della mente si squilibra: esso prende a funzionare secondo diversi punti focali, spesso contraddittori, punti di vista inconciliabili che insinuano la sensazione del caos, l’entità esistenziale più temuta da ogni essere umano.

    Se ascoltiamo la narrazione che di sé dà un depresso vedremo all’opera - almeno finché la persona è sofferente - tre diversi narratori, con tre diverse narrazioni, di cui le ultime due sono quelle che contano: le definisco rispettivamente narrazione mimetica, narrazione superegoica e narrazione antitetica.

    a) La narrazione mimetica

    Sta alla superficie dell’io. E’ quella immagine di sé che il soggetto difende e palesa allo scopo di considerarsi ed essere considerato a tutti gli effetti una persona normale. Questo tipo di narrazione, di scarso impatto suggestivo, regge finché la persona possiede ancora un certo equilibrio interiore. Ma quando, infine, avviene il crollo depressivo ecco che emerge la seconda narrazione.

    b) La narrazione superegoica

    Il super-io è l’identità soggettiva vista dalla parte del sistema sociale nel quale il soggetto è stato o è immerso e che egli assume come istanza di giudizio del proprio valore. La narrazione superegoica è ampia, corale e tende all’oggettività: in fondo, essa è l’autorità morale che parla dentro il soggetto. Nel caso del depresso, il narratore superegoico descrive l’io soggettivo come sciatto e banale, o come tetro e ripugnante, o ancora come gravato da inemendabili colpe. Se alla luce del primo narratore l’io merita di vivere con gli altri come un simile fra i simili, per il secondo narratore quello stesso io merita di soccombere alla denigrazione o a una radicale condanna: esso non è idoneo a stare in società o persino a vivere. Affermatasi nell’io la narrazione superegoica (propriamente depressiva), scompare come un velo di nebbia quella mimetica. In breve però a questa seconda narrazione, come per equilibrare il conto, si affianca una terza narrazione, in antitesi dialettica con quella superegoica. Certe gelide pagine di Kafka del Processo o alcuni terribili racconti come La metamorfosi o le angosciose poesie di Paul Celan o di George Trakl possono dar l’idea di cosa sia la narrazione tipica della condanna depressiva.

    c) La narrazione antitetica

    Ho affrontato questo tema nel libro Volersi male, del 2002. Nel libro ho illustrato quanto la narrazione superegoica - quella che descrive e giudica il soggetto alla luce dei valori sociali interiorizzati - possa essere distruttiva dell’io, generando per ciò stesso la sua antitesi dialettica: la narrazione antitetica, che ri-narra l’io alla luce di una radicale delusione nei confronti del mondo, di una rabbia intestina, di una sorda ribellione a quegli stessi valori interiorizzati, che decretano la condanna dell’io e la sua soggezione depressiva. Tanto la narrazione superegoica ha un tono oggettivo, quasi sacrale, tanto la narrazione antitetica ha un tono soggettivo, egoico, pieno di livore e di ribellione. Il tono può essere forte o debole, persino flebile; in ogni caso è squisitamente individuale. Per avere un’idea di questo tipo di narrazione, si prendano certe pagine dei Ricordi del sottosuolo di Dostoevskij o dei romanzi di Céline o di Bernhardt.

    Le due diverse narrazioni, superegoica e antitetica, accampano - quanto meno per inevitabili principi gestaltici - una loro intrinseca coerenza: individuano memorie, sentimenti, visioni della vita coerenti alla loro specifica narrazione, per convalidarsi e crescere a scapito dell’altra. Il problema è che si tratta di narrazioni contraddittorie; sia l’una che l’altra rendono la vita difficile quando non impossibile. Insieme generano vortici di senso contrapposti - come Scilla e Cariddi - e quindi il caos.

    d) La narrazione spontanea o narrazione dell’io

    Nel libro ho anche spiegato quanto sia fondamentale per il soggetto trovare la via mediana, passare tra Scilla e Cariddi, inventare una narrazione che dia conto del suo originario valore personale a partire da bisogni di giustizia relazionale (violata dal Super-io) e di innata creatività che impongono una nuova visione dell’io e della vita. Vorrei chiamare questa narrazione mediana narrazione spontanea o anche narrazione dell’io. Per narrazione spontanea intendo quello stile evocativo nel quale l’io ottiene il rispetto della propria identità, il riconoscimento e il riscatto di un valore personale intrinseco e, soprattutto, risolve le antinomie, le contraddizioni, i vortici caotici in cui veniva risucchiato con alterne cadenze. La serenità della distanza, la gioia della rivelazione o il vento lieve di un’epica realizzata o di una stoica indifferenza di fronte al destino caratterizzano quest’ultima narrazione. Come suggerisce Duccio Demetrio, si realizza appieno, in questi casi, “il potere maieutico dello scrivere di sé rispetto all’ampliarsi dell’autoconoscenza e della pensosità, il percepirsi talvolta in un’euforia mai provata prima, paragonabile all’eccitazione creativa che ogni artista e creativo ben conoscono, nel sorprendersi non solo dotati di capacità autobiografica ma ancor più arbitri della propria narrazione” (Demetrio, 2008, p. XI).

    Se le narrazioni precedenti sono caratterizzate dal dolore, dolore dell’io condannato e dolore dell’io umiliato e in rivolta, per contro la narrazione spontanea rimette l’io nella posizione di attore della parola, sulla base di un buon rapporto col sociale interiorizzato, anziché in quella di una sudditanza tale da generare alienazione. In questa narrazione, l’io torna ad essere (o diviene per la prima volta) nei limiti del possibile il proprietario della storia personale. Questa si rivela allora uno strumento di autoconoscenza e quindi di azione coerente (autopoiesi ed etopoiesi, dicevano i filosofi dell’antichità greco-romana). Che la narrazione sia spontanea, autentica, deve risultare dall’assenza di moventi passionali incoerenti e contraddittori, che generano alienazione dell’io e effetti autolesivi. A proposito di questo stile mi vengono in mente titoli come A se stesso di Marco Aurelio, le Confessioni di Agostino, la proustiana Ricerca del tempo perduto, e poi il ciclo autobiografico di Elias Canetti, i romanzi autobiografici di Marguerite Duras, Le parole e le cose di Sartre ecc.

    In sintesi: il disordine delle narrazioni può sopravvenire ogni qualvolta ci si trovi di fronte a eventi critici, eventi in grado di squilibrare l’assetto dell’io e precipitarlo verso soluzioni caotiche. Il dissenso tra l’io e i valori del mondo, più o meno interiorizzati o avvertiti come parassitari; il disadattamento rispetto al mondo esterno oggettivo; il sentimento di esclusione da parte di persone o gruppi di riferimento; sono tutti eventi che celano o palesano l’opposizione conflittuale dell’individuo nei confronti del suo referente sociale, il sistema sociale di riferimento più o meno interiorizzato, nei confronti del super-io. L’opposizione conflittuale genera a sua volta un rischio specifico: la condanna morale. Narrazione del giudizio negativo interiorizzato, narrazione dell’opposizione più o meno manifesta, infine narrazione della spontaneità esente da condanne, della libertà riconquistata.

    2. Mimetismo narcisistico e svelamento autobiografico

    L’uso della scrittura terapeutica nella mia attività clinica non è assiduo. Avviene solo sulla base di una richiesta diretta (e talvolta anche indiretta) da parte del paziente. Per esempio, quando mi vengono portati dei frammenti autobiografici da ascoltare o da leggere o quando mi viene fatta un’altra singolare richiesta che qui mi accingo a raccontare.

    Da quando ho pubblicato i miei libri, i miei pensieri di psicoterapeuta sono divenuti di dominio pubblico. Si tratta di pensieri trascritti per la dimensione pubblica, formalizzati e attinenti al tema clinico-scientifico, ma sono pur sempre i pensieri del terapista. Poiché alcuni miei titoli hanno avuto una certa diffusione, è accaduto che molti dei miei pazienti abbiano letto le mie storie cliniche. Alcuni di questi si sono premurati di sapere se ho mai pubblicato storie vere, corredate di nomi e cognomi. Quando mi viene fatta questa domanda, so che è in gioco un’angoscia di svelamento che devo rispettare. Mai una di queste persone, preoccupate di essere messe in pubblico, verrà descritta sulle mie pagine. Sicché dico loro la verità: che i nomi sono inventati e che i riferimenti storici e sociali sono alterati in modo tale che la persona non sia in alcun modo identificabile. Altri pazienti, invece, mi avanzano una diversa esigenza: mi chiedono che io narri per scritto la loro storia. Vogliono potersi leggere in una biografia più o meno clinica, desiderano vedersi oggettivati nel mio sguardo biografico.

    A questa richiesta un tempo rispondevo facendomi carico di una relazione clinica scritta che poi consegnavo al paziente: nella relazione mi facevo carico di effettuare un buon ritratto biografico della vita del mio paziente indagata dal suo interno. In breve, però, mi sono reso conto che una relazione di tal genere “fissa” il vissuto rendendolo immobile. E soprattutto che lo fissa secondo l’immagine che io ho di lui. Dunque, la relazione scritta - come ogni biografia autorizzata - tende a alienare l’io del soggetto biografato in un’immagina stereotipata, conforme ad aspettative sociali in senso lato, più o meno interiorizzate. A un certo punto della mia attività clinica, decisi di chiedere di fare loro stessi questo sforzo. E cominciai a fornire non solo l’ascolto, ma anche consigli su precisi espedienti tecnici.

    Come suggerito da molti psicoanalisti, da Ferenczi a Lacan, fino a Winnicott, Laing, Bowlby, Stern, Alice Miller ecc. essere visti alla luce dell’opinione altrui (vedersi nello specchio offerto dal volto del consimile) implica il rischio della dipendenza d’amore o della tirannia sociale: quindi di una alienazione che nasconde anziché svelare la radice profonda dell’io, la cifra di autenticità entro la quale costruire la propria autonomia. A simili riflessioni di carattere psicologico, valide e profonde, è sempre più necessario aggiungere - pena il recingersi in uno psicologismo di maniera - quelle di carattere storico e antropologico che, da Braudel a Duby fino a Illich e Foucault mostrano la dipendenza della soggettività dall’istituzione tout court. Dalla riflessione storico-antropologica sul rapporto fra istituzioni e soggettività nasce una domanda precisa e puntuale: dove, in quali sedi, dimorano gli scritti materiali che dall’esterno definiscono il mio io? E la risposta è: nelle amministrazioni dello Stato e, sempre più, nelle pratiche della medicina, dove poche aride righe possono fare su di me un disastro irreparabile. Una diagnosi psichiatrica che abusa del mio io fissandolo ai cardini di una arbitraria nomenclatura clinica e di un rozzo protocollo farmacologico è un documento - uno scritto - che mi aliena per sempre a me stesso, ratificando la mia definitiva perdita di potere sulla vita.

    Far da sé il proprio ritratto biografico significa, in rapporto a queste alienazioni, sfidare i demoni della compiacenza e della connivenza con l’altro, quindi porre il rifiuto, l’opposizione e quindi il vuoto, il nulla, l’assenza come base sulla quale veder apparire le proprie scene e le proprie passioni. Solo se non devo rispondere di me stesso a nessun altro che a me stesso, io sono nella condizione di cogliermi nella mia delusione fondamentale, nell’opposizione frontale che ho verso il mondo o verso i valori recepiti, nella mia protesta di riscatto dalla soggezione, nelle mie istanze di vendetta, di cui avverto insieme la violenza apocalittica e la colpa morale, quindi posso valutare quanto sono trascinato da passioni, reso nemico agli altri e a me stesso, e quanto posso riequilibrare il mio essere sulla base di una valutazione intima, sentita, ponderata di ogni lato contrapposto della mia identità.

    Allora, l’oggettivazione offertami dalla pagina - una testimonianza netta e nuda, che respinge e annulla le dipendenze e mi priva di ogni interesse narcisistico - mi consente di assumermi in pieno l’onere e l’onore d’essere me stesso, con le mie qualità proiettate nell’infinito e i limiti concreti, che fanno di me un essere umano, quell’essere umano, me stesso.

    3. La scrittura di sé come autoterapia

    In rapporto alla storia dei popoli e delle nazioni, chiamiamo storia la costruzione della memoria effettuata sotto i dettami della coscienza egemone. Così è stato e così, presumo, sarà sempre: la materia si conforma al gioco dinamico delle forze maggiori che la compongono. La storia scritta dagli americani - anche nei film di Hollywood - è tutt’altra da quella che avrebbero scritto i tedeschi se avessero vinto la guerra. E diversa da quella che scriveranno tra pochi decenni i cinesi. D’altra parte, il tempo rende sempre più giustizia alla Germania, in quanto popolo e in quanto nazione, e il nazismo può essere ormai visto nella specie storica del dispotismo razziale, piuttosto che in quella religiosa del “male assoluto”. Ed ecco che la storia, colta da un altro punto di vista, modifica pian piano le sue linee.

    Lo stesso discorso si può fare - e non per analogia, ma per identità di fatto - in rapporto alla storia personale. La storia personale, la memoria individuale, è la trama di pensieri che concorre a formare la nostra coscienza soggettiva. La struttura di questa coscienza, la sua forma, è una forza egemone (o meglio: un sistema di forze egemoni) che assoggetta i dati della memoria, perché essi concorrano alla propria coerenza e stabilità.

    Da questo principio derivano due postulati. Primo: nella misura in cui muta la forma della coscienza - la struttura dell’io cosciente - mutano anche le memorie: la loro esistenza selettiva, la loro interpretazione, la loro funzione nel campo complessivo dell’io. Allo stesso modo - secondo postulato - se modifichiamo l’assetto di queste memorie (il modo come le guardiamo, le selezioniamo, le interpretiamo, le connettiamo all’insieme della mente soggettiva per renderle ad essa funzionali) modifichiamo anche la forma della nostra coscienza: modifichiamo noi stessi.

    Questa nostra trasformazione mediante i nostri strumenti personali - il ricordo, l’analisi dei dati, la ricerca dei documenti, la valutazione del gioco dinamico delle forze egemoni e assoggettate, il controllo delle passioni, il riequilibrio dei conflitti interni - siamo soliti chiamarla, con definizione greca, autopoiesi. E’ sulla base di questo principio di trasformabilità autogestita che ho scritto il libro Autoterapia (2005).

    Anche l’io ha una sua “storia ufficiale” (un mito superegoico o mito sistemico che si esprime, come ho già detto, in una narrazione superegoica) che è la storia che l’Altro decide per il Sé, la storia dell’adattamento dell’io, e per meglio dire del suo assoggettamento alla coerenza del sistema (questa coerenza nel 2002 l’ho chiamata ordine del sistema). L’io si riconosce a partire dalla sua alienazione nella storia costruita per lui dal sistema sociale nel quale è nato, si è adattato e vive. Lo fa nella speranza/illusione di esserne gratificato. A questo livello le dipendenze, le alienazioni, gli assoggettamenti interpersonali (il padre, la madre, il maestro, il sacerdote che desiderano, intimano o comandano) valgono quanto la più generale alienazione sociale (la mentalità di cui l’altro è intriso, i valori dell’ambiente di appartenenza, i più o meno visibili totalitarismi ideologici...).

    Non di meno, l’esigenza psicobiologica di vivere in uno stato di appagamento fisico e mentale, l’esigenza di vivere nel piacere, nella gioia e persino di sperimentare la preziosa emozione della felicità - esigenza iscritta nella natura materiale del nostro organismo - preme perché l’io si liberi da assoggettamenti che, rendendolo schiavo della dipendenza affettiva e della convenzione sociale, inducono costrizione, dolore, infelicità. Questa pressione biologica verso il benessere si traduce nell’io in una confusa istanza di libertà, quindi di padroneggiamento delle proprie passioni e della propria direzione di vita, quindi della propria storia.

    Nella congiuntura durante la quale scrissi Autoterapia, la puntuale ricostruzione autobiografica della mia storia, partita da frammenti sparsi e non coesi, ebbe la funzione di sottrarmi alla storia ufficiale relativa prima al mio sistema familiare di origine, poi, in un secondo momento, al gruppo di appartenenza ideologica costituito da quello che fu mio primo analista e maestro di psicoterapia.

    Secondo la storia familiare ufficiale, volta a coprire sia la nevrosi ansiosa di mia madre sia il dominio che essa instaurava sulla volontà di mio padre, era che noi vivessimo a Brindisi (città mal sopportata da mio padre e odiata da mio fratello Sandro) non per l’egoismo bensì per l’altruismo di mia madre, che non voleva separare i suoi figli dai loro amici. Se derogavo da questa verità superegoica, mi sentivo in colpa. Al contrario, scoprii, dai miei stessi ricordi indagati con più minuzia e da nuove informazioni, che eravamo lì perché mia madre al Nord era crollata, non essendo in grado di reggere alla separazione dalla sua famiglia di origine. Nel gruppo di psicoterapia vigeva il “verbo” - la narrazione superegoica - che io fossi una persona ordinata e individualista, un bravo ragazzo “borghese” inadatto all’afflato rivoluzionario e alla creatività intellettuale. Questa interpretazione del mio io, insidiosa perché suggerita dal mio ex analista e sostenuta dal gruppo di lavoro da cui dipendevo, occultava la volontà di leadership assoluta da parte del capo e la cieca e interessata adesione del gruppo ad un culto della personalità reso possibile dalla posizione sociale dei miei compagni, tutti ben inseriti nelle istituzioni. In base a ciò, la falsa verità che io fossi un ordinato borghese individualista assolveva alla funzione di dissuadermi dal mostrare una mia personale originalità creativa, cosa che contestai nel profondo di me stesso ricordando e mettendo in atto la mia antica creatività adolescenziale e giovanile.

    In entrambi i casi, la storia ufficiale - la narrazione superegoica - esercitava un controllo il più radicale possibile sulle mie energie mediante una narrazione artificiosa della mia storia e della mia personalità. Nel ricostruire la mia “vera” storia - quella che solo io ero nel diritto di autenticare - potei assistere alla dissoluzione del mito superegoico dominante, avviando così la ridefinizione del mio io. Ciò comportò una liberazione delle energie prima assorbite dai sistemi di cui ero stato parte. Nel primo caso la madre amata in quanto vittima dell’autoritarismo paterno si rivelò meno innocua dell’apparenza, sicché non fu più l’oggetto privilegiato delle mie attenzioni. Nel secondo caso il leader perse ai miei occhi la sua autorità carismatica e il gruppo ogni potere di indurmi a collusioni che mi relegassero in ruoli comprimari e di secondo piano.

    La definizione di un metodo autopoietico, di cui l’autobiografia era una parte importante, mi rese dunque più libero. L’energia dinamica, tornata nella disposizione dell’io, poteva ora costruire non solo nuove appartenenze, ma anche diverse relazioni con le vecchie appartenenze.

    Questa è infine la definizione che diedi di cosa sia, secondo me, un autoterapeuta: “Con il termine «autoterapeuta» non intendo un individuo con caratteristiche eccezionali, che abbia praticato un’arte rara e sublime cui possono accedere solo pochi eletti e da cui sono esclusi i comuni mortali. Nella mia concezione, autoterapeuta è colui che, in fasi particolari della vita, abbia dovuto impegnarsi nella risoluzione di problemi psichici personali, e non solo sia riuscito, almeno in parte, a risolverli, ma, soprattutto, si sia impegnato a fornire una testimonianza diretta delle operazioni poste in essere per superarli, una testimonianza in grado di raggiungere persone costrette o interessate a compiere anch’esse lo stesso percorso” (Ghezzani, cit. 2005, p. 12).

    Oggi questa mia elaborazione si trova a coincidere in molti punti con la straordinaria riflessione compiuta da Duccio Demetrio sulla scrittura di sé come strumento di formazione e di psicoterapia. Il lavoro di Demetrio si è concretizzato dapprima nella pubblicazione del testo - ormai un classico - Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé (1996), poi nella pubblicazione di Autoanalisi per non pazienti (2005), infine nell’ampio volume sintetico: La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali (2008). Il tutto inserito nella mobile e preziosa cornice della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari.

    L’uso della scrittura autobiografica come strumento di terapia si collega, oltre che col mio metodo autoterapeutico (che nel libro del 2005 chiamo autopoiesi dinamica), con la corrente narrazionale della psicoanalisi, secondo la quale il fine ultimo - anche se non sempre manifesto - della psicoterapia analitica è proprio quello di consentire al paziente l’assunzione in proprio della storia oggettiva in cui è nato e vissuto e quindi nel “costruirsi” la propria storia. Di questo metodo scritturale dell’autoterapia ho fatto cenno anche nel mio lavoro sulla dipendenza affettiva Quando l’amore è una schiavitù (2006).

    In questa nuova concezione terapeutica, che proseguo e porto avanti, la dimensione mimetica che caratterizza l’io di ciascuno, ossia il suo bisogno di apparire coerente e efficace più di quanto la sua complessità e intrinseca contraddittorietà consentano di fatto, si risolve in un mito egoico nel quale le contraddizioni e i conflitti si delineano e si confrontano allo scopo di tendere, in modo consapevole, alla sintesi definitiva. Nell’analisi continua dei propri “residui”, delle passioni che alterano e squilibrano l’io, il soggetto può avocare a sé il controllo della propria vita.

    E se il soggetto compie questo passaggio fino in fondo - ossia lo compie fino a produrre una storia che non sia per nessun altro che per se stesso, una storia tale da mostrargli la sua completa solitudine, la sua raggiunta in-dipendenza -, ebbene, se compie questo passaggio, scopre di essere libero dal racconto altrui e, nel suo stesso racconto, si scopre libero dal bisogno di compiacere la volontà altrui, si scopre libero dall’onnipresenza degli altri nel suo pensiero. Allora, sorpreso dall’assoluto silenzio in cui ha imparato ad ascoltarsi, scopre la vera antitesi del suo io: non più l’intreccio delle storie altrui, ma il nulla. Ed ecco allora che comprende il senso dell’avvenuta liberazione: perché scrivendo nell’esclusione degli altri, egli si è posto con tutto se stesso dall’altra parte della vita.

    Bibliografia

    Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano 1996.
    Demetrio D., Autonanalisi per non pazienti, Raffaello Cortina, Milano 2005.
    Demetrio D., La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Raffaello Cortina, Milano 2008.
    Ghezzani N., Volersi male. Masochismo, panico, depressione, Franco Angeli, Milano 2002.
    Ghezzani N., Autoterapia. Curare la propria psiche con strumenti personali, Franco Angeli, Milano 2005.
    Ghezzani N., Quando l’amore è una schiavitù, Franco Angeli, Milano 2006.


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