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  • Scritture di sé in sofferenza
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.8 n.1 Gennaio-Aprile 2010

    LA SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA COME GIUSTIFICAZIONE DI UN PERCORSO


    Madjid Touzouirt

    touzouilt@yahoo.com
    Chargé de Cours Département d’Italien Université de Blida, Algérie.

    Introduzione

    Erri De Luca è uno scrittore che decide di raccontare negli anni ottanta (1985-1986 secondo l’autore), nel suo romanzo Non Ora Non Qui, la storia della sua gioventù durante la quale è stato protagonista, negli anni sessanta e settanta, di un movimento universale di protesta contro un’ideologia, una cultura, una società, un modo di vivere. Egli svolgeva la funzione di responsabile del servizio d’ordine dell’organizzazione extra-parlamentare lotta continua.

    1. Le caratteristiche del romanzo autobiografico

    Un vantaggio dell’uso della prima persona è che permettendo al personaggio di esprimere i suoi sentimenti, pensieri ed esperienze, il lettore è attratto ed invitato ad introdursi nella vita del narratore che si svela a lui. In merito a questo rapporto tra “l’io” del romanzo e il lettore, D’Intino [1] sostiene che anche gli autori autobiografici, che affidano al testo la trasmissione di valori generali e universali, si riferiscono quasi sempre ad una realtà extratestuale precisa e vicina composta da: “l’io” storico dello scrivente; un pubblico incluso in un giro d’orizzonte più o meno largo, ma contemporaneo; e un contesto storico riconoscibile e comune ad entrambi.

    A volte lo svolgimento del racconto alla prima persona crea un’intimità confessionale intensa. La scrittura, in questo caso, acquisisce il carattere di una registrazione diretta di un processo di maturazione che si innesca nel momento in cui si comincia a pensare in retrospettiva alla propria vita in cerca di un’identità. Un simile processo può diventare uno degli strumenti di una vera e propria terapia che spinge a ripensare il proprio passato e a scriverlo in un libro al fine di giungere a una comprensione e accettazione di sé e del mondo. Per questo motivo, Duccio Demetrio (2001) sostiene: “Il romanzo autobiografico ha il carattere terapeutico come se chi scrive volesse ripercorrere attraverso la narrazione alcuni momenti della propria vita per motivi personali ed interiori”.

    Quindi, la domanda che possiamo formulare è qual è l’obiettivo mirato da Erri De Luca scrivendo un romanzo autobiografico? Sarebbe: la volontà di lasciare una testimonianza e lottare contro la dimenticanza l’oubli; la volontà di confessarsi come ha fatto Sant’Agostino; l’obbligazione di giustificarsi come Rousseau; o usare la sua autobiografia per difendere una tesi, un punto di vista o trasmettere un messaggio come ha fatto Sartre? Crediamo che in questo caso lo studio dell’etica e della doxa chiarirebbero la nostra curiosità.

    2. Il narratore come testimone e l’etica

    Il romanzo di Erri De Luca, secondo noi, è monologico [2] per il fatto che il narratore anziano, ribelle, assume il compito di istruire la tesi dell’opera: la orienta e commenta il percorso ideologico dei personaggi ed i loro errori. Egli possiede un campo di visione che domina rispetto ai personaggi che giudica, per addirittura condannare alcuni di loro. Così, si localizza facilmente la posizione ideologica del narratore attraverso le idee che sono esplicitamente affermate. Quelle non condivise sono sviluppate come caratterizzazioni dei personaggi o supporti di una confutazione. Possiamo, perciò, dire che l’autore prende il lettore per mano per spiegargli il suo modo di concepire il mondo e fargli ammettere una visione politica particolare.

    Gli studiosi sostengono che spesso, in paragone col fare del personaggio, che appare sempre esplicitamente al livello attanziale, il pensiero del narratore, che gestisce il romanzo, resta nella maggior parte dei casi implicito. Nel caso del romanzo di De Luca, però, è esplicito e svolge tre funzioni nel suo progetto narrativo: giustificare, spiegare e convincere.

    La morale è anzitutto una valutazione delle condotte socializzate. Ogni etica o valutazione morale accentua, mette in rilievo, discrimina, distingue fra i personaggi. Se questa valutazione è dappertutto nel testo, il romanzo è, peraltro, un luogo testuale ideologicamente molto marcato, dove l’etica del narratore-personaggio ed i suoi rapporti con le leggi morali si esprimono direttamente. Egli introduce dei personaggi, li descrive, ne racconta una storia e la commenta, per presentare degli argomenti diversi in difesa delle sue convinzioni morali. In questo lavoro, non sono i suoi compagni di lotta da convincere, ma i giovani che sognano che regni l’equità e l’uguaglianza nel mondo. La morale veicolata è, oltre alla necessità della comprensione umana e l’importanza della solidarietà, quella di combattere l’ingiustizia e l’autorità e condannare il fatalismo e la passività.

    La fonte di valutazione del romanzo è, quindi, il narratore-personaggio: è lui che seleziona i dettagli che meritano l’attenzione del lettore nei ritratti e nel seguito degli avvenimenti. L’immagine che il lettore ha del personaggio dipende, così, dal modo con cui è presentato dal narratore. Egli distribuisce le positività e le negatività tra i personaggi, riferendosi a un sistema di valore ben definito che è sottostante al romanzo.

    Vincent Jouve afferma in proposito: “La nostra visione del personaggio dipende, prima del suo ritratto fisico e morale, dal modo con cui è presentato nel testo” (1992: 197). Si tratta, quindi, di un sistema di valori intrinseci che è sottostante all’opera e che serve da punto di riferimento al lettore per orientare la sua valutazione.

    Il narratore, così, tratta con il narratario che rappresenta i giovani, di cui anticipa le attese e le obiezioni e di cui sollecita l’adesione. In effetti, dietro l’apparente testimonianza, si tessono, in modo indiretto, dei procedimenti argomentativi, che trasformano questo racconto di vita in una vera requisitoria dotata di un contenuto etico.

    In linea di massima, emana dal romanzo un conflitto tra due sistemi di valori sottoforma di un conflitto tra il personaggio del narratore, che incarna un’ideologia egualitaria di tendenza socialista e quello della madre, che incarna un’ideologia dominatrice e conservatrice.

    2.1. Il personaggio del narratore

    Il narratore si autovaluta in quanto personaggio. Questa valutazione gli permette di giudicare, insieme, le sue azioni anteriori, presenti, future e di paragonare il suo essere passato, in quanto bambino, alla fase presente della sua evoluzione, in quanto anziano. L’autovalutazione testimonia anche del progresso del narratore bambino da una persona muta, balbuziente a una persona anziana, che padroneggia la parola e valuta anche gli altri personaggi. Si tratta anche della sua appartenenza a un sistema di valori: il narratore bambino, passivo e dominato, acquisisce col tempo il coraggio per superare questa situazione e diventare attivo e ribelle rispetto all’ordine stabilito, incarnato dal personaggio della madre.

    Il narratore anziano rievoca il suo passato per spiegare l’evoluzione che ne risulta: si presenta come un uomo stufo del mondo dove vive, e, che decide di rifiutare l’ingiustizia e le concessioni. La sua ideologia e le sue convinzioni le espone man mano evocando gli altri personaggi. Gli piace la casa del vicolo che si trova in un quartiere popolare e odia la nuova casa che si trova in un quartiere ricco. Potremmo, perciò, dedurre che egli veicola un’ideologia di sinistra, vicina alla classe operaia.

    2.2. La madre

    È il personaggio con cui il narratore si confronta durante tutto il romanzo. Lei è descritta come rigida, autorevole e dominatrice, perciò diventa il punto di riferimento della legge e istituisce la morale. Lei, che proviene da una famiglia ricca, dopo un periodo di povertà dovuta alla guerra, riacquista la sua agiatezza economica. Di conseguenza decide di cambiare casa e di abitare in un quartiere ricco con altre famiglie benestanti e gli americani. Perciò, raffigura la borghesia insieme all’autoritarismo. Ma rappresenta anche l’anima del narratore, immortale, che gli racconta il male che caratterizza il mondo: “Il male che mi insegnavi a riconoscere, io lo vedevo causato dalle persone. Mi sorvegliavo per non procurarlo, perché anche un rossore risparmiato ad un altro fa parte delle proprie responsabilità. Non tutti ebbero una madre che spiegava il male” (p. 79).

    Questo personaggio sembra assumere, in realtà, un ruolo paradossale: esso incarna nello stesso tempo l’autorità a cui il narratore si oppone e dalla quale cerca di liberarsi, e l’anima che lo guida nella sua vita.

    2.3. L’appropriazione della parola del padre

    Si tratta di una strategia discorsiva in cui il narratore prova ad assicurarsi la sua legittimità e a dare un certo impatto alla sua propria parola. Nonostante, infatti, la forma del dialogo tra il narratore e la madre che caratterizza il romanzo, la comunicazione si svolge a senso unico. Il romanzo affronta gli atteggiamenti del giovane in un discorso autobiografico e l’analisi esterna adulta che lo spiega. Così, alla spontaneità del narratore quando era bambino si oppone la lucidità del narratore quando è diventato vecchio.

    In queste condizioni, il narratore, avendo come scopo l’uso di una strategia discorsiva alla ricerca di una parola singolare, legittima ed efficace, si rivolge alla madre in una specie di dialettica, ma che consiste in realtà nell’evocare l’opinione della madre, solo per giustificare la sua presa di posizione. Questa presa di posizione, in verità, la eredita dal padre. Quindi, quest’ultimo, anche se non è molto presente, viene posto come la fonte della morale su cui appoggia il romanzo. In effetti, attraverso un dialogo tra il narratore e suo padre, quest’ultimo gli consiglia di non aspettare:

    - Papà, se io non voglio stare in attesa e voglio stare senza attesa, posso? Allora interruppe di radersi, aprì del tutto la porta e, come se avesse capito una cosa, non so quale, disse solo così: ‘‘Se tu sarai capace di stare senza attesa, vedrai cose che gli altri non vedono.’’ Poi aggiunse ancora: ‘‘Quello a cui tieni, quello che ti capiterà, non verrà con un’attesa.’’ Aveva metà della faccia rasa e metà ancora insaponata, in una mano il rasoio nell’altra il pennello. Si chinò un poco su di me per farsi intendere. Lo guardai con tutto il campo degli occhi. Non era lui, nemmeno la voce era la stessa. Neanche ero sicuro di essere stato io a domandare. Credette che non avessi capito, con un poco di sorriso si rimise allo specchio e mi disse di stare attento a quando tornavi tu. Non seppi domandare, non capii la risposta, ma non ho dimenticato. Quel giorno mi distolsi dalle attese, imparai a non attendere. (p. 55)

    Le attese, secondo gli psicologi, formano con le speranze una coppia e sono iscritte all’interno del tempo, più precisamente nel futuro: l’attesa di cui parla il romanzo è legata all’avvenire immediato, come quello della madre che è legato all’evento del ritorno del padre, mentre la speranza è legata a un futuro lontano, quello a cui il narratore aspira, pieno di promesse senza tracce dell’ansia, dell’inquietudine, della perplessità e dell’insicurezza che ci procura l’attesa.

    Il narratore ha deciso, seguendo l’esempio dei suoi compagni, di non attendere e quindi di essere attivo, perché tutti avevano la speranza di realizzare insieme un progetto e un ideale e sono andati verso il tempo. L’hanno provocato e hanno contribuito alla costruzione della storia umana, anche se non sono riusciti a raggiungere completamente il loro obiettivo, sia perché la gente era “folla” e quindi non seguiva, sia perché fra i compagni di lotta c’erano anche dei traditori. In conseguenza a ciò, il narratore si rassegna, come ha fatto prima di lui Massimo (il suo personaggio modello). Si ferma e si ferma anche con lui il tempo. Scopre così la noia: “Porto il vuoto che mi hanno lasciato e mentre mi tengo le mani mi sento spuntare impazienza e impulso di smettere il tempo della foto e dell’autobus” (p. 88).

    Nonostante la delusione, egli non si scoraggia perché considera il passato solo una battaglia persa. La speranza nel realizzare quegli ideali e quei valori continua con i giovani, che credono nella stessa anima perché è immortale. Essa, al contrario degli esseri umani, trascende il tempo e la vecchiaia, e rimane soprattutto legata ai giovani: “Sei giovane, un’età tua che non ricordo più. Si dice che le mamme non abbiano età” (p. 15), ai quali, il narratore consiglia di continuare la battaglia e di non confinarsi nella passività. Questo sarebbe il messaggio trasmesso dal romanzo ai giovani.

    3. La doxa come fondamento dell’argomentazione

    La doxa o l’opinione comune ha un grande ruolo nella comunicazione verbale. Appoggiandosi su di essa, l’oratore tenta di far aderire i suoi interlocutori alle tesi che egli presenta per ottenere il loro assenso. Inoltre, siccome la doxa, a cui è ancorata l’argomentazione, è un’entità coerente, retta da una logica sotterranea, il discorso del narratore si conforma a una specie di dottrina. In effetti, è in uno spazio d’opinioni e di credenze collettive che il narratore di De Luca tenta di chiarire una posizione personale e un percorso e di consolidare un punto di vista. Il sapere condiviso e le rappresentazioni sociali costituiscono quindi la base di ogni argomentazione.

    Per capire la situazione di narrazione e il dispositivo enunciativo che determinano l’argomentazione, bisogna prendere in considerazione i diversi strati di dati storici: si tratta del movimento del sessantotto, che ha avuto come protagonisti dei giovani di ideologia leninista-marxista, sollevati contro gli antagonisti capitalisti e le diverse forme di autorità politiche o sociali. All’interno di questo quadro, bisogna citare l’autorità dell’autore e il suo ruolo di militante di lotta continua. L’altra parte è costituita dalle nuove generazioni degli anni ottanta in poi, che egli tenta di sensibilizzare.

    Quindi la conoscenza di ciò che si diceva e si pensava rispetto a quell’epoca è necessaria alla buona comprensione di un discorso argomentativo. A maggior ragione, quando si tratta di un movimento che ha suscitato e continua a suscitare tante polemiche rispetto al suo impatto sulla società, i cambiamenti che è riuscito a provocare, la sua mira, il suo metodo di protesta e, soprattutto, la violenza a cui era associato e le sue conseguenze. Perciò, la conoscenza di una doxa, che prende la forma di un’ideologia, è necessaria per effettuare un’analisi pertinente dell’argomentazione nel discorso.

    Inoltre, bisogna indicare che la doxa è divisa in due forme che chiamiamo topiche. La topica nelle sue dimensioni retorica e pragmatica è legata alla concezione moderna del ‘luogo comune’ come opinione condivisa o tema familiare. Il luogo comune si esprime attraverso una grande varietà di forme verbali. Comunque ci sono due grandi categorie: quella degli enunciati doxici che raggruppa le generalizzazioni espresse, cioè le sentenze, e quella che rileva dalle rappresentazioni sociali che emergono nel discorso in un modo più o meno implicito, cioè lo stereotipo.

    3.1. La sentenza

    Aristotele [Réthorique (1991: 254)] definisce la sentenza come un’affermazione che porta non sui fatti particolari ma su delle generalità. Essa, quindi, consisterebbe nell’esporre una relazione diventata indipendente da situazioni particolari o da uno stato di cose. Inoltre, le sentenze sono classificate in due categorie: quelle che sono autosufficienti perché appartengono all’opinione comune, e quelle che sono accompagnate da una dimostrazione per essere convincenti.

    Nel nostro caso, abbiamo un narratore che proferisce delle sentenze di sua propria invenzione, con lo svantaggio, però, di non poter appoggiarsi su un’autorità esterna, che rappresenterebbe una saggezza globale o collettiva e che servirebbe a legittimare il suo discorso. In questo caso, Aristotele segnala la necessità di motivare la verità generale e di usare delle sentenze solo in modo appropriato, cioè nelle circostanze dove il locutore non si ritrovi a produrre abusivamente delle generalizzazioni. Per il filosofo greco, è inconveniente parlare usando sentenze se non si è raggiunta un’età rispettabile o se non si ha nessuna esperienza sull’argomento in questione. In altri termini, la sentenza è efficace solo in rapporto all’ethos dell’oratore. Perciò, il rimedio trovato nel romanzo di Erri De Luca è quello di affidare questo ruolo a un narratore anziano, che rivisita per una seconda volta con l’occhio di un osservatore gli avvenimenti di un passato, di cui era protagonista. Queste sentenze sono presenti lungo il romanzo e riguardano argomenti che vanno dall’importanza della scrittura come testimonianza per chiarire un evento storico, specificando che si tratta di un movimento spontaneo, al concetto della vita e della morte, indagati dal punto di vista della dottrina esistenziale, che per altro, proveremo ad analizzare, in seguito, attraverso l’analogia, predicando le lodi di valori come l’attivismo, la responsabilità, la lealtà e la solidarietà.

    3.2. L’analogia tra giocattolo e vita

    Le domande argomentative, molto presenti dalla pagina 37 alla pagina 40, sono usate come per segnalare la natura intensamente argomentativa di questa parte del romanzo, e lasciar presagire l’ideologia su cui è fondata tutta l’opera: la dottrina dell’esistenzialismo. Questa difende la libertà individuale, la responsabilità e la soggettività. Il narratore comincia a parlare della proprietà. La proprietà dei giocattoli, infatti, lo preoccupa perché è legata à una condizione, e lui desidera una libertà assoluta senza costrizioni. Notiamo che egli insiste sulla domanda, che riguarda la proprietà, e che viene ripetuta due volte, la cui risposta è sempre legata a una costrizione. Descrive il giocattolo come un oggetto che ha una durata nella quale si usa, poi si abbandona. Ma la domanda che incuriosisce il narratore è l’attimo della sua fine. Egli, infatti, scopre che la morte non è uguale per tutte le cose e che ci sono oggetti che cominciano a invecchiare solo dopo averla attraversata. Così, il giocattolo invecchia solo dopo che si è rotto, e quindi, dopo che è morto. Dice che il gioco dura solo il brevissimo spazio di tempo che costituisce l’istante della sua rottura e che quell’attimo vale tutta la sua durata precedente. Di conseguenza arriva alla conclusione che solo al momento della sua morte il gioco è veramente di chi l’ha in mano e aggiunge che solo questa condizione ne completa il possesso.

    Il narratore usa, in seguito, un’analogia tra il gioco e la vita dichiarando: “solo in morte la vita è interamente di chi l’ha vissuta, e il possesso è senza donatori, senza rimproveri” (p. 39). Poi si rivolge a sua madre usando la domanda: “È mia la vita che mi desti?” e, alla fine, risponde alla sua domanda: “Sta sera sì, è mia del tutto” (p. 40).

    Così, con la morte nell’autobus, egli completa il possesso della sua vita. In realtà, questa analogia applicata alla propria vita dal narratore sembra essere una dichiarazione del dovere compiuto.

    Le idee di questo passaggio sono ispirate dalla dottrina dell’esistenzialismo ateo, che afferma che l’esistenza precede l’essenza, nel senso che l’uomo prima sorge nel mondo poi esiste e alla fine si definisce attraverso le sue azioni di cui è pienamente responsabile. Perciò, ogni persona è un essere unico che è padrone dei suoi atti e del suo destino.

    La questione della completa proprietà della propria vita, sottolineata con insistenza dal romanzo, pone il concetto dell’ateismo, che spiega il dissenso del narratore nei confronti della chiesa. L’esistenzialismo sostiene che se l’uomo non può essere definito all’inizio della sua esistenza è perché prima non è niente. Solo, dopo, diventa tale quanto ha scelto di farsi. Quindi, siccome non c’è Dio per concepirlo, per dargli un’anima predeterminata, siccome all’alba della sua esistenza l’uomo non è niente, il suo futuro gli appartiene: ciò che egli è, e, ciò che egli sarà gli appartengono.

    Di questa dottrina citiamo due concetti fondamentali che la caratterizzano. Il primo concetto è quello della libertà, con cui essa sostiene che dato che non c’è né morale né ci sono valori preesistenti all’uomo, allora non c’è nessuna giustificazione ne scusa: l’uomo sceglie i suoi valori da solo, perciò, è libero. Egli è il solo responsabile di fronte a sé e alla civiltà, dei suoi atti. Quindi, l’unica essenza che può preesistere all’uomo è la libertà. Una libertà incondizionata e assoluta, di attitudini e di scelte, che è la condizione primaria a una qualsiasi responsabilità umana. Conformandosi a questo principio, il narratore decide di liberarsi dalla dominazione della madre che rappresenta l’istituzione educatrice che istituisce la morale, come l’hanno fatto i suoi coetanei, cioè, ‘i bambini’ che hanno condotto il movimento del sessantotto: “Non ora, non qui. Avevi ragione, molte delle cose che mi sono accadute furono errori di tempo e di luogo, cose da dire: non ora, non qui. Però a questo vetro d’autobus mi accorgo di essere in un’ora e in un posto a me riservato da tempo” (p. 44).

    Partendo da questo concetto, egli critica gli uomini rassegnati che scelgono di non battersi per un mondo migliore che sarebbe l’Italia-nave, l’Italia-Andrea Doria e non l’Italia-terra ferma. Questi uomini costituiscono la folla, una pietra, un anello manipolabile da quelli che hanno il potere.

    Il secondo concetto è quello della responsabilità, in quanto l’uomo determina sé stesso. La sua essenza è il risultato del suo progetto di essere. Non è ciò che ha voluto essere, ma è il risultato delle sue scelte. Egli quindi è responsabile di ciò che è. Perciò, il narratore dichiara: “Il male che mi insegnavi a riconoscere, io lo vedevo causato dalle persone. Mi sorvegliavo per non procurarlo, perché anche un rossore risparmiato ad un altro fa parte delle proprie responsabilità” (p. 79).

    Inoltre, al di là della responsabilità individuale, secondo la stessa dottrina, l’uomo è responsabile davanti all’umanità: egli, definendosi attraverso le sue scelte, sceglie di dare un certo modello, una certa immagine, coinvolgendo così con le sue scelte l’insieme dell’umanità. Il narratore, infatti, afferma: “Allora, non so più come fu, io capii che non ero testimone di tutto quel male e del mondo, ma responsabile” (p. 58).

    Il narratore asserisce, peraltro, che nessuno ha il diritto di sottrarsi alle sue responsabilità in un mondo ingiusto, dove sono sfruttate le categorie sociali povere, sull’esempio di Filomena, da parte della borghesia e degli imperialisti, alla loro testa gli americani.

    Partendo dal concetto della responsabilità, questa dottrina ha affrontato il problema della responsabilità degli scrittori. Essa, infatti, pensa che dato che l’uomo definisce con le sue scelte il senso della vita in generale e impegna simbolicamente l’umanità nella via che egli sceglie, lo scrittore deve sentirsi impegnato. Pertanto, uno scrittore scrive sempre affinché nessuno si consideri innocente di ciò che succede nel mondo. Egli mostra la realtà e incita il lettore a cambiare le situazioni che narra perché, secondo questa dottrina, scriviamo sempre per gli altri, mai per sé. Sarebbe per questo che Erri De Luca rievoca il movimento del sessantotto ai giovani per spiegare i suoi ideali e valori e trasmettere il simbolo della sua lotta contro i mali del mondo, che perdurano anche oggi, alle nuove generazioni? Il suo narratore, in realtà, stima che: “Parlare è percorrere un filo. Scrivere è invece possederlo, dipanarlo” (p. 25).

    3.3. Lo stereotipo

    Per Ruth Amossy (2000: 110) lo stereotipo deve essere concepito come un elemento doxico senza il quale nessun’operazione di categorizzazione o di generalizzazione sarebbe possibile, così come nessuna costruzione d’identità e nessuna relazione all’altro potrebbero elaborarsi. Lo stereotipo, quindi, assume un ruolo importante nell’argomentazione. In effetti, in quanto rappresentazione collettiva fossilizzata che partecipa della doxa ambiente, esso fornisce il terreno sul quale potranno creare comunione i partecipanti all’interazione. Perciò, l’allocutario, che aderisce alle immagini proposte, potrà lasciarsi convincere dall’argomentazione che si alimenta dalle rappresentazioni che provengono dalla sua propria visione del mondo.

    Studiando la doxa, che può contribuire a chiarire l’ideologia del discorso, si studia la valorizzazione. E dato che i valori si oppongono secondo un andamento polare, ci serviamo degli antonimi per precisare la contrapposizione contro l’autorità e la dominazione su cui è fondato il romanzo di Erri De Luca, basandoci sull’osservazione di François Rastier(2004):

    Risquons toutefois une bénigne hypothèse cognitive : le binarisme séduit parce qu’il est facile à comprendre. Les travaux expérimentaux menés depuis un siècle sur les associations et l’organisation du lexique mental ont toujours confirmé que l’antonyme vient à l’esprit dans le temps le plus court. Aussi la relation d’antonymie reste privilégiée par les discours de propagande, car elle exige peu d’efforts.

    Pensiamo che questo procedimento sia adoperato nel romanzo per garantire un massimo successo alla trasmissione del messaggio alle nuove generazioni.

    È secondo lo stereotipo della Destra e della Sinistra che riprende un concetto antico del ricco e del povero, del padrone e dello schiavo, del borghese e del lavoratore, del proprietario e dell’operaio, del capitalista e del comunista, che viene concepita l’ideologia della lotta e della contrapposizione tra due mondi antagonisti, a cui il narratore aderisce, adoperando delle opposizioni tra il personaggio del narratore, che intenderebbe conquistare la sua libertà e il personaggio della madre, che a sua volta sarebbe determinato nel voler continuare ad instaurare la sua dominazione; tra il personaggio del padre, che si sarebbe compromesso con la Destra e il personaggio del nonno, che avrebbe fondato la sua politica sul proletariato; tra la sorella, che sarebbe radicale ed estremista e Massimo, che sarebbe moderato; tra Filomena, che rappresenterebbe la classe dei lavoratori e gli americani, che rappresenterebbero il sistema capitalista e imperialista; tra la folla, che designerebbe la gente passiva che accetta la sua sorte e l’Italia-nave, in movimento; tra il personaggio di D’Annunzio, che sarebbe privo di veduta politica e il mar-tirreno, che richiederebbe una strategia e una abnegazione continua; tra il personaggio della moglie, che rappresenterebbe l’organizzazione di lotta continua e che si impegnerebbe per attuare la giustizia sociale e i responsabili, che instaurerebbero l’oppressione; tra il personaggio dei coetanei-bambini, che avrebbero assunto la loro responsabilità, sollevandosi contro il male e Dio o la chiesa, che si confinerebbe nel silenzio.

    Al livello lessicale abbiamo anche delle opposizioni o delle antinomie che possiamo riassumere in: acqua/pietra, rilevate dal discorso del narratore riguardo il personaggio della folla, e che corrisponderebbero successivamente alla gente attiva e alla gente passiva;
    colpi/gridi, riguardo al personaggio dei bambini e che corrisponderebbero successivamente all’aggressore e all’aggredito;
    nave/terra ferma, riguardo al personaggio personificato dell’Italia e che corrisponderebbero successivamente all’evoluzione e alla stagnazione;
    buio/luce, riguardo al personaggio Dio e che corrisponderebbero successivamente all’ignoranza e alla razionalità.

    Di conseguenza, ci risulta un punto di vista di un narratore che denuncia la classe dominante e l’assoggettamento. È questo punto di vista globale, difeso nell’insieme del romanzo, che si manifesta nel testo attraverso la scelta di un lessico dispregiativo (asino per i passivi), delle associazioni ideologiche dei lavoratori (designati come poveri), della borghesia (designata come un gruppo di approfittatori), che orienterebbe, in realtà, l’interpretazione del romanzo.

    L’interazione argomentativa è fondata, così, su un sapere condiviso che conferisce al dire la sua plausibilità. Le sue premesse ed i punti d’accordo su cui il narratore fa leva sono presi a prestito a una doxa accreditata dall’uditorio. Perciò, le nozioni di sentenza e di stereotipo permettono, come abbiamo visto, di afferrare i punti consensuali attraverso cui il narratore comunica con il suo auditorio e negozia le sue posizioni.

    Conclusione

    La disposizione enunciativa del romanzo, attraverso la contrapposizione, riflette un’organizzazione sociale ed economica, la rivendicazione di un’etica, e rispecchia un posizionamento ideologico. Appare, infatti, chiaro nel romanzo una tensione che troviamo presente dall’inizio fino alla fine dell’opera mediante la sequenza principale del testo che delinea l’incontro del narratore con la madre, di fronte a cui espone una sua esperienza vissuta per una valutazione. Si tratta di una valutazione a posteriore, sottomessa a un tipo di anima, quella che si rammarica del male e delle ingiustizie del mondo, generati dalla classe ricca e borghese, e subiti dalla classe operaia. Questa valutazione di un percorso è sopposta più oggettiva, perché fatta da un anziano. La tensione tratta, inoltre, la problematica dell’esistenzialismo, dell’individuo di fronte alle sue responsabilità e delle sue aspirazioni a un mondo migliore privo di ogni forma d’ingiustizia e di sottomissione. La madre assume un ruolo protettore ma nello stesso tempo invadente e dispotico. Nondimeno il narratore anziano riesce a liberarsene scegliendo una direzione mediante cui realizzerà le sue aspirazioni. Con questa decisione, egli invita tutti quelli che hanno la stessa anima a reagire. Pensiamo perciò che “l’io” del romanzo racchiuda un “io” collettivo in cui si identificano tutte le persone che hanno preso la stessa decisione (o che sono stati coinvolti dagli stessi eventi), insieme a tutti quelli che hanno gli stessi sogni. Sarebbe una giustificazione di un percorso per i primi, i suoi compagni di lotta, e un invito a reagire e ad assumersi per i secondi, i giovani.

    Note

    1] In p. 63, D’Intino cita Petrarca, che pur sapendo bene di rivolgersi ad una cerchia larghissima di lettori posteriori, e di investire il suo testo di un significato universale, sceglie comunque di adottare la forma epistolare, tipica della comunicazione ravvicinata e immediata con persone conosciute.
    2] Bachtin propone la tesi che il dialogismo si stabilisce al livello delle idee personificate, nellle quali, si manifesta anche la distinzione tra le opere monologiche e quelle dialogiche. Per Bachtin, un’opera è monologica quando tutte le idee affermate si fondano nell’unità della coscienza dell’autore che guarda e rappresenta; mentre nell’opera dialogica, le idee sono distribuite tra i personaggi, non in quanto idee valide in sé, ma in quanto manifestazioni sociologiche o caratterologiche del pensiero.

    Bibliografia

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