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  • Itinerari visuali
    Marco Pasini - Giorgio Maggi (a cura di)

    M@gm@ vol.7 n.2 Maggio-Agosto 2009

    INTRODUZIONE AL METODO VISUALE


    Francesco Mattioli

    Francesco.Mattioli@uniroma1.it
    Professore ordinario di Istituzioni di Sociologia, Sociologia dei Gruppi e di Metodi della ricerca visuale presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell'Università di Roma "La Sapienza". Attualmente dirige le seguenti ricerche in ambito universitario: Indagine sulla comunicazione del rischio globale (cfr. F. Mattioli, a c. di, La comunicazione del rischio globale, Bonanno Editore, in corso di stampa); La condizione della famiglia immigrata nel Lazio (Osservatorio sul fenomeno presso la sua Cattedra di Istituzioni di Sociologia). Collabora con la Facoltà di Architettura "L. Quaroni" per una ricerca socioantropologica e urbanistica sul quartiere "La Romanina" di Roma. È stato il fondatore del LADIS, il Laboratorio di ricerca audiovisiva della Facoltà di Scienze della Comunicazione. Tra i suoi numerosi scritti, va ricordato il pionieristico Sociologia visuale (ERI, Torino, 1991). Inoltre, sul tema visual: Sociologia, fotografia, visual sociology: note sull’uso dei mezzi audiovisivi nella ricerca sociale, Sociologia e ricerca sociale, 14, 1984; Gli indicatori visivi nella ricerca sociale: validità e attendibilità, Sociologia e ricerca sociale, 20, 1986; La sociologia visuale: qualche risposta a molti interrogativi, in C. Cipolla, A. De Lillo, cit., 1996; La casa come luogo di interazione e di decoro, in P. Faccioli e D. Harper, cit., 1999; Sociologia visuale, in R. Cavallaro (a cura di), Lexicon. Lessico per l’analisi qualitativa nella ricerca sociale, Roma, Cierre, 2006; Dal paleoindustriale al postmoderno: un itinerario sociologico nel quartiere de La Romanina, in M. Calzolaretti (a cura di), Abitare la città. Questioni architettoniche, sociali, ambientali, Roma, Gangemi, 2006; Le tecniche di analisi visuale, in L. Cannavò, L. Frudà (a cura di), Ricerca sociale, cit., 2007; La sociologia visuale: che cosa è, come si fa, Bonanno, Acireale-Roma, 2007.

    La tradizione della fotografia sociale americana, fondata essenzialmente sulle esperienze dell’équipe di ricerca che lavorò per la Farm Security Administration in occasione della grande siccità che colpì il Midwest negli anni ’30, sta alla base della visual sociology. In particolare, la sensibilità sociologica di Dorothea Lange, esponente di spicco di quel gruppo di fotografi, ne costituisce il punto di riferimento essenziale.


    D. Lange, Blythe, 1936

    Una sociologia visuale, cioè una sociologia che utilizza la fotografia come strumento di ricerca, nasce con la Nuova Scuola di Chicago, impegnata a partire dal 1960 nel denunciare lo stato di degrado dell’underground metropolitano, l’emarginazione delle minoranze, le cause sociali della devianza. La fotografia si prestava a questo progetto, per l’impatto immediato che era in grado di esercitare sul pubblico, sia quello della gente comune, sia quello degli addetti ai lavori.

    Da questo milieu si sviluppa in Italia una scuola di sociologi romani, guidati da Franco Ferrarotti, che utilizzano la fotografia con due obiettivi: quello di richiamare l’attenzione sulle condizioni di marginalità delle periferie e delle borgate, e quello di permettere agli emarginati di prendere coscienza collettivamente del loro stato. Un nobile intento, certo, ma che trasformava la scienza sociale in militanza politica e consegnava la ricerca fotografica ad un approccio che, prima ancora che qualitativo, era drammaturgico ed espressivo.

    Nel tempo, di qua e di là dell’oceano, si è creato il postulato che la sociologia visuale sia un approccio qualitativo; lo ha affermato Howard Becker, constatando che il vero fotografico non può disgiungersi dalla dimensione estetica, lo hanno decretato i metodologi italiani riuniti a Parma negli anni ’90, mentre accoglievano con qualche riluttanza la ricerca visuale nel novero degli strumenti della ricerca sociale.

    L’errore lo ha commesso Becker; gli astronomi che utilizzano le fotografie per studiare la superficie di Marte, gli archeologi che adottano la fotografia aerea a infrarossi per scoprire i ruderi sotto i campi di grano, gli psicologi che analizzano i comportamenti non verbali e le dinamiche prossemiche, e persino molti etno-antropologi che classificano usi e costumi di culture in via di estinzione, non si creano il problema di un eventuale aspetto estetico delle immagini e, soprattutto, utilizzano quest’ultime in chiave prevalentemente quantitativa.

    In realtà, non esiste contrapposizione di principio tra analisi qualitativa e analisi quantitativa: si tratta di soluzioni diverse a disposizione del ricercatore, per trarre il massimo dell’informazione dai fenomeni sociali. L’unica clausola da rispettare è che il percorso sia metodologicamente, cioè scientificamente fondato; per il resto, è una questione di opportunità. Il problema nasce quando l’uso dell’approccio qualitativo si dimostra la conseguenza di una opzione estetizzante, ideologica, espressiva, che non ha nulla a che vedere con la scienza, e quindi anche con la sociologia.

    Da venticinque anni, cioè da quando ho per così dire “importato” in Italia la sociologia visuale come metodo scientifico, ho affrontato innumerevoli casi in cui la sociologia visuale veniva praticata più come un’arte esoterica, affascinante e creativa, che come uno strumento di ricerca al servizio di chiare premesse teoriche e governato da precise regole metodologiche. Così, bastava brandire una macchina fotografica o una telecamera per sentirsi in diritto di fare sociologia visuale, e magari di fare una sociologia alternativa; mentre invece si faceva solo qualcosa di alternativo alla sociologia e alla scienza. Il che è perfettamente lecito se si è artisti, giornalisti, pubblicitari o dilettanti allo sbaraglio; ma è inaccettabile se si è sociologi.

    Ma che cosa è la sociologia visuale? Non è una disciplina, ché altrimenti sarebbe una branca della sociologia che si occupa di comunicazione visiva, e questa branca c’è già. Non é una tecnica, perché in tal caso si mortificherebbe come mera capacità di adoperare una fotocamera.

    Ritengo che essa sia un metodo: ma, attenzione, non semplicemente nel senso di una procedura di ricerca logicamente corretta, ma come un modo (metodo) specifico di presa in considerazione e di conoscenza della realtà sociale. In effetti, l’immagine - sia essa fissa e, a maggior ragione, in movimento e corredata di sonoro - dà conto della realtà nella sua immediata interezza, nella sua vera forma olistica in cui tutti gli elementi sono contemporaneamente connessi fra loro. La realtà sociale è sistemica: quando noi la descriviamo verbalmente, e per iscritto, rompiamo e frammentiamo la sua unità, e siamo costretti a darne conto in termini sequenziali. L’immagine, al contrario, ci restituisce il fenomeno sociale nella sua connessività e nella sua contemporaneità.

    Di qui, il possibile “primato” della sociologia visuale in tutte quelle fasi della ricerca sociologica in cui si pratica l’osservazione; ma anche la necessità di affiancare alla sociologia visuale altre tecniche di indagine, dal questionario alla network analysis, dall’intervista all’analisi secondaria di dati statistici, ogniqualvolta l’osservazione non sia sufficiente a dar conto del problema. In altri termini, la sociologia visuale offre un nuovo “punto di vista” da cui analizzare la realtà sociale; ma né l’unico, né necessariamente il migliore. Purché sia un punto di vista scientifico, non estetico o ideologico. Qualcuno si chiederà: scientifico in che senso? Per carità, vada a leggersi Popper, Einstein, Merton o Statera e alla fine certamente capirà.

    L’immagine in ogni caso non parla da sola. Certo, abbiamo a disposizione dei codici denotativi (iconici e iconografici) che ci permettono di interpretarne correttamente il contenuto manifesto; ma il significato ulteriore, il denotato, che desideriamo assegnarle dipende esclusivamente dall’uso che se ne fa. E così, si adottano anche codici connotativi di tipo estetico, informativo, espressivo, o scientifico. Diversi fra loro, come sono diversi gli ambiti in cui una foto può essere utilizzata.

    Nella ricerca visuale, in ogni caso, si utilizzano sia immagini preesistenti, sia immagini create ad hoc per la ricerca. Nel primo caso siamo di fronte a fotografie e filmati prodotti da altri per altri motivi che il ricercatore faticosamente tenta di riutilizzare in chiave scientifica; in un’analisi di tipo before and after, quando si vuole studiare il cambiamento (in genere in ambito urbano e rurale, ma anche in rapporto a dinamiche e rituali sociali di vario genere) è inevitabile che le immagini di partenza, di riferimento, siano state prodotte da soggetti estranei al progetto con finalità ben differenti.


    Esempio di before and after:
    una piazza di Viterbo nel 1880 ( a sin.) e nel 1978 ( a destra)

    Ma nel secondo caso, e come avviene nella maggior parte degli studi di sociologia visuale oggi, è il ricercatore a programmare e a produrre appositamente certe immagini ai fini esclusivi dell’indagine, e quindi ne è anche unico responsabile.

    In molti casi si tratta di un’analisi dei processi di interazione, oppure di una descrizione di ambienti e spazi sociali, o ancora di foto-stimolo utilizzate nel corso di interviste e life-stories.


    Confronto fotografico tra lo spazio verde disponibile in un’abitazione di un quartiere residenziale (a sin.) e quello disponibile in una villetta di periferia ( a destra)

    Un caso particolare è costituito dal cosiddetto Saggio Sociologico Visuale: si tratta di dati visuali, selezionati e rimontati al fine di creare un prodotto di carattere informativo e divulgativo.

    La sociologia visuale tutto sommato è un approccio giovane, che subisce ampiamente i suggerimenti, le suggestioni e l’aiuto del progresso tecnologico; quindi, è in costante fase di perfezionamento. E’ per questo che, da un lato, ancora è necessario parlarne in termini teorico-metodologici, e dall’altro ha urgente bisogno di esperienze di ricerca sul campo, per affinare i metodi e per delimitare meglio il proprio campo di applicazione.

    I giovani che si avvicinano per la prima volta alla sociologia visuale mostrano talvolta di cadere in qualche equivoco: taluni si aspettano da essa promesse che non è tenuta a mantenere, altri la confondono con differenti orizzonti della comunicazione visiva. In generale, è richiesto di sapere di sociologia visuale solo ai ricercatori, ai sociologi, quelli veri, che sono tali non perché sanno concionare brillantemente nei salotti buoni sui problemi della società, ma perché fanno effettivamente ricerca sul campo. Essendo esclusivamente un supporto alla ricerca, la sociologia visuale non produce di per sé figure professionali; eventualmente, è una laurea in scienze sociali che può produrre buoni ricercatori, e fra questi buoni sociologi visuali. Dice: ma occorre saper usare fotocamere e telecamere; ah, certo, ma non più di quanto non si debba saper maneggiare la matematica se ci si deve orizzontare tra dati demografici e sociometrici. Qualche sociologo allergico alla tecnologia si fa aiutare da fotografi e tecnici professionisti; però è lui a fare ricerca, gli altri non sono sociologi visuali, sono solo braccia armate della sociologia visuale. Tanto per non cadere in improvvide confusioni.

    Riferimenti bibliografici

    F. Mattioli, Sociologia visuale, ERI, Torino, 1991.
    F. Mattioli, La sociologia visuale: che cosa è, come si fa, Bonanno, Acireale-Roma, 2007.
    M. Ciampi, La sociologia visuale in Italia, Bonanno, Acireale-Roma, 2007.
    D. Harper, P. Faccioli ( a c. di), Mondi da vedere, F. Angeli, Milano, 1999.


    Collana Quaderni M@GM@


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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