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  • Il m@gm@ costitutivo dell'immaginario sociale contemporaneo
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.6 n.3 Settembre-Dicembre 2008

    GRAMSCI E KEATS: IL POETICO E IL POLITICO DISCUTONO IN UN CIMITERO ROMANTICAMENTE ANTROPOLOGICO

    Massimo Canevacci

    massimo.canevacci@fastwebnet.it
    Docente di Antropologia Culturale presso la Facoltà di Sociologia dell’Università La Sapienza di Roma, è Direttore e curatore della rivista "Avatar".

    M@gm@ festeggia la festa dei suoi/nostri primi sei anni. Sembra quasi straordinario che sia trascorso già tanto tempo. E sappiamo bene quanto si siano accelerati i tempi - anzi gli spazi-tempi - tra i flussi della comunicazione digitale. Per affrontare in un modo degno tale evento, ho pensato di svolgere un tipo di scrittura riflessiva in cui la dimensione saggistica si incroci con quella narrativa. I percorsi della mutazione metropolitana a Roma, vista dalla mia casa, mi permettono di assemblare due autori così diversi e che un approccio compositivo adeguato alle culture digitali può e forse deve far dialogare. Gramsci e Keats, appunto…

    Oggi è un giorno caldo qui a Roma. Molto più caldo del normale. Sto seduto nel mio balcone e vedo le mie piante che sono ormai secche. Solo i gerani resistono a questa calura. La vista è quella solita: bellissima, estesa su una parte della mia città che unisce elementi architettonici di epoche storiche diverse, da cui emergono da un passato remoto mura antiche che dovevano difenderla dai barbari, aperte da un ingresso ancora suggestivo, una vera porta per entrare a Roma. Di lato una bizzarra piramide che un antico romano ricco e kitsch - Caio Cestio - si è fatto costruire per la sua memoria, in un anticipo sul post-modern style. Nessuno dei miei amici specie stranieri che mi viene a visitare immagina che sia una “vera” piramide, cioè in genere si pensa che è stata rubata dall’Egitto come un obelisco e trasferita qui. Lungo il perimetro destro delle mura vi è un cimitero speciale: lì, tra gli altri, è sepolto Gramsci insieme a Keats. Un poeta e un uomo politico. Noi lo chiamiamo il cimitero degli inglesi, perché ci sono sepolti i non cattolici, quindi non solo britannici protestanti, ma anche greco-ortodossi, ebrei romani o persino esponenti dell’umanesimo che molto impropriamente, a causa dell’influenza delle religioni monoteiste, qualcuno si ostina a definire atei.

    Sullo sfondo si innalzano i cilindri metallici di due gazometri, altri ruderi di una Roma industriale che stanno per essere trasformati in teatro e in giardino botanico. Altri miei amici, in genere romani, apprezzano di più queste rovine recenti a quelle classiche: e comunque il loro montaggio panoramico aumenta la suggestione impura e sincretica. Le modalità di questa transizione dal moderno industrialista alla nuova metropoli comunicazionale si può verificare attraverso questo luogo, quando - diventando una zona notturna - cambia la sua identità da industrialista gasata a musicale industrial.



    Durante la notte bianca del 2006 il gazometro è diventato un’opera luminosa e sonora. Forse ogni location ex-industriale può diventare spazio performatico, espositivo o seminariale. Tutto diventa possibile dentro questo strano corpo cilindrico. Ed è sorprendente come si innesti dentro questo corpo - il corpo-gazometro - un feticismo che lo anima, lo possiede, lo rende vivo e scorrevole dopo un secolare immobilismo mono-funzionale. Un feticismo visuale e sonico: cosparso di tracce al neon, durante la “notte bianca 06”, anche lui si è imbiancato, illuminato da accensioni geometriche che ne ridisegnavano il corpo, come un maquillage che restaura un corpo invecchiato precocemente e lo rende di nuovo giovanile e scattante. Dalle sue interiorità cilindriche sono emesse fluttuanti musiche industrial, come ad accompagnare la sua resurrezione: e così il gazometro ha danzato, musicato, illuminato per una lunga notte, meravigliando di stupore quanti lo percepivano solo come ferro arruginito da pensionare: e che invece del tutto all’improvviso è diventato strumento scenico e compositivo di musiche luminose.

    Infine, sempre dal mio infinito panorama, emerge il Testaccio, da tempo quartiere già popolare, dal simbolico colle creato con i cocci delle anfore che arrivavano al vicino porto, ora zona di scorrimento della vita notturna dove (di notte), non si circola se non a piedi e con difficoltà.

    Questo caldo torrido e secco mi fa pensare alla morte, alla morte delle cose più che delle persone. E mi immagino in un futuro remoto cosa si possa mai capire di questo strano angolo di Roma dove si sovrappongono e coesistono stili e epoche così diverse. Le ceneri di Gramsci sono una poesia di Pasolini dedicata al fondatore del Partito Comunista Italiano. E se anche le piante qui sembrano incenerite, mi sorprendo a pensare come l’archeologia possa relazionarsi agli esseri umani. Archeologia e antropologia. Già. Gramsci era sardo, nato in quella splendida e solitaria isola; era infermo, un fisico ingobbito devastato da una malattia delle ossa. Eppure da giovanissimo andò a Torino perché voleva fare una cosa che in futuro forse apparirà bizzarra: l’inchiesta operaia. Ma non quella dei sociologi, no, quelli che fanno la job evaluation oppure applicano taylorismo oppure toyotismo ai ritmi della produzione; oppure quelli che capiscono la fine dell’era industriale senza aver mai sentito che il genere industrial e noise ha accompagnato e anticipato questo processo molto meglio e tanto prima di questi scienziati sociali. No di certo. Era il suo - quello di Gramsci - un modo per capire il punto di vista operaio rispetto al lavoro, per poterne cambiare la “natura” e sviluppare l’autonomia di ogni singolo produttore. Persone costruttrici del proprio destino, non solo di macchine. Sì macchine, perché Torino è stata a lungo la capitale dell’auto. La Fiat. La più importante città industriale da cui doveva partire la rivoluzione.



    La sua tomba è semplice e sempre qualche mano gentile vi colloca una rosa. Una rosa rossa come il suo ideale. Ci vado di frequente e spesso trovo persone raccolte e commosse. Con discrezione isolata. La commozione continua con Keats, perché la poesia è parte costitutiva di ogni rivoluzione: nella sua lapide forse tra qualche secolo si potrebbe ancora leggere “Here lies One whose Name was writ in Water”. La scrittura poetica muove le lettere che si assemblano e si disperdono tra le increspature delle onde. Poesia d’acqua. Una poesia che è liquida come dovrebbe essere il lavoro operaio. E non solo. Poesia e rivoluzione.

    Allora immagino dal mio balcone che i due - Gramsci e Keats - si incontrano di sera, al tramonto che qui spesso è acceso di fuoco. Si incontrano tranquilli e solitari, e discutono appassionatamente sulla loro morte avvenuta spazialmente vicino: per il poeta, sull’inizio della celebre scalinata a piazza di Spagna dove aveva una bella casa; per il politico, nel tetro carcere.

    “Quel cervello non deve pensare” - così diceva Mussolini di Gramsci. Lo diceva un tipo che è stato quel feroce dittatore che ha inventato il termine “fascismo” usurpando una grande tradizione dell’antica Roma: i fasci, infatti, erano le insegne del potere politico che unifica la res publica. Questo concetto nato nella Roma per l’appunto repubblicana è più intenso di democrazia. Perché democrazia, caro archeologo che dovresti saperlo bene, mantiene il termine di potere (crazia) che a me non piace quand’anche popolare. Repubblica invece afferma che la “cosa” è di tutti e che questa cosa è un sogno. Il sogno di una cosa, così la chiamava sempre Pasolini riferendosi a Gramsci. E una cosa sognata e da sognare era appunto una visione pubblica di questa strana cosa - non collettiva! Stia attento caro archeologo - pubblica nel senso che coinvolge e avvolge l’insieme dei cittadini con tutte le diversità. Ed è qui che entra l’antropologia…

    Gramsci sognava e discuteva con Keats come immaginare questa cosa pubblica che lui chiamava comunismo e Keats ascoltava attento e immaginava corpi di donna percorsi da lettere d’acqua. Sosteneva che scrivere sull’acqua era come scrivere sul corpo della donna amata. E Gramsci a udire queste parole rimaneva zitto, coi suoi occhialini stretti sul naso, fumando lentamente anche se non aveva più polmoni. Così i nostri due amici stavano a lungo in silenzio e si guardavano: entrambi non avevano avuto grandi esperienze d’amore. Forse la poesia vorrebbe essere vissuta come la politica. Forse anche viceversa o forse entrambe non cercano che amore.

    Il cervello di Gramsci rimase più di 20 anni in una prigione che si chiama Regina Coeli. Si pensi che cosa assurda sia la costruzione di un carcere: essa ha una struttura architettonica che dovrebbe immettere quei poveri reclusi nelle braccia della “regina del cielo”, cioè essa è costruita sul modello del panottico. Penso che ormai tutti sappiano - o dovrebbero sapere - cosa significhi questa concezione di un edificio-penitenziario con al centro il grande occhio del guardiano (colui-che-guarda) attraverso cui osservare tutti i bracci dove erano rinchiusi i prigionieri. E questi penitenti non avevano un momento né un interstizio di libertà. Eppure nonostante la strettissima sorveglianza, Gramsci riuscì ad avere dei quaderni su cui scriveva in continuazione con la sua calligrafia precisa e minuta.



    Penso di nuovo una cosa rosso fuoco forse a causa del tramonto: che forse è cosa blasfema trovare affinità tra la Madonna regina-del-cielo e il panottico di Bentham che ti osserva sempre anche nei momenti di più esclusiva intimità. E che forse è proprio questo concetto di peccato legato perversamente a uno sguardo controllatore che lega carcere e paradiso. Che avessi scoperto la trama che connette a senso unico questi due mondi apparentemente così distanti e anzi opposti! Voglio dire che è il paradiso ad essere carcere non certo il carcere ad essere paradiso, chiaramente.

    Il cimitero è un luogo di morte, né carcere né paradiso, si entra dentro sempre con una attenzione particolare come se i suoi inquilini potessero essere disturbati. La morte va rispettata, non temuta. E per questo che intorno e dentro questo cimitero ci sono alberi rigogliosi, pini e cipressi. Loro sono sempreverdi. E l’aria trasparente scorre come l’acqua su cui scrivere poesie per un amore lontano eppure ravvicinabile dal desiderio dell’immaginazione. Solo poesia e politica incrociate potranno cambiare qualcosa del mondo, come genealogi attenti potranno verificare qui, in questo piccolo spicchio di terra dove convivono i nostri amici. Gramsci scriveva su Machiavelli. Attenzione, i libri di storia sono spesso dei manifesti alla stupidità umana. Machiavelli non è stato solo l’inventore della scienza della politica, staccata da morale, religione e metafisiche, ma una importante figura che incorpora l’impotenza dell’intelligenza. Per lui era fondamentale – stiamo nel 500, quando l’Italia rinascimentale a livello culturale esprime il massimo della sua creatività – trasportare la potenza della cultura dentro la politica e costituire l’unità d’Italia, anziché lasciarla così divisa in mano straniera. Insomma anche Machiavelli voleva unirsi a Leonardo. Ma non gli riuscì e l’Italia sprofondò in secoli bui. E allora, dice Gramsci, un nuovo principe che riscatti non più la nazione (che da tempo si è affermata) bensì i lavoratori tutti: questo il suo compito e questo moderno principe per lui era il Partito.

    Può un archeologo del futuro scoprire cos’è un partito? …. Non so … mi sembra difficile. Anche perché ormai da tempo i partiti così come erano sono finiti. Per questo si deve guardare dentro questo cimitero poetico-politico, oscillando sempre tra questi due estremi, tra le tombe del poetico e del politico. Gramsci stava in isolamento carcerario, eppure le cose più lucide le ha scritte lui e non solo su Roma o sull’Italia, ma forse sull’intera area “occidentale”, altro termine strano. Forse ora può sembrare ovvio, ma per lui l’economia (di cui era attento studioso) non determinava la cultura, come una scolastica detta marxista affermava al tempo - per il controllo panottico di Stalin su tutti i partiti detti comunisti - ma anzi aveva una forte autonomia. Anzi la cultura per lui - incarcerato - stava diventando asse centrale attraverso cui svolgere la politica e da questo deriva il suo concetto più noto: egemonia. Un partito cioè non è apparato burocratico o dittatoriale o verticistico: deve praticare un paziente coinvolgimento e convincimento delle persone, specie quelle non lavoratrici, che non vanno eliminate e tantomeno stigmatizzate, bensì con cui svolgere una riflessione culturale che possa egemonizzare, appunto, strati sociali o generazionali, adesso diremmo anche etnici e di genere, diversi dagli operai. Insomma, l’egemonia è poesia, la poesia sottile e quotidiana della politica.

    Ora il confine esterno del cimitero è protetto dalle mura che risalgono all’imperatore Aureliano. Vi sono feritoie e torrette, bocche di lupo e fossati. Un sentiero sterrato lo accompagna e da lì ci si può affacciare nel sottostante scenario che si congiunge alla piramide che dal suo proprietario si chiama Cestia. Per me è il paesaggio più romantico di Roma. E anche più squisitamente antropologico. Forse nessuno ci crederà, ma questa sera, dopo che l’oscurità è succeduta al tramonto, ho pensato di camminare solitario sotto le mura quando ho alzato gli occhi: ebbene sono sicuro di aver incrociato i due, ma sì proprio Gramsci e Keats, che discutevano un po’ in inglese e un po’ in italiano.

    Parlavano animatamente di poesia. Era bizzarro perché Gramsci conosceva bene le poesie di Keats, mentre questi non poteva conoscere i quaderni del carcere. Quaderni del carcere: si sa che in questi quaderni lui scriveva di tutto: dalla cultura popolare al fordismo, dalla critica al centralismo democratico in vigore in quel partito (e pochi sanno che Gramsci fu perfino espulso dal partito dai membri della cellula – così si chiamavano i membri della stessa sezione del partito) al cinema americano. Insomma letteratura ed economia erano intrecciate e si transitava dall’una all’altra con freschezza e puntigliosità. Ma pochi sanno una cosa che veramente fa sognare. Questi quaderni furono fatti “evadere” da una persona poco conosciuta ma che è anche lui un nome scritto nell’acqua: Piero Sraffa, un valente economista che lavorava in Inghilterra, proprio vicino a dove Keats aveva vissuto i suoi brevi anni, esule dall’Italia fascista ma col permesso di visitare l’amico. Uno che ha scritto produzione di merci per mezzo di merci. Insomma Sraffa aveva capito tutto rispetto alla teoria del valore-lavoro, che gli archeologi hanno difficoltà a reperire tra i resti di anfore o merci andate a male: non più basato sul plus-lavoro e plus-valore, ma sulle macchine-merci che aggiungono esse stesse valore ad altre merci e non più il lavoro operaio. Merci-quasi-immateriali. Sensibilmente sovrasensibili.

    Alla fine udii distintamente che Gramsci chiedeva un favore al suo giovane amico: di insegnargli a scrivere il suo nome nell’acqua. E Keats - già triste di suo - era come disperato, perché lì, in quel cimitero per quanto bello non c’era acqua. Non solo. Ai morti l’acqua è preclusa. I vivi pensano che loro non hanno sete. Ma poi il poeta si mosse e il politico lo seguì turbato dalla serietà dell’amico. Mi arrampicai sulle mura per poter vedere cosa stava accadendo e vidi qualcosa anche se non tutto. Keats prese con molta precauzione un vaso ricolmo di fiori che accompagnava il soggiorno di un emigrato russo, forse un russo bianco anti-rivoluzionario e, come chiedendo scusa, poggiò i fiori appassiti ai margini della tomba. E così fece con altri vasi muovendosi rapido tra le tombe ben conosciute, fino a riuscire a riempire d’acqua un gran recipiente. Tornò vicino al politico e, lui poeta, gli mostrò il contenuto del vaso e rimase immobile qualche secondo, poi con uno scatto insospettato ne gettò il contenuto verso l’alto. Gramsci alzò la testa e sgranò gli occhi, perdendo gli occhiali sottili. Ma vide. L’acqua sgranata disegnò come un foglio liquido sull’aria e per un attimo rimase così, come indecisa se rimanere ferma a galleggiare nell’aria o precipitare a terra: in quell’attimo sospeso vidi che Gramsci mosse rapido le mani e le gocce scrissero qualcosa, ma non il suo nome. Non riuscii a vedere bene, eppure sono sicuro che le gocce d’acqua scrissero:
    il sogno di una cosa will be writ in the water…
    … e poi si sparsero sulla terra stupita.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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