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  • Il counseling e le culture: le culture del counseling
    Massimo Giuliani (a cura di)

    M@gm@ vol.5 n.2 Aprile-Giugno 2007

    ECONOMIA POLITICA DEL SÉ E COSTRUZIONE SOCIALE DELLA CURA: VERSO UN'ANTROPOLOGIA DEL LAVORO DI RETE

    Guido Veronese

    guido.veronese@tiscali.it
    Si è laureato a Padova in Psicologia ad indirizzo clinico e di comunità; È psicoterapeuta della famiglia, della coppia e dell'individuo e mediatore famigliare di orientamento sistemico; Dottore di ricerca (Phd) in Psicologia Clinica, collabora come ricercatore assegnista con la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Milano Bicocca; Svolge attività clinica privatamente e come consulente presso il consultorio accreditato della clinica Mangiagalli di Milano; si occupa di psicologia dell'emergenza in collaborazione con l'Institue for Family Therapy and research "Al Madina" di Nazareth.

    Obiettivo del presente lavoro è evidenziare alcuni fattori che intervengono nell'alimentare lo stereotipo riduzionista ed universalista della cura in ambito interculturale, avvallando e reificando il costrutto dicotomico di retaggio etnopsicologico di modello di cura Occidentale contrapposto ai saperi tradizionali (Beneduce, Roudinesco, 2005 ). Una tale deriva presenta come principale rischio quello di proporre nuovamente modelli di intervento Unici, di retaggio post coloniale, disincarnati dalle possibilità del quotidiano e dalle pratiche cliniche del territorio e di riprodurre una cornice di riferimento occidentalista oggettivante di matrice medica, psichiatrica e psicoanalitica. Lo sviluppo di approcci che tengano conto delle influenze culturali e dei significati molteplici che determinano in primis la costruzione dei sé e delle identità, e poi di definizioni socialmente condivise come quelle di disagio e cura, non possono prescindere dalla necessità di composizione delle dicotomie e delle definizioni polarizzanti denotative di gran parte delle teorie della mente e delle tassonomie psicopatologiche. Ridimensionare le definizioni etnocentriche, coordinandole in un sistema di significati molteplice, fluido e cangiante, consente di orientare il focus della cura all'analisi dell'interazione dei sistemi curanti e curati, intesi come codeterminanti dei percorsi diagnostici e dei percorsi di intervento. Lavorare con la rete significa tenere conto di tutti quei livelli di contesto che interagiscono nel processo di presa in carico della persona, del suo micro-contesto di relazioni, della comunità di appartenenza e del modello culturale di riferimento. L'articolo si chiude con un'esemplificazione clinica di lavoro con la rete in un setting di counseling interculturale.

    Psicoanalisi ed etnopsicologie: la cura come "corpo unico"

    "L'idea di un metodo che contenga princìpi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell'attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica " (Feyerabend, 1975, pg.22). Prendendo in prestito le parole di Feyerabend (1975), è possibile guardare alla psicoanalisi come ad un tentativo di ridurre le differenze antropologiche ad un corpo unico declinabile entro il paradigma della «situazione analitica», ovvero ad un corpus di leggi ascrivibili all'universo neurobiologico (Lévi-Srauss, 1958). Una tale riduzione non tiene conto di come la psicologia, storicamente, non sia riuscita a collocarsi nei confronti della psicopatologia come la fisiologia si pone nei confronti della medicina e di come, nel tempo, essa abbia dovuto vieppiù sfumare i confini tra normalità e patologia (Foucault, 1954). Il mero confronto psichiatra-paziente, analista-paziente, asimmetrico, scismogenetico, oggettivizzante di un sistema diagnostico e nosografico maschile, bianco e modernista, non rende conto del fluire storico dei modelli e dei sistemi di significato e diventa custode di un'ortodossia, l'ortodossia ex-post, alla quale anche le scienze hard ricorrono sempre più in via del tutto eccezionale e che tendono in generale ad evitare (Barbetta, 2003). La trasformazione continua del discorso diagnostico e dei linguaggi ad esso connessi, perlopiù di matrice medico-analitica, costringe la tassonomia psichiatrica ad un'asintotica rincorsa del prestigioso status di scienza corroborata dall'evidenza empirica (Gabbard, 2005; APA, 2004). Nell'atto estremo di "essere giusti con Freud", Jaques Derrida (1992) enfatizza, tuttavia, la dinamicità in nuce nel pensiero psicoanalitico, ascrivibile a quella dialettica che consentirebbe, attraverso la problematizzazione di un corpus di idee che incontra "pratiche" in azione, di liberare lo stesso pensiero freudiano da critiche altrettanto oggettivanti ed universalizzanti (Nathan, Stengers, 1995). La trappola entro cui l'etnopsicologia ortodossa sembra essere incorsa nell'inseguire il feticcio dell'Alterità, consiste nella tentazione di fare dell'Invisibile, del Sé collettivo tradizionale, un nuovo "corpo unico", un' "etno-universalizzazione" altrettanto reificante della metafora polisemica di cura (Beneduce, 2005). È come se, a qualche livello, l'etnopsicologo (maschio, occidentale e bianco) indicasse tra le righe al collega wolof o allo psicoanalista magrebino come decriptare la propria alterità, indicando la via regia per esprimere l'alfabeto del loro mondo interno ed esterno (Mudimbe, 1988). La pretesa, ad esempio, di tracciare le linee di una «mens africana» appare rischiosa e poco corroborata dalla ricerca antropologica che, anzi, tenderebbe ad evidenziare dimensioni idiosincratiche, decostruendo lo stereotipo dicotomico delle società tradizionali africane con la loro dimensione gruppale versus il soggettivismo dell' Occidente (Beneduce, 2005). A costrutti culturali come quelli di «soggetto», «sè», corrispondono costrutti altrettanto virtuali come quelli di «doppio», «invisibile».

    Un'economia politica del sé (Shaw, 2000) dovrebbe tenere conto della posizione dell'individuo rispetto al gruppo di appartenenza e del suo soggettivo comporsi al modello culturale di riferimento, in una relazione circolare e riflessiva, relazione in cui individui e società sono costitutivi gli uni dell'altra (Harré, 1993). Pensando alla sofferenza ed al disagio come ad una costellazione polimorfa, irriducibile a rigide strutture gerarchizzate, non possiamo che tener conto di tutte quelle variabili, temporali, storiche, culturali, che fanno di sofferenza e disagio aspetti virtuali costitutivi della dimensione antropologica della persona e del suo modello culturale di appartenenza (Benedict, 1934).

    Costruzione sociale della cura: le reti relazionali come principi costitutivi dell'identità malata

    Il concetto di positioning (Harré, 1998) consente un primo ed importante sforzo di relativizzazione degli universali determinanti le teorie della mente, le psicopatologie e le pratiche di cura occidentali.

    L'individuo, secondo una prospettiva socio-costruzionista, corrobora il proprio sistema identitario, attribuendogli senso e statuto di esistenza, attraverso l'interazione con contesti di apprendimento multipli, micro-sociali (la famiglia) e macro-sociali (il gruppo, la comunità, la società). I discorsi relativi alle dimensioni di normalità e patologia costituiscono a livello individuale quell'insieme di voci polarizzate che definiscono la persona come "integrata", "funzionante", "sana" da una parte e "diversa", "marginale"o "patologica" rispetto al proprio sistema culturale dall'altra. Ad esempio, in una famiglia in cui il successo, la riuscita sociale, le rispettabili apparenze, costituiscono il copione conversazionale maggiormente valorizzato e saliente, un figlio che fallisce la propria mission scolastica, che aderisce a movimenti controculturali o subculturali, si collocherebbe nella conversazione familiare nella posizione di "malvagio" nei migliori dei casi, di "malato" molto più facilmente (Ugazio, 1998). Allo stesso modo, un migrante che sia fuggito da un contesto di guerra e persecuzione, che abbia attraversato il mediterraneo su una delle famigerate "carrette del mare" - a prescindere dalla propria storia e dallo status socio-economico nel Paese di origine- potrebbe essere facilmente definito (e definirsi), all'interno del discorso diagnostico propugnato dal sistema curante del Paese che lo accoglie, come un disturbo postraumatico da stress, un disturbo dell'adattamento e così via (Barbetta, 2003).

    Si enfatizza, da questo punto di vista, come individuo, famiglia e società costituiscano in una fitta trama di narrazioni i codici connotativi della microfisica del potere (Foucault, 1975), ovvero di quell'insieme di tecnologie dell'educazione e della clinica che fanno del singolo individuo un sistema di controllo di sé su di sé, al servizio di uno status quo autoproducentesi all'interno di sistemi di significato, di discorsi, condivisi.

    La salute non può in tal senso definirsi semplicemente come assenza di malattia e la malattia non può essere ridotta a deviazione dalla norma, l'uno e l'altro aspetto sono "un concetto dinamico che si manifesta nel sistema culturale di appartenenza" (Capararo, 2003, p.53). Dunque la cura stessa assume una specifica posizione all'interno della danza creativa tra sistema curante e sistema curato, danza creativa ed autopoietica, in cui - attraverso un costante rapporto riflessivo tra i diversi elementi dei sottosistemi - le parti interagenti di volta in volta contestualizzano e sono contestualizzate dall'uno e dall'altro livello in giuoco: il livello istituzionale, il livello individuale o autobiografico, il livello familiare, il modello culturale ec. (Pakman, 2000; Schön, 1991). La conoscenza pratica (Hoffmann, 2002) ed in azione può guidare i professionisti della cura verso modi di pensare complessi e sistemici, ovvero li può orientare ad una sempre maggiore attenzione al contesto generativo dei comportamenti umani in cui "attori competenti sviluppano condotte di vita possibili"(Pakman, 2003, p. 38).

    L'incontro di diverse antropologie - filosofica, medica, psicologica, dell'individuo e delle società - costituisce quella fitta ragnatela i cui fili assiali rappresentano l'individuo, la famiglia o il gruppo sociale presi in carico e i loro sistemi identitari, i fili radiali tutti quei sottosistemi (psicoterapeutici, psico-sociali, pedagogici, medici ec.) che intervengono nella costruzione sociale del percorso di cura, dalla diagnosi fino al processo riabilitativo.

    Counseling sistemico ed interventi multidisciplinari: verso un'antropologia della rete

    Il lavoro d'équipe e con il territorio, gli interventi multidisciplinari e a setting multipli hanno tradizionalmente informato la pratica clinica dei modelli familiari, sistemici e sistemico-familiari (Asen, Schuff, 2006; Eisler et. al., 2003; Selvini Palazzoli et al., 1975).

    Una delle idee cardinali che corrobora il pensiero sistemico è la possibilità di operare su livelli multipli di contesto (Pearce, Cronen, 1985) in quanto le cornici di riferimento in cui l'uomo costruisce la propria identità, le strutture che connettono (Bateson, 1972), fanno di esso un sistema vivente che costruisce significati entro una "mente contestuale".

    I diversi modelli culturali che influenzano i setting in cui professionisti della cura si trovano ad agire, contribuiscono a costituire linguaggi multiformi e polisemici che si inseriscono a pieno titolo in una cornice epistemologica postmoderna (Knapik, Miloti, 2006). Il linguaggio, secondo la prospettiva postmodernista, acquisisce significati non su base autoreferenziale ma attraverso il suo utilizzo nelle pratiche sociali (Gergen, 1994). In tal senso la relazione costruisce passo dopo passo una fitta rete di significati che relativizza i significanti attribuendo loro la funzione di metafore cangianti. Depatologizzazione, riduzione delle asimmetria tra sistema curante e sistema curato, coordinamento di sistemi di significato multipli sono la diretta conseguenza della crisi modernista e dell'emergere di paradigmi relativisti e postmoderni (Potter, Wetherell, 2003). Le strutture che connettono i diversi sistemi di significati costituiscono la rete, e la rete è un insieme di culture il cui intero è più della somma delle singole parti. Diverse culture, diverse posizioni ed opposizioni, diverse normalità, costituiscono un fitto intrecciarsi di "isole genetiche", distinte e contemporaneamente connesse da ponti e traiettorie che fanno della dimensione dialogica il primum movens evolutivo di individui e società postmoderni. Antropologia e etnometodologia forniscono alla pratica della rete carburante metodologico e teorico; esse indicano la strada dell'interpretazione attraverso il resoconto, attraverso la pratica della conversazione dialogica e attraverso il coordinamento delle azioni, degli universi simbolici di significato alle norme sociali (Heritage, 2001). Un'antropologia della rete contribuisce alla promozione e allo sviluppo di competenze culturali nella relazione di aiuto, attraverso l'esplorazione degli ambienti, dei sistemi e dei sottosistemi in gioco e della loro interazione, verso una concezione del benessere culturalmente sensibile (Purden, 2005).

    Counseling e lavoro di rete in contesti multiculturali: vincoli e possibilità

    Operare in contesti multiculturali costringe sempre più ad un lavoro di rilettura, di gestione e ri-costruzione del contesto di cura. Occorre, cioè, una conoscenza approfondita delle parti che concorrono alla co-creazione di tale contesto. Appaiono imprescindibili domande del tipo: "Chi?" (contesto persona) prendiamo in carico (individui, famiglia, gruppi familiari, vicini, notabili, figure religiose ec.), "Dove?" (contesto luogo) operiamo e estendiamo la nostra azione di cura (clinica, casa, scuola, moschea, tempio, chiesa ec.), "Quando?" (contesto temporale), in quali momenti della giornata e con quale gestione del tempo? (frequenza, durata); "Che cosa?" (contesto attività), il set può variare dalla tradizionale stanza terapeutica, al contesto naturalistico fino all'esposizione in vivo ed infine "Come?", ovvero il corpus di conoscenze cliniche e di tecniche che fanno dell'intervento un intervento di tipo sistemico, anziché etnopsichiatrico, umanista, ecc.. L'abilità "camaleontica" del sistema curante può a qualche livello garantire una buona riuscita dell'intervento, assicurando una presa in carico efficace e sensibile ai contesti (Asen, 2004).

    Le difficoltà esecutive che la pratica clinica ha più volte rilevato nel coinvolgere tutte le parti in causa nel processo di presa in carico e trattamento, possono esporre gi interventi di counseling interculturale sensibili ai contesti all'accusa di essere dispendiosi, time consuming e scarsamente praticabili. La tentazione del setting unico appare, a mio avviso, più di vantaggio al sistema curante che, assumendo una prospettiva universalistica, trascura la dimensione sistemica e riflessiva degli interventi di aiuto. Le pratiche standard consentono rendicontazioni agili e rapide ma del tutto disincarnate dall'oggetto d'intervento -spesso frammentato e/o passivizzato- e dai suoi riferimenti culturali. La dimensione monologica del setting di cura standardizzato consente solo apparentemente di contenere costi e di controllare efficacia ed efficienza dell'intervento, in quanto indaga un universo parziale di variabili. La complessità di un intervento di rete "camaleontico" consente la continua riformulazione di ipotesi e di significati, compensando un apparato solo apparentemente "mastodontico" con l'ingaggio di figure appartenenti a diversi contesti rese competenti, coordinate al sistema di cura e soprattutto a costo zero (pensiamo ad esempio all'utilizzo di vicini di casa, di amici, parenti, figure religiose, in luoghi come casa, supermercato, chiese ec.). Un esempio di intervento a basso costo e alta efficacia è quello proposto dal Marlborough Family Service di Londra (Asen et al. 2001), in cui uno o due operatori terapeuti, educatori ec. operano con più nuclei familiari in setting multipli avvalendosi della collaborazione di "famiglie esperte" che coadiuvano l'équipe terapeutica diventando parte operante del sistema che cura.

    Il contributo dell'alterità alla riedificazione di un corpus di pratiche efficaci e sensibili a modelli culturali molteplici e multiformi è fondamentale nella misura in cui enfatizza l'importanza della coesistenza nel sistema curante di team multidisciplinari e delle figure di riferimento significative nel contesto di apprendimento di chi venga preso in carico. Tutti gli stakeholder assumono un ruolo "competente" e centrale lungo l'intero processo di cura, fornendo competenze e conoscenze al servizio del sistema curante.

    In figura viene rappresentato un possibile scenario di presa in carico che tenga conto di tutte le componenti che interagiscono costituendo i livelli multipli di contesto entro cui ciascun elemento del sistema curante assume una posizione strettamente correlata alle posizioni degli altri elementi interagenti.



    FIGURA 1: struttura a ragnatela di contesti multipli e potenziali stakeholder che concorrono alla costituzione della rete che cura

    Diverse figure professionali ed istituzionali - fili radiali e perciò abbastanza agilmente rimpiazzabili nella ragnatela - possono assumere la posizione di consulente del sottosistema che accede alla cura. Quest'ultimo, insieme alle principali figure di attaccamento e agli "altri significativi" del suo contesto di vita, appare occupare un ruolo centrale - i fili assiali della ragnatela che costituiscono il centro vitale dell'intero sistema, senza il sostegno dei quali la rete stessa è destinata ad implodere - nella misura in cui determina le sorti del processo terapeutico. Un processo di cura o di aiuto che abbia raggiunto il suo obiettivo, ovvero restituire un benessere relativo al cliente, deve necessariamente contribuire ad un cambiamento nell'intera rete, fornire elementi evolutivi, piccole "catastrofi", che costituiranno un punto di discontinuità per l'intero sistema coinvolto nel processo. Scelte che privilegino le interazioni e l'alternarsi di livelli multipli di contesto contribuiscono ad una concezione polifonica ed estetica della cura: diverse voci a diversi livelli costituiscono il razionale del progetto che intende produrre benessere. Lo spostare il focus di interesse sulla salute mentale da una concezione che privilegi una sorta di restituito ad integrum, ovvero il ripristino di funzioni "normali", "giuste", "sane", ad un approccio sensibile alla comunità e ai modelli culturali, ovvero che si approssimi ad una concezione sistemica e pluralista della cura, contribuisce a rileggere la figura del professionista non tanto in termini di esperto, scienziato, guaritore, bensì di co-costruttore di benessere e di pace, di dialogo e competenza (Norsworty, Gerstein, 2003).

    Costruzione sociale della competenza all'incompetenza: Il caso di Giselle

    Giselle [1] ha 30 anni, soffre di una forte depressione da dopo la nascita di Leonardo, il secondo figliolo. Il maggiore, Gioele, ha cinque anni e frequenta l'asilo pubblico. È boliviana lavora come donna delle pulizie ma, da quando è divenuta per la seconda volta madre, può lavorare solo saltuariamente. Giunge presso un consultorio accreditato di un'importante clinica milanese perché disperata: gli ultimi eventi di vita la confermano entro quella cornice di impotenza appresa che da un anno a questa parte, da quando, cioè, è giunta in Italia, sembra circoscrivere le narrative identitarie della donna. Nelle ultime due settimane la depressione l'ha quasi immobilizzata; Giselle ora è terrorizzata dallo spettro di perdere i figli perché "incapace" di prendersi cura di loro. È sposata con Fredi, giovane tornitore di 27 anni. Appena arrivati in Italia Fredi appare disposto a rompersi la schiena per la propria famiglia e trova subito un buon lavoro che gli consente di ottenere il permesso di soggiorno. Anche Giselle viene assunta come domestica e le cose sembrano filar dritto finchè la ragazza resta nuovamente incinta. Fredi sembra non sopportare l'urto e piegarsi sotto il peso della responsabilità. Comincia a frequentare connazionali poco raccomandabili, riscopre il vizietto del bere, ereditato dalla Bolivia e infine, coinvolto in stato di ubriachezza in una rissa, viene carcerato per oltraggio e aggressione a pubblico ufficiale poche settimane prima della nascita di Leonardo. Giselle rimane sola, senza un lavoro fisso (viene licenziata perché accusata di aver mentito riguardo alla gravidanza ) è costretta ad abbandonare la casa che le forniva l'ex datrice di lavoro. Trova ospitalità dalla sorella maggiore e attualmente il nucleo ricomposto è costituito da sette persone che vivono in due locali. Giselle reagisce con tenacia ma al secondo mese di vita di Leonardo cade in uno stato di profonda costernazione. Fredi in prigione, la sorella di lei insofferente per l'improvvisa invasione della sua casa, due bambini a carico, sembrano costituire un fardello troppo gravoso da sopportare: è l'esordio della depressione. Giselle viene presa in carico dal CPS di zona, i servizi sociali si attivano per accertare le condizioni dei minori e valutare le risorse genitoriali della madre, la sorella di lei preme perché il prima possibile la liberi della sua presenza. Quando Giselle arriva al servizio di terapia della famiglia chiede all'équipe terapeutica di aiutarla a tenere con sé i figli, perderli sarebbe l'ultimo passo verso il suicidio.

    La storia di Giselle è costellata di fatica e sofferenze: ultima di tre fratelli, due maschi ed una femmina, figlia maggiore, frequenta nel suo paese studi universitari in scienze economiche. A venticinque anni, per sottrarsi all'asfissiante controllo della madre, Giselle decide di sposare Fredi, studente di ingegneria del quale rimane incinta. La madre non perdona a Giselle la sua scelta e la espelle da casa. Fredi, subito dopo il matrimonio, l'accusa di averlo incastrato e di avergli stroncato la carriera universitaria, la maltratta e spesso è violento con lei, soprattutto quando beve. Il sogno di libertà di Giselle si infrange contro il muro di rifiuto della madre e di instabilità del marito che alterna a momenti di furia, momenti in cui dichiara di amarla perdutamente. A complicare la già precaria condizione dei novelli sposi si aggiunge una tragica fatalità che costringerà la coppia ad abbandonare per sempre il loro Paese d'origine: tornando una sera dal lavoro, Fredi fa un incidente automobilistico con un militare molto influente che, di lì a poco, spoglierà il ragazzo e la moglie di tutti i beni. Giselle lascia la Bolivia per trascorrere qualche mese a Malaga, in Spagna, da un fratello con il quale i rapporti sono pessimi; giungerà poi in Italia dove, con l'aiuto della sorella, la ragazza troverà in poco tempo un buon lavoro. Fredi la raggiunge a Milano con il piccolo Gioele.

    Il lavoro terapeutico con Giselle è molto dificcile: più i counselor diventano interventisti, più Giselle sembra assumere una posizione passiva. I livelli di sofferenza della ragazza sono tali da farne via via sotto tutti i punti di vista una malata psichiatrica: imbrigliata dalla cura farmacologia, la donna assume un aspetto sofferente e privo di slancio vitale, non collabora e sembra rassegnata a perdere i figli, tanto da chiedere un sostegno per sopportare l'inevitabile separazione. Emergono antiche storie di abuso sessuale da parte dei fratelli, l'assenza di una figura paterna (Giselle non conobbe mai il genitore che dopo la sua nascita si diede alla macchia), l'intervento "salvifico" di una sorella preoccupata che le violenze subite dalla ragazza non fossero scoperte dalla madre, piuttosto che intenzionata a proteggerla dagli abusanti.

    Giselle vaga di servizio in servizio alla ricerca di un sussidio, di cura, di comprensione, di sfogo senza permettere che nessuno la prenda effettivamente in carico. Dopo quattro sedute di consultazione, l'équipe del consultorio si accorge di essere ad un punto di stallo: un tassello di più al mosaico di designazione che fa di Giselle un oggetto di cura vittimizzato e passivizzato, una malata psichiatrica cronica, incompetente e bisognosa di assistenza a trecentosessanta gradi: gli assistenti sociali, consapevoli dell'importanza dei figli per la sopravvivenza della donna, si attivano per fornire supporti di sopravvivenza insieme alla parrocchia di zona e per consentire ai bambini di incontrare il padre in un contesto protetto di «spazio neutro» ; il CPS, preoccupato dell'ingravescenza delle condizioni psico-fisiche della donna, fornisce massicce cure farmacologiche per scongiurare il peggio; la scuola materna, preoccupata da un Gioele sempre più taciturno e disforico nel tono dell'umore, fa di tutto per vicariare il ruolo materno di Giselle; i counselor del servizio di terapia familiare cercano di supportare la donna durante il faticoso processo di deterioramento, assecondando il motto che recite: «fino a qui tutto bene. L'importante non è la caduta, ma l'atterraggio» [2]. Giselle appare una paziente modello, non manca un appuntamento e trascorre gran parte dei giorni della settimana a peregrinare, come un anima dannata, di servizio in sevizio: non c'è operatore che non la abbia nel cuore e che non desideri prendersi cura di lei. Risultato : Giselle peggiora di settimana in settimana, Gioele diventa sempre di più un bambino parentificato in casa e caratteriale a scuola, Leonardo sembra al momento, troppo piccolo e attento al contesto che lo nutre, non dare alcun problema; mangia, dorme ed è bellissimo. Giselle, filo assiale della ragnatela, sembra trascinare con sé nella rovinosa caduta tutta la rete che le ruota attorno e gli operatori apprendono da lei il sentimento di impotenza.

    Il giro di boa, la piccola catastrofe che crea informazione e cambiamento, arriva inaspettata, dopo lunghi incontri di network trascorsi dagli operatori a leccarsi le ferite. Le maestre di Gioele chiamano il consultorio molto preoccupate, negli ultimi giorni il bambino non è più aggressivo con loro ed i compagni, dorme tutto il giorno. È esausto. Le maestre chiedono ai terapeuti, in tono assertivo e accusatorio, quale tipo di lavoro si stia facendo con la mamma di Gioele, perplesse dall'aspetto sempre più trascurato della donna e dagli abissali ritardi che più di una volta hanno fatto sospettare loro che si fosse dimenticata il figlio a scuola. I counselor decidono di convocare in seduta le maestre di Gioele ed il bambino. In seguito ad una discussione d'équipe, insieme alla scuola, si decide di convocare in seduta un operatore del CPS, un rappresentante del servizio sociale, uno del servizio di aiuto e assistenza della parrocchia, "Spazio Neutro", la sorella di Giselle. Giselle seguirà il primo colloquio da dietro lo specchio unidirezionale con un counselor. La seduta si propone come obiettivo principale quello di aiutare il paziente designato, ovvero "la rete malata"a superare l'empasse che crea disagio, sofferenza e senso di impotenza e la mamma di Gioele avrà il compito di fare da supervisor all'équipe terapeutica. Ad una prima reazione di perplessità da parte della donna e di resistenza da parte delle istituzioni coinvolte restie a dichiarare la propria impotenza ed ineffcacia, seguirà una seduta altamente significativa che vedrà protagonista il piccolo Gioele, tanto competente e capace di cogliere la fatica e la sofferenza della madre da farle esclamare: "anch'io posso contare su un eccellente supervisore!". Le sedute successive manterranno lo schema iniziale: un counselor coadiuvato da Giselle come supervisore e la rete in posizione di "richiesta d'aiuto". Il processo di restituzione di competenza ha un effetto quasi taumaturgico su Giselle che in seduta diventa sempre più attiva e sembra - nel tempo- vivere gli operatori come risorsa da sfruttare nella realizzazione di un progetto di cui lei e Gioele sono i principali artefici.

    Dopo qualche seduta Giselle potrà addirittura permettersi di congedare il CPS e arriverà ad annunciare di essere riuscita (dopo anni!) a chiamare la madre per raccontarle il suo dramma. La mamma di Giselle arriverà di lì a poco in Italia per aiutare la figlia e starle accanto. Nel momento in cui Giselle si rafforza e l'intera rete sta riguadagnando in fiducia e forza, arriva in consultorio una telefonata di Giselle a cambiare radicalmente il panorama dell'intervento. La donna deve partire per seguire come governante una nuova datrice di lavoro, Gioele ed il piccolo Leonardo resteranno con la nonna per tutto il periodo lavorativo della mamma; le sedute devono, perciò, essere sospese. Dopo circa un mese arriva in consultorio una seconda telefonata in cui Giselle racconta, commossa, di come Gioele, Leonardo, la nonna e Fredi l'abbiano il giorno prima chiamata dallo spazio neutro per farle una sorpresa, per salutarla ed esprimerle tutto il loro affetto. Giselle non manca di raccontare tutta la fatica dello stare lontana dalla famiglia, ma neppure di sottolineare come il marito le sia sembrato più consapevole dei propri doveri di padre. Quando Fredi uscirà dal carcere, Giselle potrà contare sul supporto della rete familiare, istituzionale e sociale, rafforzata dall'accresciuta competenza della donna, dalla riconnessione con parte del nucleo d'origine (la madre), dalla fiducia reciproca e dall'attivazione sinergica di tutte le componenti in gioco. Giselle ringrazia e preannuncia di volere proseguire le sedute per sentirsi ulteriormente supportata e rassicurata. Dopo la telefonata non seguiranno altri incontri.

    Conclusioni

    Il caso di Giselle rappresenta una rara eccezione di coordinamento della rete. Le tentazioni di asimmetria nel processo di presa in carico, di reificazione della metafora della cura come «oggettualità biologica e fisica» (Taussig, 2006), del lavoro di rete inteso come catena emozionale (ed infinita) di invii (Selvini Palazzoli et al., 1980), contribuiscono ad avvallare stereotipi riduzionisti e vittimali. Tale tendenza, caratteristica di una prospettiva medicalistica, occidentale, democratica, maschile e bianca, diventa ancora più evidente nel momento in cui l'"oggetto della cura" appartiene a culture "altre" (Papadopoulos, 2002). La debolezza disposizionale dello straniero e gli effetti codificati di povertà e marginalizzazione, informano l'epistemologia dei professionisti della cura. L'effetto scismogenetico che ne deriva è la radicalizzazione dello iato tra sistema curante (professionisti dell'assistenza e della cura) e sistema curato (professionisti del disagio e della malattia). Un emblematico esempio è costituito dalla condizione di rifugio politico (ed a qualche livello la storia di sofferenza di Giselle in Italia inizia con una forma "ibrida" di rifugio) troppo spesso indebitamente sovrapposta alla condizione patologica. La passivizzazione dell'oggetto di cura contribuisce all'affinamento delle tecnologie del potere, il cui stemma araldico è mirabilmente rappresentato dallo psicofarmaco, potere che alimenta la costituzione di istituzioni di controllo della salute fisica e mentale e della moralità (Foucault, 1975). Altrettanto rischiosi appaiono dispositivi che, come il setting etnopsichiatrico, sembrano avvallare un approccio comunicazionale di tipo modernista (Pearce, 1989). Il melting pot di significati derivante da dispositivi di stampo etnopsichiatrico rischia a mio avviso di sacrificare significati culturalmente idiosincratici, sistemi identitari unici e non riproducibili, all'altare dell'armonia e della composizione democratica delle differenze, producendo fenomeni implogenetici che riducono sé molteplici e multiformi ad un unico Sé meticcio ed indifferenziato (Ugazio, 1998). L'approccio antropologico consente di problematizzare fenomeni psicologici, affettivi e corporei sia da un punto di vista storico-sociale che personale, facendo di concetti come quello di "salute", "malattia" e "disagio" prodotti umani molteplici e autopoietici. "Le esperienze di sofferenza, sebbene radicate nei corpi individuali, rappresentano il marchio della società sui corpi dei suoi membri" (Quaranta, 2006, pg. xxvii). Un'antropologia della rete, che possa avvalersi degli strumenti di analisi narrativa forniti dal metodo etnografico, consente di valorizzare aspetti interattivi e di coordinamento dei significati di differenti realtà che partecipano e co-creano il processo di cura, valorizzando la dimensione dialogica tra differenti culture, differenti contesti di apprendimento e differenti fenomeni del potere. È come se il regolarsi di fenomeni di scismogenesi (complementare e simmetrica), orientati alla specializzazione, e di fenomeni implogenetici orientati all'armonia e alla riduzione delle differenze, consentano alla rete di valorizzare la competenza culturale di tutti gli elementi siano essi parte del sistema curante o del sistema curato (Bateson 1958; Arredondo, 2002).

    La funzione del counselor che operi in contesti multipli e multiculturali appare sempre meno sovrapponibile a quella di "esperto della cura" e sempre più vicina a quella di facilitatore dell'incontro tra diverse culture, diversi sistemi di significato, diverse etnicità (Gamst et. al., 2006) e di riconnettere il disagio individuale al sistema di valori, etici ed eidetici, della comunità (Elliott, Urquiza, 2006). I discorsi socialmente condivisi sulla malattia e sul disagio impongono vincoli linguistici tali da rendere il discorso sul benessere strettamente connesso al concetto di Ragione. Tale concetto è da considerarsi alla stregua di una categoria universale che contribuisce a costruire "un idioma totale e continuo, come sapere del linguaggio o filologia, contro la lingua madre che è il grido della vita" [3] (Deleuze, 1993 pg. 54 ; Foucault, 1971). Restare entro i confini tracciati dalla Ragione, ancorati ai vincoli linguistici imposti da essa, dunque, non necessariamente indica un buon adattamento sociale o la certezza del benessere psicologico; invece, come suggerisce Gille Deleuze (1993) l'orientarsi e muoversi il più liberamente possibile entro i confini della "sragione", sembra aprire alle infinite possibilità offerte, nel tempo, dai molteplici e polisemici linguaggi umani e dalle continue trasformazioni storiche nell'ordine del discorso.


    NOTE

    1] Nomi e luoghi sono fittizi per garantire anonimato e diritto alla riservatezza delle persone adulte e dei minori.
    2] Citazione dal film di Mathieu Kassovitz "La Haine" (1995).
    3] Corsivo nostro.


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