• Home
  • Rivista M@gm@
  • Quaderni M@gm@
  • Portale Analisi Qualitativa
  • Forum Analisi Qualitativa
  • Advertising
  • Accesso Riservato


  • Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006

    SALUTE MENTALE, SERVIZI,COMUNITÀ E PARTECIPAZIONE: QUALE RAPPORTO?


    Barbara Lucini

    lilly_a@libero.it
    Laurea Triennale in Scienze del Servizio Sociale presso Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Tirocinio formativo assistente sociale presso Comune di San Donato Milanese ( Milano), area adulti in difficoltà e anziani (febbraio-maggio 2005); Tirocinio formativo assistente sociale presso Consultorio familiare di San Giuliano Milanese ( Milano) (febbraio-aprile 2004).

    La tematica della salute mentale non può dirsi sicuramente una tematica di recente attenzione. Fin dall’antichità, nel periodo dei greci e dei romani, abbiamo assistito a molte discussioni attorno alla definizione di salute mentale e che cosa debba rientrare nel suo ambito di interesse. Questi confronti erano animati dalla problematica dell’imputabilità e della sua presenza/assenza nei casi di delitti. La legge della Roma antica si era già espressa a questo proposito, indicando una prima distinzione fra il concetto ‘fatuitas’ inteso come difetto d’intelligenza e ‘furor’ come forma di follia. La definizione di salute, che al suo interno comprende quella di salute mentale, è sempre stata piuttosto controversa e soltanto recentemente, verso la metà dell’ultimo secolo e grazie anche alle molteplici ricerche sviluppate in tale direzione, si è giunti ad una definizione di salute condivisa a livello internazionale da molti Paesi, quale è quella proposta dall’OMS. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute è il completo benessere fisico, mentale e sociale, quindi non consiste solamente in una assenza di malattia o di infermità. Tale definizione contiene in sé l’oggetto fondamentale su cui s’incentrerà tutta la successiva analisi: l’interrelazione esistente fra salute fisica e salute mentale.

    Dalla metà degli anni ’80 s’iniziò a parlare di salute psico-fisica, di quel connubio e di quell’armonia esistente (o che dovrebbe esistere e che è tanto difficile da trovare in una società complessa come la nostra) fra anima e corpo. La famosa citazione di Oscar Wilde potrebbe venire in aiuto per una maggiore esemplificazione del concetto espresso: “niente cura l’anima più dei sensi, niente cura i sensi più dell’anima”. Potremmo ulteriormente prendere ad esempio la corrente esistenzialista della filosofia, la quale introduce il concetto di noi, in una duplice accezione: un noi sociale, che si presenta ed instaura relazioni con gli altri, ed un noi come sintesi fra io fisico ed io sociale. Accade però, ed anche questo è un argomento di storica apparizione, che avvenga una frattura fra ciò che noi pensiamo di essere e fare e ciò che agiamo in concreto. E’ il caso dei cosiddetti disturbi mentali, che generalmente vengono definiti come: ogni sindrome di significativo rilievo clinico, meritevole di interesse psichiatrico, connessa ad una disfunzione psichica o biologica o comportamentale, che possa produrre disagio o sofferenza o disabilità nel funzionamento sociale e che si accompagna ad una importante limitazione della libertà. La figura del malato di mente è cambiata nel tempo passando da quella più religiosa che considerava il malato di mente come colui che era posseduto dal demonio, a quella medioevale del folle che spesso veniva raffigurato come il giullare di corte ed infine a quella più strettamente medica, che considerava la persona affetta da malattie mentali, come un paziente in cerca di miracolose cure, che facessero scomparire i sintomi e spesso non le cause della malattia mentale. Ora ci si è accorti che non è più così e che non potrebbe essere più così: pena l’anacronicità della nostra analisi sociologica e delle basi delle nostre relazioni sociali. Quando si aiuta una persona che presenta un disturbo mentale, la presa in carico diventa totale: non è solo il suo disturbo a dovere essere posto sotto attenzione ma è la persona in tutta la sua complessità a dover essere aiutata in un difficile ma possibile percorso di reinserimento sociale.

    Parallelamente a questa evoluzione storica di concetto di malattia mentale e della figura della persona malata di mente, si è giunti ad un cambiamento culturale, sociale ed istituzionale dei servizi, che operano a favore del reinserimento e del miglioramento della qualità della vita di queste persone. Certamente in Italia la legge 180 del 1978 meglio nota come legge Basaglia dal nome del ministro che la promosse, ha portato ad un cambiamento radicale nell’organizzazione dei servizi alle persone che presentano malattie mentali ed in tutti gli operatori, che in base a diverse competenze professionali, personali e culturali intervengono in questo ambito. I vecchi manicomi, oggetto di feroci attacchi da parte di movimenti sociali ancora poco radicati nella struttura della società italiana del tempo, sono stati gradualmente e non ancora del tutto sostituiti da servizi socio-sanitari, dislocati su tutto il territorio italiano. I riferimenti legislativi che hanno promosso questo mutamento sono da rinvenire nella legge 833/1978 ed in particolare nel D.P.C.M. 29/11/2001 relativo ai Livelli Essenziali di Assistenza. La struttura centrale in cui si inseriscono questo tipo di servizi non è più l’U.S.S.L. ma l’A.S.L. cioè un’azienda sanitaria locale. L’analisi dell’abbreviazione è essenziale per comprendere tre concetti fondamentali: siamo all’interno di una azienda con tutto ciò che può significare (efficienza, efficacia, controllo qualità, utili, ecc.), siamo in un ambito sanitario dove diventa necessario superare per rispondere in modo più corretto ai nuovi bisogni post materialistici (vedere Inglehart per un maggior approfondimento) che si presentano in una società complessa come la nostra; infine il livello locale pone attenzione alla relazione esistente fra utenti e comunità.

    In un contesto culturale così delineato diventa necessario prendere in considerazione una nuova serie di risposte, che possono non pervenire da un ambito strettamente istituzionale. Risposte differenti possono nascere nell’ambito del terzo settore o del volontariato. Ciò che però tengo sottolineare è che non si deve pensare a queste risposte in modo dicotomico: o la risposta istituzionale o quella da parte di servizi privati o del volontariato. Come in ogni cosa e fin dall’antichità è nel mezzo e nel dialogo che si ritrova la giusta risposta, perché in questo caso le alternative rischiano di far perdere proprietà essenziali e peculiari dei diversi tipi di intervento. Per chiarire maggiormente ciò a cui mi riferisco tratterò un esempio concreto.

    Nel nostro servizio socio - sanitario, si presenta un ragazzo ventenne con problemi di personalità. Sicuramente gli verranno fornite tutte le cure essenziali per quanto concerne il suo disturbo, ma l’intervento non si può o meglio non si dovrebbe ritenere finito. Il professionista ha curato la malattia per come si presentava ma rimangono ancora da affrontare le conseguenze che questa malattia ha causato nella vita del ragazzo. I rapporti familiari saranno sicuramente cambiati per assestarsi su un nuovo equilibrio, le amicizie, l’attività di studio e lavoro come quelle relative al tempo libero saranno certamente cambiate e a volte potranno sorgere delle difficoltà. E’ in questo esatto momento che non si deve scegliere fra interventi alternativi ma interventi coordinati: si tratta di negoziare su più livelli tutti gli interventi possibili che possono essere messi in atto per aiutare la persona a vivere una vita migliore con il riconoscimento dei diritti di partecipazione e la loro reale possibilità di fruizione. A questo punto l’intervento si dovrebbe articolare su una presa in carico congiunta: il professionista psichiatra, la famiglia e/o le persone a lui più vicine, l’assistente sociale, la comunità nella quale vive e le organizzazioni di terzo settore e di volontariato.

    L’importante quindi in questo ambito è mediare fra i diversi bisogni che sorgono, nel rispetto del diritto di partecipazione ed inclusione sociale che anche le persone che presentano disturbi o disagio mentale devono vedere garantiti. A questo proposito ritengo importante analizzare la teoria dell’appartenenza di Hans Falck, studioso che si è interessato all’analisi delle relazioni esistenti fra servizi sociali, società, comunità collegate ai diritti di partecipazione. L’analisi di Falck parte dal presupposto che nella nostra società contemporanea ed occidentale (il riferimento ai valori di partecipazione ed inclusione rende difficile estendere un’analisi sistematica a culture differenti dalla nostra; la variabilità culturale infatti, ci insegna che non tutti gli indicatori selezionati possono essere adatti per tutte le culture). Falck stabilisce che esistono differenti tipi di appartenenza: passando da quella familiare, territoriale a quella comunitaria e sociale, in un’ottica di crescente complessità. La teoria dell’appartenenza concettualizzata sul finire degli anni ’90 è da ritenersi rivoluzionaria per quanto concerne la visione delle relazioni fra servizi sociali, operatori e comunità. In particolare ciò che questa formulazione teorica propone agli operatori socio-sanitari, ma anche a tutti coloro che a vario titolo sono coinvolti in queste attività, è di ripensare al loro ruolo professionale in una prospettiva comunitaria. Ciò che viene chiesto a queste persone è di allargare le loro competenze ed organizzare i loro interventi anche in considerazione del fatto di operare con altri soggetti spesso differenti da loro, per formazione, cultura, storia di vita. Per questo si è passati da organizzazioni essenzialmente burocratiche e basate su procedure rigidamente amministrative a organizzazioni orientate al problema ed alla persona.

    Il cambiamento che è avvenuto e che tuttora avviene in Italia ma anche in quasi tutti gli altri Paesi Europei, interessa più ambiti tra loro interrelati. L’ambito politico con il passaggio dal welfare state alla welfare society o forse welfare community, anche se questi sviluppi sono tuttora incerti. L’ambito economico con l’avvento della globalizzazione e dei mercati internazionali, che condizionano fortemente le relazioni sia a livello di Paesi stranieri sia nel modo di concepire il mercato all’interno di un singolo Paese. L’ambito sociale non poteva essere esente da una rivoluzione dei suoi assetti principali: è cambiata la famiglia, la scuola, il modo di concepire il lavoro, le modalità di utilizzo del tempo libero. L’ambito individuale: è cambiata la concezione che le persone hanno del mondo e della società. Per un periodo di tempo abbastanza lungo, partendo dall’epoca illuminista si è pensato che le persone possedessero tutti gli strumenti ed i mezzi individuali per ottenere ciò che desideravano nella vita. Poi altri fenomeni, da quelli naturali a quelli umani hanno posto in evidenza il fatto che le persone del ventesimo secolo vivono in un’epoca storica caratterizzata dal rischio e dalla possibilità di imminenti cambiamenti. Ritengo che anche sotto questo aspetto l’immaginario sociale degli operatori sia cambiato. Si è passati da una società fortemente tradizionalista ad una più innovativa, improntata al cambiamento.

    L’assunzione del rischio in una relazione, in particolare con persone che presentano disturbi mentali deve essere in primo luogo accettata e compresa come tale. Il rischio nella società odierna non può non essere assunto come uno dei componenti fondamentali di un qualsiasi intervento di aiuto in campo sociale. Per queste considerazioni credo che gli operatori e gli altri soggetti coinvolti in progetti di aiuto con persone che presentano disturbi mentali, debbano essere formate sia sul piano professionale sia su quello sociale verso l’assunzione del rischio e le modalità di gestione e comunicazione. E’ su questa struttura sociale così articolata che si affaccia la tematica dell’immaginario sociale degli operatori. Il disturbo mentale è considerato e nei momenti di lucidità vissuto, come fortemente invalidante, in quanto non permette di vivere la vita in tutta la sua integrità. A poco a poco si viene esclusi dalla scuola, dall’ambiente lavorativo, dalla partecipazione alla vita comunitaria perché si viene considerati un pericolo, un rischio per chiunque viva accanto a queste persone.

    E’ la frammentarietà ciò che invalida queste persone. I disturbi mentali molto spesso ricreano questa divisione fra loro e noi, fra ciò che è interno e ciò che è esterno, fra il loro mondo ed il nostro. Uno dei disturbi mentali più frequenti ed associato anche alla giovane età, la schizofrenia ne è un esempio. La stessa radice etimologica indica “mente scissa” ed è su questa divisione che si instaurano i rapporti fra operatori e persone che presentano disturbi mentali. In passato, gli operatori che si occupavano di queste persone erano essenzialmente professionisti formati in ambito sanitario e ciò identificava e determinava il loro intervento ed il modo di affrontare la tematica. Si sa per certo che la formazione ricevuta, sia in ambito accademico sia non, orienta il modo di osservare ed interpretare i fenomeni del mondo, è per questo motivo che a mio avviso risulta necessario, nell’epoca in cui viviamo estendere l’intervento con queste persone anche a professionisti che non operano in campo strettamente medico.

    L’immaginario sociale dei professionisti che operano in tale ambito risulta influenzato dalle proprie esperienze personali, dalla passata storia di vita, dalla cultura di appartenenza, dalle precedenti esperienze e dalla formazione ricevuta ma che attualmente continua in itinere. Questi indicatori possono essere estesi anche all’immaginario sociale degli attori della comunità locale che hanno visto una possibilità di azione in una parte della vita comunitaria, che solo fino a pochi anni fa era esclusivamente istituzionalizzata. L’immaginario sociale di questi soggetti ha subito cambiamenti anche in seguito all’entrata in vigore dei nuovi assetti legislativo e politico-istituzionali affacciatisi sulla struttura sociale dell’Italia degli anni ’90. I riferimenti legislativi per comprendere l’attività di cooperative, associazioni e volontariato sono rispettivamente i seguenti: legge 381/1991, legge 383/2000 ed infine legge 266/1991, emanate in modo differente dalle varie Regioni. Nel prosieguo della trattazione vorrei sottolineare l’importanza di tenere in dovuta considerazione, la variabilità culturale presente in questi fenomeni. Prescindendo da essa si rischia di non comprendere le azione intraprese fino ad ora dagli organi istituzionali, le mosse degli attori del terzo settore e del volontariato con le loro rivendicazioni e peculiarità.

    La mia esperienza di tirocinante assistente sociale presso servizi socio-sanitari mi ha permesso di rilevare cambiamenti su più livelli in questo ambito di intervento. La legge 328/00 letta ed analizzata in modo diacronico con la legge 142/90 permette di comprendere l’evoluzione strutturale dell’offerta dei servizi alla persona. La stessa assistente sociale che opera in questo tipo di servizi ha dovuto cambiare la sua formazione, prevalentemente orientata all’approccio clinico o sul caso per integrare modelli differenti di servizio sociale quali il lavoro di rete, di équipe e/o di community care. Con l’implementazione e l’applicazione nella pratica professionale di questi modelli si è giunti ad un feed back retrospettivo rispetto ai valori e ai principi della professione. I tre mandati su cui opera l’assistente sociale, mandato professionale, sociale, istituzionale sono fortemente cambiati. L’evoluzione può essere analizzata grazie ad un assetto cognitivo quale proposto da Lewin: il tutto non deve essere interiorizzato e compreso come la somma delle singole parti ma come una integrazione costante, con scambi omogenei fra le singole parti che compongono il tutto.

    Credo sia importante sottolineare come a fronte di una crescente integrazione fra differenti servizi e professioni, vi sia anche il forte riconoscimento di un’esigenza di specializzazione che però, non può essere demandata ad altri, ma che il nuovo o futuro professionista deve assumere su di sé. Da un lato potremo trovare un professionista (assistente sociale, operatore sanitario o socio-sanitario, medico, psichiatra) con una connotazione fortemente specializzata, che possiede ottime capacità tecniche, operative, metodologiche per lavorare nel suo ambito di intervento; da un altro lato incontreremo un professionista capace di empatia, di saper lavorare con e per le persone, organizzare e gestire riunioni e lavori di équipe. Al contrario di quanto si possa pensare, queste ultime sono sì attitudini ma anche capacità che si acquisiscono nel tempo, dando agli altri la possibilità di esprimere il loro pensiero, le loro opinioni in un’ottica di circolarità comunicativa virtuosa.

    Nella mia già citata esperienza di tirocinante assistente sociale in un servizio socio - sanitario, ho avuto la possibilità di partecipare a diverse riunioni d’équipe: la frase affissa all’ingresso della sala riunioni era la famosa citazione di Voltaire: “Non sono d’accordo con ciò che tu dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”. Gli operatori, ma anche i volontari e coloro che a vario titolo sono coinvolti nell’area dei servizi per la salute mentale dovrebbero tenere ben presente quanto affermato da Voltaire anche in applicazione al rispetto e riconoscimento del diritto di partecipazione alla vita comunitaria. A questo proposito la comunità nonostante fenomeni quali la globalizzazione o il continuo innestarsi di nuove tecnologie, che rendono sempre più le persone individui e sempre meno persone ontologicamente definite come sistema aperto, si può connotare come un soggetto, che nell’ambito delle professioni di aiuto viene definito aiutante naturale. L’associazionismo, il volontariato sono espressioni di solidarietà e vicinanza umana presenti nella realtà italiana fin dai tempi meno recenti. Pensiamo ad esempio alla parola ed al concetto di ospedale. Etimologicamente deriva dal latino ospitalis ed in passato questi luoghi erano conosciuti proprio per questa funzione di ospitalità: non vi erano ricoverati solo i malati ma anche orfani, vedove, poveri, persone con disturbi mentali; soggetti questi che vivevano in condizioni di disagio ed emarginazione sociale.

    E’ innegabile quindi, che il ruolo della comunità debba essere riscoperto e riconosciuto alla luce di tutti gli apporti positivi che essa può dare. Non è però da dimenticare, che la stessa comunità di così grande aiuto sia per le persone che presentano disturbi mentali, sia per i professionisti che operano in tale ambito può essere la fonte, grazie a latenti dinamiche di gruppo, di una emarginazione sociale degenerativa. E’ necessario quindi che i professionisti si formino personalmente e professionalmente per immaginare il proprio operato ed i susseguenti risultati anche verso la comunità, all’interno della quale e grazie ad essa, dovranno attuare i progetti di intervento programmati e concordati con tutti i soggetti coinvolti.

    Ritornando quindi alle capacità ed attitudini che un operatore dovrebbe possedere, ecco che rientrano anche le capacità di mediazione, negoziazione e di rimandare i messaggi ricevuti, in un circolo di comunicazione virtuoso ed efficace. La formazione che si richiede quindi, ai nuovi operatori in questo mutato contesto culturale, sociale, istituzionale è di catulliana memoria e si esplica nel lavoro di labor limae tra sapere, saper fare e saper essere. Il concetto di labor limae è sublime: si richiede che il risultato del lavoro sia impeccabile, semplice, disarmante. Tutto questo si può ottenere solo grazie ad un faticoso lavoro di progettazione, organizzazione, negoziazione. Ecco quindi la metafora letteraria con il lavoro svolto dagli operatori, volontari e soggetti istituzionali: più soggetti coinvolti su più livelli proprio come le parole ed i verbi, la struttura grammaticale che si identifica nel contesto istituzionale e legislativo, la punteggiatura è la cultura di riferimento, che dà ritmo e senso a tutto il lavoro. Infine, il significato esplicito e simbolico di questa architettura si ritrova nell’esperienza professionale dell’operatore, ma prima ancora nel suo vissuto personale e nel suo proprio modo di comprendere e vivere le relazioni umane.

    Alla luce di questo nuovo assetto professionale, culturale, sociale ed istituzionale è possibile delineare richieste molteplici, che pervengono agli operatori dei servizi psichiatrici. Da un lato abbiamo le richieste dei soggetti istituzionali che chiedono cura, assistenza e per certi versi anche controllo. Altre richieste soprattutto etiche e deontologiche pervengono dai diversi albi professionali a cui gli operatori aderiscono e di cui fanno parte. Infine richieste meno formali e meno organizzate delle due sopra descritte, provengono dai familiari e amici delle persone con disturbi mentali e da tutta quella rete, spesso invisibile ma molto articolata del volontariato, delle cooperative e delle associazioni. Quelle appena descritte sono richieste che per natura e sostanza si differenziano molto le una dalle altre: c’è una richiesta di supporto e sollievo dal carico familiare, di gestione dei periodi di crisi, di cura medica, di promozione e sviluppo della partecipazione alla vita lavorativa e sociale della comunità. Per gli operatori e per tutti i soggetti coinvolti, ciò significa prendere in carico una situazione, sociologicamente definita multiproblematica e con la quale si devono confrontare le loro esperienze, la loro personale storia di vita, la formazione, le aspettative. E’ importante sottolineare che tutto questo, che apparentemente sembra rientrare nella sfera della vita lavorativa, in realtà per gli operatori coinvolti si estende anche alla sfera di vita personale e relazionale. Un operatore o un soggetto che a vario titolo lavora nell’ambito della salute mentale viene continuamente investito da rimandi etici, mitologici ed antropologici di varia entità e natura.

    Conclusioni

    Il presente articolo si era proposto e spera di averlo raggiunto l’obiettivo di presentare nel modo più chiaro possibile, come è cambiata la situazione sociale, politica ed istituzionale in Italia nell’ultimo ventennio, in riferimento all’area della salute mentale ed alle persone che presentano disturbi mentali. E’ innegabile che essa sia un’area di sicuro fascino ed interesse perché, nonostante le molte ricerche medico - biologiche - psicologiche - sociologiche effettuate in questo ambito, i disturbi mentali rimangono tuttora avvolti da un alone di mistero. Questo da un lato porta le persone a sottovalutare il problema della salute mentale, a volerlo nascondere perché non si sa come affrontarlo, come gestirlo, come viverlo.

    Dall’altro lato l’area della salute mentale pone in essere molte sfide agli operatori ed a tutti i soggetti della comunità, che a vario titolo sono coinvolti. E’ il cambiamento di cultura, il vero motore dei mutamenti radicali, epocali, innovativi: a mio avviso e dalla prima esperienza vissuta ho potuto notare che andrebbe promossa e diffusa una cultura, (non tanto o non solo specifica della salute mentale e non solo fra gli operatori istituzionali) della partecipazione, della promozione e dell’empowerment delle persone che presentano disturbi mentali.

    Solo riconoscendo culturalmente che le persone si possono liberamente autodeterminare, tenendo però in dovuta considerazione gli imprevisti, le causalità (serendipity è un’esemplificazione nella cultura anglosassone di quanto si sta esprimendo in questa sede), che sempre animano la vita di tutti noi, è possibile fare un ulteriore e più importante passo avanti nella promozione di una cultura della partecipazione e solidarietà comunitaria, che svolga un’azione di lotta pacifica all’emarginazione ed al disagio sociale originati dalla presenza, in certe persone, di disturbi mentali.

    Infine, da quanto mi è stato possibile osservare, nel nostro attuale contesto sociale esistono ed in parte sono già in atto gli strumenti istituzionali e legislativi per promuovere interventi, che abbiano l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle persone che presentano disturbi mentali. A volte si tratta solo di riconoscerli ed utilizzarli secondo i differenti paradigmi teorici e le diverse metodologie proprie di ogni soggetto coinvolto, in un’ottica di comunicazione e negoziazione reciproca ed efficace.

    Il rapporto quindi che esiste fra servizi e comunità nell’ambito della salute mentale, si può definire di natura circolare e virtuosa. Tutti i soggetti coinvolti necessitano di quel giusto grado di riconoscimento al fine di potersi attivare in modo autonomo e comunitario per una futura, possibile e completa partecipazione alla vita comunitaria di tutti i soggetti, anche i più svantaggiati.


    BIBLIOGRAFIA

    AGUSTONI A. - VILLA F. (a cura di) (2002), Disagio e ambiente, Vita e Pensiero, Milano.
    ARZUFFI O. (1991), Emarginazione A-Z: guida pratica ai problemi, alle istituzioni, alla legislazione, Piemme, Casale Monferrato.
    BANKS S. (1999), Etica e valori nel servizio sociale, Erickson, Trento.
    BELLINO F. (1988), Etica della solidarietà e società complessa, Levante Editori, Bari.
    BERGAMASCHI M. (1999), Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, F.Angeli, Milano.
    BERZANO L. (1992), Aree di devianza: dallo sfruttamento all’esclusione: i nuovi rischi del vagabondaggio, del carcere, del non lavoro, del disagio mentale, Il segnalibro, Torino.
    CELLENTANI O. - GUIDICINI P.(a cura di) (1989), Il servizio sociale tra identità e prassi quotidiana, F.Angeli, Milano.
    CELLENTANI O. - GUIDICINI P.(a cura di) (1991), Dimensione relazionale e sistema dei valori nel servizio sociale, F.Angeli, Milano.
    CESAREO V. (a cura di) (1990), La cultura dell’Italia contemporanea, Fond. Agnelli, Torino.
    CESAREO V. (a cura di) (1999), Sociologia. Concetti e tematiche, Vita e Pensiero, Milano.
    COLOZZI I. (1984), Nuove prospettive di politica sociale, CLUEB, Bologna.
    COLOZZI I. - BASSI A. (1995), Una solidarietà efficiente: il terzo settore e le organizzazioni di volontariato, NIS, Roma.
    COLOZZI I. - DONATI P.(a cura di) (2004), Il terzo settore in Italia, culture e pratiche, F.Angeli, Milano.
    DAL PRA PONTICELLI M. (a cura di) (1985), Metodologia del servizio sociale. Il processo di aiuto alla persona, F.Angeli, Milano.
    DAL PRA PONTICELLI M. (1987), Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio, Roma.
    DELLA PORTA D. - GRECO A. - SZAKOLCZAI I. (a cura di) (2000), Identità, riconoscimento, scambio, Laterza, Bari.
    DENTE G. - DEGANI L. (2002), Leggi e decreti in materia sociale e sanitaria, I.S.U., Milano.
    DENTE G. - DEGANI L. (2002), Leggi e decreti in materia sociale e sanitaria, normativa regionale lombarda, I.S.U., Milano.
    DE ROBERTIS C. (1986), Metodologia dell’intervento nel lavoro sociale, Zanichelli, Bologna.
    DI NICOLA P. (1986), L’uomo non è un’isola. Le reti sociali primarie nella vita quotidiana, F.Angeli, Milano.
    DI NICOLA P. (1998), La rete: metafora dell’appartenenza: analisi strutturale e paradigma di rete, F.Angeli, Milano.
    DONATI P. (a cura di) (1996), Sociologia del terzo settore, NIS, Roma.
    ELIAS N. - SCOTSON J. L. (2004), Strategie dell’esclusione, Il Mulino, Bologna.
    FALCK H. - VILLA F. (a cura di) (1994), La prospettiva dell’appartenenza nel servizio sociale, Vita e Pensiero, Milano.
    FERRARIO F. - GOTTARDI G.(1987), Territorio e servizio sociale, UNICOPLI, Milano.
    FERRARIO F. (1993), Il lavoro di rete nel servizio sociale, NIS, Roma.
    FOLGHERAITER F. (1991), Operatori sociali e lavoro di rete, Erickson, Trento.
    FOLGHERAITER F. (1996), Intervento di rete e comunità locali, Erickson, Trento.
    FOLGHERAITER F.(1998), Teoria e metodologia del servizio sociale, La prospettiva di rete, F.Angeli, Milano.
    FOLGHERAITER F. (2000), L’utente che non c’è: lavoro di rete e empowerment nei servizi alla persona, Erickson, Trento.
    IZZO A. (1994), Storia del pensiero sociologico, il Mulino, Bologna.
    LUHMANN H. (1991), Risk: a sociological theory, Aldine Transaction, London.
    MAGUIRE L. (1994), Il lavoro sociale di rete, Erickson, Trento.
    MARTELLI A.(2001), Politiche sociali e politiche del lavoro per la lotta all’esclusione a livello locale: professionalità, strategie e problemi, Vita e Pensiero, Milano.
    MARZOTTO C. (2002), Per un’epistemologia del servizio sociale, F.Angeli, Milano.
    MASINI R. - SANICOLA L.(1988), Avviamento al Servizio Sociale, NIS, Roma.
    MAUSS M. (2002), Saggio sul dono, Einaudi, Torino.
    MAZZA R. (1991), Il processo di aiuto nel servizio sociale, Pacini Fazzi, Lucca.
    MOZZANICA C. M. (2000), Servizi alla persona. Un’organizzazione (in)compiuta, Ed. Monti, Saronno.
    PISCITELLI D. (1996), Carenza normativa e competenza relazionale: la presa in carico della domanda di aiuto tra approccio clinico e approccio comunitario, Vita e Pensiero, Milano.
    PISCITELLI D. (a cura di) (1996), Il lavoro socio-clinico dell’assistente sociale, Vita e Pensiero, Milano.
    RANCI C. (1999), Oltre il welfare state. Terzo settore, nuove solidarietà e trasformazioni del welfare, Il Mulino, Bologna.
    ROBERTSON I. (1998), Elementi di sociologia, Zanichelli, Bologna.
    SANICOLA L. (1995), Reti sociali ed intervento professionale, Liguori Editore, Napoli.
    SANICOLA L. (1999), L’intervento di rete, Liguori Editore, Napoli.
    SOULET J (2004), Piccolo prontuario di grammatica originaria del Servizio sociale, Liguori Editore, Napoli.
    VALTOLINA. G. (2003), Fuori dai margini. Esclusione sociale e disagio psichico, Angeli, Milano.
    VECCHIATO T. - VILLA F. (a cura di) (1995), Etica e servizio sociale, Vita e Pensiero, Milano.
    VILLA F. (2000), Dimensioni del servizio sociale, Vita e Pensiero, Milano.
    VILLA F. (2003), Lezioni di politica sociale, Vita e Pensiero, Milano.
    WILDE. O. (2004), Detti e aforismi, BUR, Milano.


    Collana Quaderni M@GM@


    Volumi pubblicati

    www.quaderni.analisiqualitativa.com

    DOAJ Content


    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

    Directory of Open Access Journals »



    newsletter subscription

    www.analisiqualitativa.com