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    M@gm@ vol.2 n.2 Aprile-Giugno 2004

    SOGGETTIVITÀ E COSTRUZIONE DELL'IDENTITÀ INDIVIDUALE: L'APPROCCIO AUTOBIOGRAFICO


    Maria Serena Di Gennaro

    Diploma di laurea in Scienze dell'Educazione; svolge attività di analisi delle competenze professionali richieste agli operatori culturali, di progettazione e monitoraggio di progetti formativi ad essi rivolti.

    UNA LETTURA DEL POST-MODERNO

    Alla fine degli anni Settanta Lyotard (1979) scriveva: "le società entrano nell'era detta post-industriale, le culture nell'era detta post-moderna". Ora, il post-moderno concerne in prima istanza le modalità di costruzione e di definizione della propria identità. L'individuo, in altre parole, si ritaglia spazi entro cui agire in modo coerente e fedele unicamente a se stesso e dare un'impronta sempre più individuale alla propria vita. Rinuncia alle grandi appartenenze, si allontana dai grandi sistemi culturali e religiosi, declina la propria esistenza in funzione dell'enfatizzazione del proprio self. Nel procedere lungo questo sentiero saranno chiamati in causa teorici che, direttamente o indirettamente, hanno dato contributi che ben si attagliano a descrivere e interpretare la citazione di Lyotard (1979), assunta come cornice di riferimento.

    Sono le pagine di Bellah (1985) che per prime ci danno un orientamento. L'identità individuale rinuncia a darsi forme stabili e definitive, codificate dalle "communities of memory", portatrici delle istanze di "dovere" e "solidarietà". Queste, infatti, sono rimpiazzate dai "lifestyle enclaves". "Preferenza", "espressività", "libertà individuale" da valori assoluti e da rigide obbligazioni morali diventano le nuove parole d'ordine: "il self deve essere libero, deve essere anche fluido (...) senza adeguare la propria vita ad un sistema di norme e valori una volta per tutte" (Bellah 1985). Un self che segue preferenze e valori liberamente scelti diventa anche la "propria fonte di guida morale" (Bellah 1985). Bene e Male perdono il loro carattere d'oggettività sovra-individuale; il bene diventa "sentirsi bene" e il criterio d'utilità dirige l'agire (Bellah 1985). Si soddisfa "ciò che vuole" e le azioni non sono più giuste o sbagliate in sé, ma lo sono solo per i risultati che producono.

    L'individuo chiede discrezionalità, autonomia decisionale e libertà di scelta. Domanda, insomma, come ben si è espresso Cesareo (1996), di "essere se stesso sempre e comunque". Essere se stesso vuol dire anzitutto soddisfare bisogni che attengono alla stessa radice della natura umana; quelli che Heller (1974) definisce, con una decisa accezione antropologica, "fondamentali" o "radicali" e che sostanziano la nuova cultura della soggettività. Tutto questo è reso possibile dal notevole grado d'apertura della vita sociale d'oggi che, sempre più "opzionale" - brillante aggettivo coniato da Elchardus (1994) -, esperisce una moltiplicazione di tipo esponenziale dei suoi ambiti. L'agire dell'individuo ha così a disposizione diverse opportunità che contribuiscono tutte a strutturarne l'identità in maniera più flessibile e variegata.

    Giunti a questo punto del discorso, ricorriamo ai teorici classici della trattazione sociologica: Luhmann, Parsons, Dahrendorf. Luhmann (1983) ammoniva che "ci sono sempre più possibilità dell'esperire vivente e dell'agire di quante ne possano essere realizzate". Questo vuol dire che il sistema sociale offre un eccesso di possibilità, ingenerando, così, un dislivello tra le opportunità offerte e quelle che l'individuo riesce effettivamente a selezionare e a cogliere. Anche Parsons (1962) riconosce "la potenziale facoltà dell'uomo di dirigere autonomamente le proprie azioni e di scegliere liberamente" (Cesareo 1996). Ma questa facoltà di scelta è vissuta come un pericolo e addirittura come una minaccia. Il rischio per uno struttural-funzionalista come Parsons, è di compromettere l'ordine e la stabilità sociale. Il soggetto agente dovrebbe allora rassegnarsi ad indossare il suo status-ruolo e a rendere prevedibile il suo comportamento. Ci troviamo, così, di fronte ad un individuo irrigidito, che si limita a rispondere in maniera ligia alle prescrizioni e alle obbligazioni che la struttura sociale esercita su di lui.

    E' davvero interessante scorrere le pagine di questo teorico e rendersi conto che, con un certo anticipo, le 'suggestioni post-moderniste' hanno influito anche sul suo pensiero. Infatti, egli individua margini di declinazione più personalizzata dei comportamenti sociali. L'individuo ha di fronte a sé diverse alternative di ruolo e può optare per quella che più combacia con le proprie inclinazioni. Sussiste "una certa flessibilità nella scelta dell'oggetto e nei modelli d'azione, cioè (…) una capacità relativamente elevata di compiere sostituzioni e di mettere alla prova la realtà" (Parsons 1962). Allora, la struttura sociale può spingere l'individuo a conformarsi al suo ruolo, ma non può, però, predeterminarne rigidamente il comportamento futuro.

    Dobbiamo arrivare a Dahrendorf (1977, 1980) perché il margine di libertà di scelta del soggetto possa essere ampliato con più decisione. L'uomo agisce liberamente e dispone di "chance di vita", che richiamano lo scarto, già visto con Luhmann, tra possibilità virtuali ed effettive opportunità d'agire. Tali chance sono definite come "possibilità di crescita individuale, di realizzazione di capacità, desideri e speranze … (e sono) funzione di due elementi: "opzioni" e "legature" (Dahrendorf 1980). Le "legature" sono le appartenenze, i campi dell'agire umano strutturalmente precostituiti" (1980), mentre le "opzioni" sono le "possibilità strutturali di scelta a cui corrispondono, sul piano dell'azione, decisioni di scelta individuali" (Dahrendorf 1980) e, possiamo aggiungere, di scelta libera.

    Possibilità di scelta, dunque. Ma quali i pericoli? Accade che l'individuo esperisce un numero anche troppo elevato d'opportunità. E' sicuramente un pregio che "l'identità moderna (sia) peculiarmente aperta" (Berger e Kellner 1983), ma è anche vero che può diventare difficile definire un proprio progetto di vita. Disorientamento, incertezza, anche disagio possono avere la meglio. L'identità individuale può restare incompiuta e precaria, priva di un baricentro e simile ad un puzzle o ad un mosaico. L'individuo si modella sulla variabilità di situazioni esperite, moltiplica i propri interessi, le proprie appartenenze e attività. Tale rischio è ben sintetizzato da Lash (1981) che ha introdotto l'espressione di "etica della sopravvivenza". L'individuo può, cioè, finire con l'adattarsi a quello che gli capita.

    L'AUTOBIOGRAFIA COME KÓSMOS BIOGRAFICO?

    Abbiamo, dunque, evidenziato che nella scelta delle componenti del collage biografico, l'azione individuale si rende libera dalle prescrizioni dettate dalla tradizione e si emancipa dalle limitazioni imposte dall'appartenenza a più ampie collettività. La biografia individuale è, infatti, sempre più il risultato di scelte personali che non di un indirizzamento sociale. Ora, all'individuo che si percepisce come frammentato e privo di solidi ancoraggi sociali può venire incontro la metodologia autobiografica e della narrazione di sé come strumento atto a ricondurre ad unità e coerenza la soggettività individuale e a leggere in maniera critica il proprio ruolo sociale come legame significativo con il contesto sociale.

    Come in precedenza, anche per questo percorso, per costruire una solida intelaiatura del discorso, ci avvaliamo del contributo datoci da pensatori che sul valore della biografia individuale hanno riflettuto e scritto passi significativi. Prenderemo in considerazioni posizioni teoriche favorevoli, ma anche critiche allo scopo di fornire un quadro completo del tema. Cominceremo con Giddens che in Modernity and Self-Identity (1991) ha scritto pagine illuminanti sulla possibilità di ricondurre a progetto unitario la propria biografia. E questa non è un'entità passiva, in quanto data e determinata da influenze, o meglio 'accidenti', esterni. Quello che occorre, invece, sottolineare è che l'individuo mette in atto uno sforzo intenzionalmente volto a fare della propria self-identity un "progetto riflessivo", assemblando come in un puzzle opzioni e possibilità diverse.

    Costruire un progetto riflessivo del self vuol dire "mantenere coerenti, e inoltre continuamente aggiornate, narrative biografiche, che hanno luogo (appunto) in un contesto di molteplici scelte". Secondo Giddens (1991), costruire una biografia di sé, vuol dire, dunque, viverla come un "reflexivity organised life-planning", che abbia una traiettoria e che conferisca senso, consentendo di elevarci al di sopra della mera durata del proprio ciclo vitale. E' interessante osservare che la mera durée tanto deprecata da Giddens è, invece, chiamata in causa dal filosofo Bergson, che, nelle opere Saggio sui dati immediati della coscienza (1970, 1972) ed Evoluzione creatrice (1970, 1972), adottando una diversa impostazione e un diverso apparato concettuale, offre spunti davvero interessanti al nostro discorso e ci aiuta a costruire una visione ampia e critica riguardo al nostro tema.

    Quello che in Giddens è il risultato di uno sforzo intenzionale, qui è immediato e si presenta alla coscienza prescindendo da ogni mediazione intellettuale. La vita della coscienza non può essere detta dalle categorie dell'intelletto. Idee, sentimenti, pensieri non possono essere oggetto delle operazioni tipiche della ragione, come l'analisi e la distinzione. Alla consapevolezza dell'io e del proprio vissuto si giunge, dunque, per intuizione. Allora, il tempo della vita è durata, creazione di momenti originari e inseparabili l'uno dall'altro; "per un essere cosciente, l'esistere consiste nel mutare, il mutare nel maturarsi, il maturarsi nel creare indefinitamente se stesso" (Bergson 1970, 1972). Ed è la coscienza, non l'intelletto, che coglie tale processo di crescita e di mutamento continuo e incessante.

    Questo concetto di durata interiore è molto vicino all'espressione "corrente di pensiero" introdotta da William James (1998) e ci avvicina alla parte successiva del nostro discorso in cui, applicando all'autobiografia di sé le categorie letterarie, parleremo di flusso di coscienza. Ora, la possibilità di dare un'organizzazione alla propria biografia non è affatto esclusa. Come "la realtà è ordinata nell'esatta misura in cui essa soddisfa il nostro pensiero" (Bergson 1970, 1972), così il proprio vissuto acquisisce forma e coerenza se lo pensiamo e rielaboriamo come divenire, seppure imprevedibile. Ma in questo divenire, in questo flusso l'intelletto opera dei "tagli" (Bergson 1970, 1972) a dati momenti. Possiamo, così, guardarci e guardare la nostra biografia come cosa costruita dall'intelletto.

    Resta, ovviamente, uno scarto che è parte dell'humus teorico del metodo autobiografico. Ovvero lo scarto tra tempo vissuto, nella sua densità e 'pesantezza', e tempo rappresentato al pensiero, evanescente, ma, al tempo stesso, suscettibile d'essere altrettanto concreto e vivo grazie allo strumento culturale che si sceglie per rappresentare il proprio vissuto. Questo fondamento teorico è colto anche da Bellah (1985) secondo il quale "trovare se stesso significa, tra le altre cose, trovare la storia o narrativa in termini di ciò che dà senso alla propria vita", tuttavia, è sempre più difficile fare ciò mentre le esperienze della vita sono esperite e, appunto, vissute.

    Torniamo a Giddens (1991) e al suo concetto di tempo, radicalmente opposto ora analizzato, come composto di fasi distinguibili come l'una successiva all'altra e snodantesi dal passato al futuro. Allora, l'individuo che si costruisce come biografia si appropria del suo passato e tesse la trama della propria apertura di vita verso il futuro (intraducibile è l'efficacissimo termine inglese lifespan). In questo è accompagnato dalla meditata consapevolezza che il proprio vissuto è, gestalticamente, una totalità di vari "passaggi": lasciare la casa paterna, cercare un lavoro, fronteggiare l'eventuale inoccupazione, dare inizio ad una relazione sentimentale, fare fronte alla malattia, (...). Proseguiamo nel breve decalogo. Il Sé è processo continuo, ma ad ogni momento l'individuo può interrompere questa continuità e sottoporsi ad auto-osservazione sul senso della propria identità e ad auto-interrogazione sul senso del proprio vissuto: Che cosa sta accadendo adesso?, Che cosa sto pensando?, Che cosa sto facendo?, Che cosa sto provando?, In quale modo posso usare questo momento per cambiare? (Giddens 1991).

    Rispondere a queste domande vuol dire anche rendere visibile la biografia del proprio vissuto come fenomeno, nel senso di manifestare, far apparire in una forma, a partire da quella del testo scritto. Ovvero, dipanare la propria autobiografia secondo una narrativa e sviluppare un approccio interpretativo nei confronti della propria storia. Domina un imperativo morale: l'autenticità, ovvero "essere veri a se stessi" (Giddens 1991). Riconoscere come originali le proprie conquiste nella crescita, i propri blocchi emotivi, sono aspetti di un più ampio processo di comprensione di quello che noi stessi siamo davvero, con onestà e integrità. Lo sviluppo della propria biografia ha un fine. Questo scopo è interno all'individuo stesso, senza cercarlo o ritrovarlo all'esterno. Si tratta di creare se stessi. Né più né meno.

    Creare se stessi alla luce di quel bisogno che Trist (1976) definisce di "self-actualization". Non è più possibile ritenere che lo sviluppo personale si arresti una volta raggiunta l'età adulta. Ovvero, la maturazione dell'identità individuale accompagna l'intero corso esistenziale e si configura come un continuo processo di "auto-rinnovamento" (Trist 1976). In questo dilatarsi degli orizzonti culturali di riferimento, Elchardus (1994) ci rammenta che le fonti del self si moltiplicano e, come rimarcano Berger e Kellner (1973), diventa addirittura possibile per l'individuo immaginare più biografie alternative di se stesso. L'individuo, infatti, esperisce oggi una "pluralizzazione dei mondi di vita" (Berger e Kellner 1973), per cui egli migra con maggiore libertà dall'uno all'altro.

    Questo aspetto è presente anche nella riflessione di Baumann (1999) secondo il quale l'individuo è simile ad un "pellegrino" che viaggia in un "mondo-deserto". Questi è capace di ricostruire il senso della propria vita e di attribuire un significato al suo percorso biografico soltanto quando è arrivato alla meta, attraverso una riflessione a posteriori. Infatti, aggiungono Berger e Kellner (1973), la biografia individuale è un "progetto" guidato dalla definizione della propria identità. L'individuo stesso dà significato alla propria vita, che coincide, allora, con la propria persona, "quasi dare la nascita a se stesso" (Berger e Kellner 1973). Proseguiamo con Bellah (1985) il quale afferma che l'individuo tende ad essere responsabile unicamente nei confronti del proprio self e a fare della piena realizzazione di questo l'autentico significato della sua vita.

    Come già accennato, l'individuo è inserito nel più ampio contesto sociale e culturale e nutre altri bisogni che vanno ad informare la sua storia di vita. Tra questi ricordiamo quelli che Trist (1976) definisce "autonomy" e "homonomy". Ovvero, da un lato l'individuo matura la propria separatezza dagli altri e dall'ambiente, dall'altro si riconosce come intimamente parte di un "universo" più grande di lui. Quest'ultimo si lega ai bisogni di "interdipendence", al quale aggiungiamo quelli di relazionalità, di reciprocità, d'appartenenza.

    Critica nei confronti dell'approccio biografico è, invece, la posizione di Bourdieu, che, nell'opera Ragioni pratiche (1994), ci parla di "illusione biografica". Non è possibile concepire la vita secondo una storia, ovvero come un cammino lineare che si snoda da un principio e, attraversando delle tappe sequenziali l'una all'altra, giunga alla fine. La vita non può essere considerata come un tutto guidata da una coerente intenzionalità o da una chiara progettualità orientata al raggiungimento di uno scopo che dia senso all'esistenza. Le categorie di "significato" e "direzione" vengono meno e la vita non può più essere trattata come "una narrazione coerente di una sequenza significante e orientata di eventi" (Bourdieu 1994); tutto questo è soltanto "illusione retorica" tramandata dalla tradizione letteraria.

    Al contrario, il reale è discontinuo, "formato da elementi giustapposti senza motivo" (Bourdieu 1994) e in modo aleatorio. Ciò che conferisce unità all'esistenza non consiste in nessuna delle meta-operazioni mentali che un individuo può svolgere, ma unicamente nel nome proprio - nome di battesimo, registrato all'anagrafe - che ne individua l'identità sociale, comprovata dalla firma autografa. Il rischio evidenziato da Bourdieu (1994) è molto chiaro. L'identità consisterebbe esclusivamente nelle proprie generalità anagrafiche, le uniche capaci di dare unità e totalità nel tempo e nello spazio all'individuo. Ma si tratta, appunto, pur sempre di 'generalità' che si limitano a stabilire uno sterile rapporto tautologico di identità (A è uguale ad A, questo individuo è Nome e Cognome), ma senza produrre alcuna nuova conoscenza né, tanto meno, garantire la tanto pretesa autenticità della persona.

    L'approccio autobiografico è, invece, per sua peculiare natura, idiografico, volto al particolare, alla singolarità dell'esistenza individuale. Non pretende di giungere a leggi di portata universale, ma si mantiene nei limiti di un determinato contesto culturale e antropologico, tanto che le stesse categorie di analisi qualitative non potrebbero essere esportate da una cultura a un'altra senza adattamenti opportuni o radicali ripensamenti dell'impostazione di fondo. Dunque, identità come coscienza 'esatta' -termine lontano, in questo testo dall'accezione semantica delle scienze fisico-matematiche-, ovvero conscia dei propri limiti, in quanto mutevole e fluente nel tempo e nello spazio, della propria storia di vita come totalità distinguibile e individuabile. D'altra parte, nelle pagine di Bourdieu (1994) ricorre quello stesso punto focale già presente in Bergson (1970, 1972), ovvero ogni descrizione di sé sarebbe valida sono nei limiti di un momento e di uno spazio. Perciò, soltanto astraendoci - diceva Bergson (1970, 1972) operando dei "tagli" nel flusso della nostra esistenza - possiamo costruirci. Allora, l' "individuo costruito" emerge dall' "individuo concreto" (Bergson 1970, 1972) e lo problematizza.

    Alla domanda se sia possibile rintracciare nell'esistenza quello che Robbe-Grillet (1985) definisce un "minimo significato unificante", Ricoeur (1990) risponde affermativamente, senza esitare. Anche il pensatore cattolico ha riflettuto sulle tematiche dell'autobiografia e della narrazione di sé e del proprio vissuto. La sua prospettiva processuale e narrativa dell'individuo è esposta nell'opera Soi même comme un autre (1990). Qui l'autore respinge con decisione la concezione dell'identità individuale come un puzzle e coglie l'individuo nella sua uguaglianza e singolarità, nella sua identità e diversità. Infatti, è nella narrazione che si compie il lavoro di 'identizzazione' e l'identità narrativa si distingue in mêmeté e ipseité (Ricoeur 1990). Da un lato l'individuo si riconosce unico e uguale a se stesso; dall'altra si scopre singolare, individuale e, possiamo aggiungere, un unicum. L'istanza di sostanzialità, ovvero dell'Io che si percepisce immediatamente se stesso (emergono echi bergsoniani), si sposa con quella di riflessività. E soltanto quest'ultima, l'identità riflessiva, può farsi narrativa attraverso il linguaggio, conciliando l'identità con se stessa e con la diversità a cui va incontro nel divenire.

    Interessante è la declinazione in senso riflessivo che Demetrio attribuisce al verbo 'raccontare' nella sua opera Raccontarsi: l'autobiografia come cura di sé (1995). Lo sviluppo del pensiero autobiografico rientra nella categoria della cura: "chi (...) da sempre si dedica al racconto sistematico di sé (è preso da uno) stato di benessere" (Demetrio 1995). La categoria della cura è stata recentemente ben approfondita da Luigina Mortari nel suo libro Aver cura della vita della mente (2002). Aver cura di sé risponde all'esigenza autobiografica di "disegnare di senso il tempo della vita" in modo autentico e responsabile. Dunque, narrarsi autobiograficamente vuol dire aver cura di sé; cura intesa anche come "premura" e "devozione" (Mortari 2002) verso se stessi.

    E una narrazione autobiografica autentica ha tanto più senso quanto più emerge da una vita vissuta autenticamente. Dunque, autobiografia, cura, etica come dimensione strettamente intrecciate tra loro. Demetrio (1995) ci offre un altro interessante suggerimento. Narrarsi vuol dire intraprendere un "viaggio", un percorso di auto-formazione, durante il quale si ha se stessi come unico alimento di cui "cibarsi". La riflessione sulla propria storia di vita può essere fonte di vita?

    CRITICA LETTERARIA E AUTOBIOGRAFIA: APPUNTI PER UNA GRIGLIA DI ANALISI

    Come abbiamo visto sopra, Bourdieu (1994) rifiuta una filosofia della storia di vita come successione di eventi e rifiuta che di questa storia sia possibile farne un racconto, una narrazione un romanzo. Mi permetto di allontanarmi da questa impostazione. Tuttavia, ne colgo uno spunto che reputo interessante. Secondo Bourdieu, soggetto e oggetto della narrazione autobiografica - che nel taglio da me dato all'articolo, come vedremo, coincidono - decostruiscono e ricostruiscono secondo una logica intellegibile la propria vita. Tendono, cioè a farsi "ideologi" (Bourdieu 1994), selezionando e rendendo coerenti gli eventi, ritenuti significativi, della propria vita. Il risultato è, ovviamente, una "creazione artificiale di senso". Ma, vorrei dare al termine 'artificiale' una diversa connotazione semantica, ovvero come 'non-naturale', 'intenzionalmente costruito e progettato'. E una narrazione autobiografica vuole essere meditata, anche filtrata alla luce del senso che l'autore-narratore attribuisce al proprio romanzo di vita.

    L'individuo svolge costantemente attività di costruzione, lettura e interpretazione del proprio vissuto. Egli sviluppa la propria storia, ne tesse la trama e la dipana in forma narrativa. Attraverso il linguaggio l'individuo diventa 'oggetto a se stesso', dando vita a un rapporto continuamente reversibile tra ego e alter, laddove alter può corrispondere effettivamente a un individuo terzo. L'individuo come soggetto esce da sé e diventa oggetto, senza cessare di pensarsi unitario, ovvero unione inscindibile di soggetto e oggetto, di ego e alter. Dunque, l'individuo come esperienza immediata in quanto soggetto; come esperienza mediata in quanto oggetto. Possiamo riprendere l'espressione di William James (1998), affermando che l'Io mette in atto una "attiva tensione" per costruirsi in maniera unitaria e coerente.

    Questo discorso torna tanto più utile se consideriamo che è il soggetto stesso a scrivere di sé, a manifestare verbalmente il proprio vissuto. L'individuo è il romanzo di se stesso nella veste di autore, narratore e contenuto. Dunque, l'autobiografia come narrazione del vissuto individuale. L'autobiografia come un testo e, in quanto tale, con un suo linguaggio e una sua critica, coerente con i canoni del sistema sociale e culturale di appartenenza. Essa si attua, allora, secondo diversi generi letterari. A partire, appunto, dal genere narrativo, tenendo presente che accanto alla prosa narrativa, l'autobiografia può snodarsi anche come diario o sotto forma di lettere. A una narrazione autobiografica di primo livello di riflessione sui propri eventi di vita, segue una narrazione di secondo livello, che possiamo definire 'meta-narrazione autobiografica'. Essa concerne i procedimenti utilizzati per redigere il proprio romanzo autobiografico e, dunque, consente una meta-riflessione più accurata e profonda sulle modalità attraverso cui il proprio vissuto è stato 'messo in scena'.

    Di seguito vorrei suggerire, senza alcuna pretesa di esaustività, alcuni criteri di analisi di una narrazione autobiografica. Nella forma narrativa più semplice il narratore coincide con l'autore e fa proprio il punto di vista di quest'ultimo. Potrebbe essere interessante osservare se prevale una costruzione impersonale ('Sembra che', 'E' risultato che') o personale ('Evinco che', 'Ho agito in modo tale da') del periodare e, ancora, se questo si sviluppa o no secondo più proposizioni sequenziali, legate da connessioni causali e temporali; se il fulcro dell'attenzione è posto all'inizio o al termine della frase; se il narratore ricorre alla prima o alla terza persona; se si riferisce a se stesso utilizzando o no il nome proprio; se gli altri individui, che nella narrazione entrano come personaggi, sono indicati con i loro nomi di battesimo, in modo deittico o con altri nomi secondo un libero gioco semantico. In ogni caso attribuire un nome non è mai un'operazione neutra. Infatti, il "piacere di inventare i nomi", di cui parla Stillman, rende molto bene il nesso che si instaura tra il nome stesso come segno e le caratteristiche che al personaggio vogliamo attribuire. Così come non è mai un'operazione casuale l'attribuire ai personaggi tratti mascolini, femminili o androgini, come Jane Austen spesso ha fatto nei suoi romanzi.

    La propria autobiografia può dipanarsi come flusso di coscienza - cui abbiamo accennato sopra. Il flusso di coscienza ben si presta a descrivere un'esperienza, interiorizzandola e assumendo un approccio fortemente introspettivo. Sono altre due le tecniche narrative che offrono una apertura diretta sulla coscienza. Il monologo interiore e il discorso indiretto libero. Si tratta di tecniche che, soprattutto nei diari, consentono una immediata verbalizzazione dei propri pensieri in modo fluido. In particolare, nel discorso indiretto libero il narratore utilizza la terza persona, giustapponendo in modo altamente informale su di un medesimo piano narrativo la descrizione dell'azione compiuta al verbo che la introduce, come 'dire', 'pensare', 'domandare'.

    Il ricorso all'anacronia è un indice interessante per osservare a partire da quale momento della propria vita l'autore-narratore inizia il racconto. Egli, come Ulisse, può scegliere di collocarsi in un momento passato della propria vita e da lì procedere ulteriormente a ritroso per poi narrare gli eventi posteriori al 'momento-partenza' e giungere fino al presente. Tale 'momento-partenza' potrebbe essere stato scelto perché vi è associato un evento di vita cui l'autore-narratore attribuisce una valenza altamente significativa. D'altra parte, l'autore-narratore può intenzionalmente introdursi come proprio lettore nel testo narrato per esplicitare strategie consapevoli di meta-riflessione. La narrazione può procedere con il distacco proprio di una narrazione diegetica o di un romanzo - documento da parte di una voce esterna come in Una vita di Svevo o anche dal narratore stesso come ne La coscienza di Zeno del medesimo autore. Proprio in questo romanzo è interessante la pluralità dei punti di vista che si alternano e si oppongono. All'io narrante, ovvero Zeno anziano che scrive le sue memorie, si affianca l'io narrato, ovvero il giovane Zeno; al narratore-paziente si alterna il destinatario, ovvero lo psicanalista, in un continuo gioco di rimandi.

    La narrazione autobiografica, perché abbia senso, presuppone un destinatario, che può essere l'autore-narratore stesso o una terza persona, come altra o coinvolta negli eventi-narrati. Identificare il destinatario-lettore può, dunque, essere utile per comprendere lo scopo a cui risponde tale narrazione di sé. Questa riflessione ci introduce a un'altra importante categoria, quella del tempo. La narrazione degli eventi di vita può non essere lineare e cronologica, ma il passato può richiamare il presente e il presente irrompere in qualunque istante del passato che viene narrato. Alla base di queste analisi deve, comunque, esserci sempre un presupposto irrinunciabile, ovvero come Giddens ha evidenziato, che il narratore si presenti come attendibile e garante dell'autenticità del contenuto narrato.


    BIBLIOGRAFIA

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