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    M@gm@ vol.2 n.2 Aprile-Giugno 2004

    AUTOBIOGRAFIA, CONOSCENZA E IMPLICAZIONE DEL RICERCATORE


    (Traduzione Orazio Maria Valastro)

    Magali Humeau

    magali.humeau@wanadoo.fr
    Dottoranda in Scienze dell'Educazione, Università degli Studi di Pau-Pays de l'Adour; Formatrice presso il Centro Accademico di Formazione Continua di Poitiers.

    La scrittura autobiografica si distingue, a priori, dalla scrittura di ricerca. Se la prima è dominata dalla soggettività del suo autore, la seconda, al contrario, deve essere la depositaria di un' "oggettività" cara agli uomini di scienza. Noi intendiamo esaminare, da adesso in poi, questa distinzione che non è così neutra come si vorrebbe far credere. Madeleine Grawitz (1986, p.651) sottolinea l'interesse crescente dei ricercatori in scienze sociali verso i documenti personali (racconti, autobiografie, ecc.), Orazio Maria Valastro (2002), riprendendo Demetrio, mette in rilievo come raccontarsi costituisce una terapia del sé nel quadro di un percorso di formazione. Da parte nostra speriamo di esaminare l'apporto dell'autobiografia praticata dal soggetto-ricercatore nel quadro dell'approccio scientifico.

    Noi affronteremo con Foucault, in un primo momento, le modalità di controllo praticate sui discorsi scientifici e sui discorsi di tipo autobiografico per concepire in seguito l'incompletezza e l'apertura propria a quest'ultimo. Servendoci in seguito dalla nostra esperienza, presenteremo un percorso formativo di ricerca che prevede il ricorso al racconto autobiografico. Vedremo, infine, come l'autobiografia permetta al ricercatore di sviluppare la sua conoscenza e il "significato" che lo mette in relazione intima al suo oggetto di ricerca come con se stesso.

    1. L'incompletezza nell'autobiografia

    Il termine "autobiografia" è facilmente divisibile: auto (se stesso), bio (vita) e grafia (scrittura). Si tratta della scrittura o del racconto della propria vita. Il tipo d'autobiografia al quale noi c'interessiamo non è l'autobiografia in quanto documento personale fondante un corpus di ricerca ma l'autobiografia come scrittura del ricercatore rispetto alla propria vita, il suo percorso personale e/o professionale, riuscendo a facilitare o sviluppare la sua ricerca, avente dunque una funzione "pedagogica". In entrambi i casi "i documenti espressivi non restituiscono soltanto dei fatti, ma anche il significato che essi hanno avuto per quelli che li hanno vissuti e li descrivono col proprio linguaggio." (Grawitz, 1986, p.651) Non è il documento come prodotto che in questo modo ritiene la nostra attenzione ma il processo di costruzione dei rapporti di significato, ovverosia di formazione della relazione tra il soggetto e il suo oggetto di ricerca. "Supponendo che l'esperienza e il vissuto si presentano in trasparenza nel linguaggio, il linguaggio non esisterebbe, essendo caratterizzato com'esperienza." (Oster, Encyclopedia Universalis) Sembra dunque che sia la restituzione come osservazione dell'esperienza trascorsa che conduce il soggetto a comprendere quello che lo lega alla sua ricerca e dunque a trasformare quest'ultima.

    Il valore scientifico di quello che potrebbe essere raccontato in un'autobiografia, è di per se stesso problematico. Ogni racconto autobiografico è un discorso auto-riflessivo, enunciato di un soggetto rispetto alla propria vita. Questo racconto ha, di fatto, un valore nella misura in cui colui che parla racconta di se stesso. Ma dal punto di vista scientifico non può avere alcun valore di veridicità in quanto nessun altro a parte colui che l'enuncia ha i mezzi per ricusarlo. Foucault definisce ciò di cui è qui questione come il "principio dell'autore" (Foucault, 1971): il semplice fatto d'identificare l'autore di questo tipo di discorso gli attribuisce il suo valore. Questo principio limita la combinazione fortuita del discorso attribuendo al linguaggio la sua individualità e la sua unicità. Ma nel quadro della ricerca, sempre secondo Foucault, un altro processo di controllo del discorso è in atto: quello legato alla volontà di verità (Foucault, 1971) propria ad ogni disciplina di ricerca. Questi due principi sono inconciliabili? Il quesito non sembra sostanziale poiché rinvia a quello relativo alla validità del discorso, perciò riconduce alla pertinenza dell'autobiografia nell'ambito della ricerca. La distinzione delle nozioni di sapere e conoscenza permette d'approfondire e complessificare questa questione.

    La volontà di verità, di cui parla Foucault nella sua lezione inaugurale al Collegio di Francia, che oppone l'enunciato vero al falso, ci sembra che riposi largamente sulla logica Aristotelica secondo la quale un enunciato è sia vero, sia falso. "L'oggetto della logica è relativo al vero e al falso." (Piaget, 1949, p.3) E' lo "studio della conoscenza autentica, considerata nelle sue forme più generali." (Piaget, 1949, p.3) E' un'analisi formale della conoscenza. Gôdel ha dimostrato, con il teorema dell'incompletezza, il limite di tali sistemi logici all'interno dei quali ogni proposizione sarebbe sia vera sia falsa. Ha dimostrato che certe proposizioni matematiche, come ad esempio gli assiomi, sono propriamente indimostrabili, nella misura in cui portano su se stessi, quello che Hofstadter definisce "les boucles étranges" (Hofstadter, 1985). La conoscenza di tali sistemi resterà quindi eternamente incompleta. Gôdel rivela, inoltre, l'incomprensibilità definitiva delle essenze matematiche tuttavia creazione dell'uomo (Dupuy, 1984).

    Vediamo pertanto a questo punto come sia messo in discussione il processo di controllo del discorso attraverso la volontà di sapere poiché, con l'incompletezza, questa separazione tra vero e falso diventa impossibile. E' la specificità delle autobiografie quella di fondare il discorso su questa "autoreferenzialità", processo per il quale un soggetto si riferisce a se stesso e dunque dipende da se stesso (Lerbet, 2002). L'autore di un'autobiografia è al tempo stesso enunciatore e contenuto del discorso. "La discesa nell'autobiografia umana si accompagna (...) al riconoscimento che ciò che è più prossimo, quest' "io", è anche più lontano, ciò che è più personale è anche più incomunicabile." (Oster, Encyclopedia Universalis) Questa discesa corrisponde molto ad una forma d'incompletezza, d'impenetrabilità del soggetto attraverso se stesso, ciò che Barbier chiama insieme a Castoriadis il "senza-fondo" (Barbier, 2000), un'apertura verso la potenza creatrice dell'uomo e della società. "In Anassimandro, l'elemento dell'essere è l'apeiron, l'indeterminato, l'indefinito. (...) L'uomo stesso è un pozzo senza fondo, e questo senza-fondo è, evidentemente, aperto verso il senza-fondo del mondo." (Barbier, 2000) Questo senza-fondo è anche la stessa morte, l'impossibilità di fondere l'esistenza, l'autobiografia respinge quest'abisso che si ha alle volte l'illusione d'intravedere, abisso che è esperienza e confronto con la propria morte.

    Quale può essere il valore di un tale discorso autobiografico, in questo caso, nell'ambito di un approccio di ricerca? Proveremo adesso ad approfondire quest'argomento.

    II. Un esempio di formazione attraverso la produzione di sapere

    L'Unione Nazionale delle MFR d'Educazione e Orientamento propone a Georges Lerbet e Henri Desroche, nel 1975, di preparare una formazione per 22 quadri. Questa formazione, proposta inizialmente all'Ecole des Hautes Etudes in Scienze Sociali di Parigi, prosegue all'Università degli Studi di Tours determinando il conseguimento del DUEPS (Diploma Universitario di Studi di Pratica Sociale), oggi trasformato in DUHEPS [1]. Questo corso consiste nel "perfezionamento di una competenza per la redazione di una tesi importante, rigorosa sul piano scientifico e che s'inserisce nel campo delle scienze umane." (Lerbert, 1981, p.45) Il principio di questa formazione poggia su due processi collegati l'uno all'altro: lo sviluppo personale e la produzione di sapere: "La via verso la formazione autentica si regge sullo sviluppo di tutta la persona per un'attività autonoma d'apprendimento." (Lerbet, 1981, p.84) La relazione pedagogica si vuole paritaria, con l'ascolto della domanda e il rispetto del desiderio di apprendere. Per l'animatore, si tratta d'essere neutrale, facilitare, senza sostituirsi all'altro. Permette che il soggetto consideri il suo vissuto al di fuori delle preoccupazioni relative al risultato finale, che si focalizzi sul processo e non sul prodotto della sua formazione. Il soggetto in formazione non deve cercare un sapere conclusivo, precostituito, ma deve costruire le proprie conoscenze a partire dalla sua esperienza per metterla a distanza attraverso il lavoro metodologico e la costruzione di un sapere. "Il solo aiuto efficace che io possa apportargli consiste, in ultima analisi, ad apprendere con essa perché gestisca sufficientemente la propria angoscia al fine di arrivare ad una produzione socializzata." (Lerbet, 1981, p.129)

    Ho seguito questa formazione dal 1977 al 2000. Ogni anno era richiesta la redazione di un elaborato:
    alla fine del primo anno, un testo di una trentina di pagine dove ogni soggetto in formazione era portato a rivenire sul suo percorso personale, professionale, ecc., per presentare il proprio oggetto di ricerca;
    alla fine del secondo anno, un elaborato di circa cinquanta pagine per presentare il proprio metodo d'approccio del terreno e del proprio corpus di ricerca;
    alla fine del terso anno, una tesi finale che comportava una parte teorica, una parte relativa alla ricerca di terreno con il metodo d'approccio e l'analisi del corpus ed una parte che articolava e metteva in relazione quelle precedenti.

    Avevo intrapreso ad occuparmi, in questo contesto, delle rappresentazioni dello spazio, tema sul quale lavoravo da molto tempo senza veramente averne preso coscienza. Il testo autobiografico al quale qui mi riferisco è quello elaborato il primo anno (cf. appendice). E' una breve autobiografia relativa al paesaggio, alla geografia, all'orientamento spaziale, al mio vissuto in classe materna, ricordi precisi della mia casa da bambina, la scuola, un ritorno alla mia infanzia. Quest'autobiografia mi ha riconfortata nella scelta dell'oggetto della mia ricerca portandomi a costruire delle relazioni tra il mio rapporto con la scuola e con lo spazio. Specialmente scrivendo queste pagine sulla mia storia "spaziale" e geografica, quest'ultima si è sviluppata attorno ad una serie di ricordi sovrapposti ad un racconto quasi mitico per me nella misura in cui gli spazi della mia infanzia hanno preso la forma di un luogo propizio per l'immaginario, di un "radicamento in un luogo privilegiato (un topos) e (...) nella perennità di un lignaggio" (Durand, 1994, p.18). E' in questo modo che Durand descrive i luoghi mitici dei racconti romantici. Non ho scritto un romanzo ma il valore del mio paese d'infanzia, insieme alla sua storia e la sua preponderante geografia, trasmesse in modo particolare dal lignaggio femminile (bisnonna, nonna, madre) raggiunge la natura immaginaria del luogo romantico: "Sangue e suolo sono lo stesso simbolo della perennità di un luogo" (Durand, 1994, p.18).

    Questa formazione consisteva in un'iniziazione alla ricerca, vissuta da parte mia come un percorso quasi iniziatico, basato su un duplice confronto: con me stessa e la mia esperienza. La finalità dell'autobiografia è in questo caso pedagogica, deve consentire d'intravedere e rinforzare l'oggetto della ricerca nel quadro di una formazione per produrre sapere ma soprattutto deve permettere al soggetto di far propria la formazione senza disgregarsi, lasciando in disparte una parte di se stesso (affettiva, storica, sociale, ecc.). Si tratta di una pedagogia come produzione di conoscenza, che si differenzia dalle pedagogie attive per le quali il soggetto realizza delle attività, sperimenta, ma senza confrontarsi con se stesso, con la sua essenza o "interiorità ontologica" (Lerbet, 2002, p.93). Ora, è precisamente quest'autoreferenzialità che gli permette di sviluppare la conoscenza di se stesso e del suo oggetto di ricerca.

    III. Conoscenza e implicazione

    Legroux distingue la "conoscenza" dal "sapere" nei contesti d'apprendimento in situazione d'alternanza. Ma le definizioni che egli propone sembrano molto generalizzabili all'insieme delle pratiche di produzione di sapere, compresa la ricerca. Egli concepisce il sapere essendo situato all'interfaccia tra l'informazione e la conoscenza. Da una parte ci sono i dati esterni al soggetto, quantificabili, immagazzinabili spazialmente e non sempre sensati per il soggetto: sono le informazioni. Dall'altra ci sono dei rapporti di significato che fanno in modo che una situazione, un fenomeno, un'esperienza assuma un significato per un soggetto: sono le conoscenze. Passando da un polo all'altro, c'è il sapere: delle informazioni messe in relazione dal soggetto, dei rapporti di senso formalizzati. Ogni soggetto è un soggetto conoscente, sviluppa una conoscenza delle situazioni in cui vive, che sperimenta, siano esse familiari, affettive, professionali, ecc.

    La conoscenza presuppone di essere integrata dal soggetto globale, indivisibile, cognitivo-affettivo, e noi aggiungiamo altresì il soggetto sociale. Essa conduce dunque all'identità del soggetto, al suo essere, rinvia il soggetto a se stesso ed al suo ambiente. E' necessariamente più ricca che il sapere formalizzato. La conoscenza riposa su dei processi d'autoreferenzialità: "il soggetto si riferisce anche a se stesso ed (...) egli "scava" in sé per approfondire la propria conoscenza. Ora, dato che questo scavare (in senso iper o ipo) può teoricamente continuare all'infinito, il soggetto finisce per non avere più un'attualità di sé rispetto a se stesso, volgendosi verso la vacuità che non è il vuoto o il nulla, ma è piuttosto del potenziale." (Legroux, 1981, p.139) Questo potenziale è una reale apertura della coscienza sull'indeterminato, rivela inoltre l'incompletezza propria alla conoscenza e il potere creativo dell'uomo.

    Il ricercatore, di conseguenza, in quanto soggetto partecipe della produzione di saperi relativi rispetto a degli oggetti, non può farlo senza conoscenza, senza questo rapporto intimo e sempre incompleto con se stesso che può approfondire attraverso l'autobiografia. La conoscenza di sé è dunque indissociabile dalla conoscenza degli altri e delle cose esteriori. Da un punto di vista epistemologico ciò porta ad intravedere dei rapporti d'implicazione tra il ricercatore, anche apprendista, e il suo oggetto di ricerca. Implicare deriva, etimologicamente, dal latino implicare che significa piegare all'interno, inviluppare. Vi è dunque l'idea di qualcosa di nascosto, di sconosciuto o addirittura d'incomprensibile. Questo tipo d'implicazione tra soggetto ed oggetto è stato meravigliosamente descritto da Merleau-Ponty a proposito dell'occhio del pittore nel suo ultimo saggio: L'oeil et l'esprit. Egli s'interroga su ciò che osserva Cézanne di fronte alla montagna Sainte Victoire: il paesaggio, se stesso o entrambi allo stesso tempo? Interrogando l'occhio del pittore, Merleau-Ponty interroga l'occhio umano, vedente e visibile, e simultaneamente l'Essere. Noi osserviamo immersi nel mondo, ne facciamo parte. Il nostro corpo fa parte delle cose visibili. Vede ed è esso stesso visto da ciò che lo circonda. Vede e si vede vedente. Noi osserviamo immersi nelle cose poiché noi ne facciamo parte. E' in quest'enigma tra "vedente-visibile" che Merleau-Ponty esplora i problemi della pittura. La visione manifesta si duplica di una visione "segreta": per questa "boucle" del corpo vedente e visibile, la visione fa ben altro che mostrarci una rappresentazione del mondo.

    La pittura permette di accedere a quest'interiorità dell'essere, contiene questa duplicità del sentire. Essa mostra ciò che è invisibile: la struttura dell'Essere, la visione interna del pittore che non è univoca e si rinchiude su se stessa aprendosi contemporaneamente sul potenziale proprio dell'atto creativo, che ribalta il dentro e il fuori, il pittore nell'atto di percepire le cose che lo contemplano. La conoscenza del ricercatore è analoga a quella del pittore? Si situa in un simile rapporto di complessità? Se decidiamo di adottare il concetto di conoscenza come lo sviluppa Legroux, in questo caso la risposta sembra sia "si". Perfino se prendiamo in considerazione i metodi delle scienze sociali adoperati nei rapporti d'implicazione: "La ricerca-azione è in conseguenza di ciò un processo partecipativo e collaborativo di riflessione su sé e sui propri campi d'attività, deve influire sulle condizione della pratica educativa, è una reale epistemologia della pratica. L'esperto apprende partendo dalla propria esperienza, nella sua ricerca include anche le dimensioni psico affettive della propria esistenza (...)" (Bertin, 2002, p.5) L'autobiografia trova il suo posto egualmente nel tragitto antropologico che, come lo definisce Georges Bertin (2002), associa alle intimazioni dell'ambiente i dati soggettivi, senza i quali il futuro ricercatore in formazione sarebbe incapace ad assumere l'incompletezza e la complessità delle situazioni che vivrà.

    Ogni ricercatore o esperto in scienze sociali è in un modo o in un altro implicato nella situazione oggetto della sua ricerca, qualunque essa sia [2]; egli è "implicato" vale a dire "preso nelle pieghe" dei fenomeni osservati ed in quelli della propria storia. Pertanto, "non c'è coscienza senza storia né storia senza corpo, in quanto l'esperienza individuale è irriducibile e molto reale." (Bertin, 2002) Il ricercatore agendo in una situazione ne fa parte, non può tirarsene fuori, e quindi operando opportunamente su questa situazione opera anche su se stesso. E' precisamente questo rapporto d'implicazione soggetto/oggetto che l'autobiografia permette di trattare e distanziare senza mai tuttavia completarlo nel linguaggio scritto.

    Questo testo riprende, in qualche modo, l'articolo di Georges Bertin (Bertin, 2002 e cf. anche Durand, 1960) pubblicato in questa stessa rivista: egli vi espone uno sguardo critico sulla formazione degli esperti nella pratica sociale che non sono preparati a considerare la loro implicazione di formatori/ricercatori nelle situazioni professionali incontrate. Il nostro punto di vista è qui differente poiché è in maggior misura la relazione individuale tra il ricercatore e il suo oggetto che noi interroghiamo. Questi due approcci ci sembrano, nonostante tutto, complementari. E la formazione che noi abbiamo presentato è senza dubbio un contro esempio delle pratiche più diffuse poiché attraverso la scrittura relativa al proprio percorso, mettendo in questione l'identità d'esperto, di futuro ricercatore, essa permette al soggetto di abbordare la sua ricerca considerando la propria implicazione, qualunque sia la situazione oggetto della ricerca.

    L'autobiografia dell'esperto/ricercatore assume quindi, in questo quadro, un ruolo considerevole: la corrente dell'analisi istituzionale ne ha fatto un documento di ricerca conosciuto come "giornale di ricerca" o "giornale d'itineranza" (Barbier, 1996); essa partecipa al lavoro d'implicazione del ricercatore rispetto al suo oggetto e reciprocamente, dell'oggetto rispetto alla soggettività del ricercatore. Essa partecipa del cambiamento epistemologico che assume l'incompletezza propria di qualsiasi conoscenza e considera la sua implicazione attraverso questo movimento su di sé e sulla propria esperienza. Questo legame tra incomprensibile e implicazione meriterebbe di essere scavato e sviluppato. Probabilmente deve essere ricercato forse in questa dimensione sacra dell'essere verso la quale ci conduce il "senza-fondo", l'incompletezza propria alla conoscenza. Ritroviamo la dimensione immaginaria rilevata nel nostro percorso di formazione con la costituzione del nostro luogo d'infanzia come topos, spazio immaginario legandoci alle nostre origini alla nostra morte. Se Durand fa dello spazio la forma a priori del fantastico (Durand, 1994), sembra dunque che ogni conoscenza, come Legroux definisce questo concetto, abbia anche a che vedere con l'immaginario per la sua incompletezza e la sua dimensione sacra, vale a dire collegandoci all'inconsueto (Goguel d'Allondans, 2002). La conoscenza, attraverso l'autobiografia, ci lega a questa parte di sé che sfugge, che possiamo definire ignoto, inconscio, o vacuità (Lerbet, 2002, p.100). Essa è allora incomunicabile, rispetto alla gnosi e all'esoterismo che assume la parte interiore e invisibile della formazione o della ricerca.

    Appendice: un estratto dell'autobiografia alla quale faccio riferimento in questo testo

    "Sono nata e cresciuta sul bordo dell'oceano atlantico. Mio padre aveva costruito la nostra prima casa a cinquanta metri dalla costa selvaggia. Dopo la scuola, mia madre vi ci conduceva, me e le mie sorelle, tutti i pomeriggi nelle belle giornate. Dalla finestra della cucina, guardavamo il calare del sole e al largo, i fari delle barche in contro luce. Mia madre amava questa vista. Parlava spesso di questa finestra.

    A casa mia, il mare era ad ovest, ma anche a sud. La grande spiaggia di fronte al sole e con le spalle ai venti dominanti. Malgrado i suoi vantaggi, noi preferivamo la spiaggia della Paracou, occidentale e più selvaggia, con i fari delle barche un chilometro al largo della costa, poi l'America verso la quale nuotavamo quando non c'era troppa corrente!

    Quando ripenso alla mia infanzia, i luoghi dove ho vissuto sono orientati rispetto all'Atlantico. Alla scuola materna, la classe era orientata verso il mare. Me ne ricordo molto bene. Ero seduta in mezzo alla prima fila. Un piccolo porta inchiostro era incastrato alla destra di ogni banco. Ero mancina. Ogni volta che prendevo il pennino con la mano sinistra per immergerlo nell'inchiostro situato a destra, la maestra mi colpiva la mano sinistra con un oggetto di plastica dura. Conservo un ricordo preciso di questa classe: l'ovest di fronte con il mare cinque cento metri davanti a me, il sud a sinistra dalla parte delle finestre troppo alte.

    Ho appreso a differenziare la mia mano sinistra dalla mia mano destra in questa classe, girata verso l'ovest. Oggi, quando cerco la sinistra o la destra, situo l'oceano davanti a me. Ogni luogo della mia infanzia è orientato rispetto al mare: nella mia stanza, il mio letto gli stava di fronte; nella classe di matematica, gli volgevo le spalle; a tavola in casa, gli mangiavo di fronte.

    Il mare è il mio riferimento geografico, il mio punto cardinale. Dovunque io vada, ho conservato il bisogno di orientarmi a partire da esso e dal suo corollario: l'ovest. Se io mi dico: "L'ovest è da quella parte", nello stesso tempo, vedo il mare davanti a me. Mi aiuta a situarmi fisicamente nel mio ambiente. Legandomi più intensamente con il mondo, ha strutturato il mio spazio geografico e sensoriale in quanto la spiaggia è un limite, una frontiera che soltanto i marinai oltrepassano. Noi non siamo fatti per vivere nel o sul mare. In estate, si gioca a starvi sopra quando si nuota e dentro quando ci s'immerge! Ma l'acqua è quasi sempre fredda. Non vi si entra così. E poi ci sono le onde che ci respingono, che ci tirano. Entrare in mare esige di averne molta voglia! Quando vivi accanto ad esso, sai in permanenza dove sia esattamente. Grazie alla sua presenza fisica, il mio corpo trova il suo posto. Con esso, ho costruito quello che chiamo abitualmente il senso dell'orientamento." (Humeau, 2000)


    NOTE

    1] Nel 1997, il DUEPS fu modificato in DURF (Diploma Universitario Responsable de Formation), poi nel 2000 in DUHEPS (Diploma Universitario d'Hautes Etudes de la Pratique Sociale).
    2] Abbiamo presentato la nostra e????£?sperienza relativa allo spazio ma il lavoro autobiografico può avverarsi pertinente anche per altri oggetti di ricerca.


    BIBLIOGRAFIA

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